I semiconduttori: il nuovo petrolio tecnologico

, di Rita Campus

I semiconduttori: il nuovo petrolio tecnologico

I semiconduttori sono diventati il nuovo petrolio del XXI secolo e Cina e Stati Uniti sembrano essersene accorti. I disagi causati dalla pandemia hanno mostrato la fragilità delle catene di approvvigionamento globali, così come l’importanza di proteggere i settori sensibili per la sicurezza nazionale, tra cui affiorano i microchip.

Oggigiorno, la produzione e il commercio di microchip è estremamente importante, tanto che vengono considerati il “petrolio tecnologico”, ovvero la componente essenziale alla base della crescita economica, della sicurezza e dell’innovazione tecnologica. In un mondo sempre più digitalizzato, i chip sono diventati essenziali per la maggioranza delle attività economiche e la loro mancanza può causare gravi interruzioni della produzione. Come accaduto in altri settori (ad esempio quello farmaceutico e medico-sanitario), la pandemia ha sottolineato quanto il mondo odierno sia interconnesso e i gravi danni che può causare una persistente interruzione delle catene di approvvigionamento del valore.

Il rapporto tra i governi e l’industria dei microchip: La crescente importanza dei semiconduttori ha portato numerosi governi a creare nuovi fondi e fornire contributi nel settore. L’obiettivo è cercare di ridurre la dipendenza da altri paesi per quanto riguarda la produzione dei chip, così da essere in grado di soddisfare la domanda interna anche in situazioni non convenzionali (proprio come lo scoppio di una pandemia globale).

Uno dei paesi che per primi si è mosso in questa direzione è la Repubblica Popolare Cinese (RPC), la quale fin dal 2015 ha definito una strategia di politica industriale chiamata “Made in China 2025”. Il piano ha evidenziato dieci aree chiave da rafforzare, tra questi, i semiconduttori sono considerati uno dei settori da cui la Cina deve ridurre la propria dipendenza tecnologica dall’Occidente.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti (USA), nel primo anno in carica del Presidente Biden la sua amministrazione ha implementato una nuova strategia industriale volta a rivitalizzare la produzione nazionale, creare nuovi posti di lavoro e rafforzare le catene di approvvigionamento americane. Nel 2022, gli USA hanno anche adottato il CHIPS and Science Act, il quale fornisce 52,7 miliardi di dollari a sostegno dell’industria, inclusi fondi per costruire nuove, più moderne apparecchiature e attrezzature per la produzione dei microchip, così come denaro per la ricerca e lo sviluppo nel settore.

L’Unione Europea (UE) è invece arrivata in ritardo. Poco prima dell’invasione russa in Ucraina, la Commissione Europea ha proposto l’European Chips Act in modo da rafforzare la competitività e la resilienza dell’UE nel settore dei semiconduttori, contribuendo a realizzare la transizione digitale e quella verde. Il Chip Act ha come obiettivo quello di aumentare la produzione di chip dell’UE al 30% entro il 2030.

La Chip War tra Cina e Stati Uniti: Dopo questa breve premessa riguardo l’importanza dei semiconduttori nell’economia odierna, non è difficile immaginare gli screzi e gli scontri tra la RPC e gli USA per contendersi la supremazia nel settore, soprattutto da quando la pandemia ha accentuato l’alto grado di interdipendenza, ormai irreversibile, tra i diversi paesi. Inoltre, l’inserimento dei microchip tra le tecnologie considerate “critiche” e, soprattutto, “dual-use” (ovvero quelle tecnologie che possono avere applicazioni sia civili che militari) non fa che aggiungere un ulteriore motivo politico/difensivo per investire nella produzione interna e limitare gli investimenti stranieri nel settore. Un esempio sono gli USA che lo scorso 7 ottobre avevano annunciato delle limitazioni riguardo l’export di semiconduttori verso la Cina. In base alle nuove regole dettate dall’amministrazione Biden sul tema, i produttori di microchip hanno bisogno di licenze speciali per poter esportare i loro prodotti in Cina e a qualunque cittadino statunitense è vietato lavorare per aziende cinesi nel settore. L’applicazione di queste restrizioni sempre più incalzanti ha fatto si che Pechino esponesse reclamo all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) il 15 dicembre 2022. Nel reclamo, la RPC ha accusato gli USA di aver usato liberamente e a loro vantaggio il concetto di “sicurezza nazionale”, ostacolando il commercio internazionale e minacciando la stabilità delle catene di approvvigionamento globale ancora deboli dai danni causati dalla pandemia. La risposta di Washington non ha tardato ad arrivare, gli USA hanno infatti ribadito che la WTO non è la sede adeguata a risolvere questioni relative alla sicurezza nazionale e che non sono intenzionati a rimuovere le nuove misure. Al contrario, gli USA hanno inserito 36 aziende nella loro Entity List, la quale impone l’ottenimento di una licenza per esportare prodotti specifici. L’obiettivo più noto dell’elenco è senza dubbio la Yangtze Memory Technologies (YMTC), accusata di aver violato i controlli sulle esportazioni americane. Delle 36 aziende in questione 35 sono cinesi e una giapponese ma gestita dalla RPC, la quale è stata presa di mira per via del “rischio di diversione”.

È chiaro che l’obiettivo statunitense sia quello di allargare la gamma di sanzioni e limitazioni verso la Cina nel settore, e un modo per farlo è convincere paesi e istituzioni a muoversi sugli stessi passi americani. Gli USA potrebbero avere difficoltà a convincere l’UE che nuove restrizioni agli investimenti siano necessarie per fermare l’avanzata cinese e in una recente riunione a Bruxelles i ministri del commercio dell’UE hanno espresso l’importanza di capire il reale funzionamento delle catene di approvvigionamento e delle catene del valore. Inoltre, ultimamente la Commissione Europea sta esplorando nuove strategie per ridurre gli investimenti esteri per poter garantire maggiore sicurezza economica, la necessità è stata innescata anche dal conflitto russo-ucraino, considerato nuova minaccia per la sicurezza economica dell’UE.

Recentemente, la RPC ha deciso di passare al contrattacco e il 3 luglio ha imposto restrizioni all’esportazione di due metalli chiave per la produzione dei semiconduttori, il gallio e il germanio. Il Ministero del Commercio cinese ha dichiarato che a partire dal 1° agosto questi due metalli saranno sottoposti a numerosi controlli intesi a proteggere la sicurezza nazionale cinese. Per poter continuare ad esportare questi materiali ci sarà bisogno di richiedere delle licenze direttamente al Ministero del Commercio cinese, inoltre, per procedere al commercio gli esportatori dovranno segnalare i dettagli degli acquirenti esteri e le loro richieste. Nonostante sia possibile reperire questi metalli anche in altri paesi (come Corea del Sud, ma anche Russia e Giappone), la Cina ad oggi rimane il fornitore più competitivo sul mercato, continuando a mantenere bassi i costi relativi all’estrazione e alla lavorazione.

Inoltre, ci sono possibilità che da qui ad un anno l’India entri in gioco come nuova produttrice di microchip sul mercato globale. Il 23 giugno, il Ministro delle Comunicazioni e dell’IT indiano, Ashwini Vaishnaw, ha dichiarato che Nuova Delhi si sta infatti preparando alla costruzione del suo primo impianto di semiconduttori e che prevede di iniziare le vendite a partire dalla fine del 2024. Nonostante ciò, le brutte notizie non tardano ad arrivare in India. Infatti, il 10 luglio, la Foxconn (la più grande produttrice di microchip al mondo) ha deciso di ritirare la Joint Venture (JV) da 19,5 miliardi di dollari che avrebbe permesso di iniziare i lavori di costruzione a Nuova Delhi. Le motivazioni dietro questa scelta non sono chiare, ma per quanto possano esserci ritardi e ostacoli nella costruzione del nuovo impianto in India, è importante sottolineare che l’entrata in scena di Nuova Delhi nel settore potrebbe rivelarsi determinante in futuro, perché darà la possibilità di diversificare le catene di approvvigionamento dei semiconduttori e permetterà di allontanarsi, almeno in parte, dall’influenza di Pechino.

Il ruolo cruciale di Taiwan: L’unico modo per rendere ancora più tese le relazioni tra RPC e USA sui semiconduttori è quello di inserire Taiwan all’interno della Chip War, e così è stato. Taiwan, infatti, produce oltre il 60% dei semiconduttori mondiali e oltre il 90% di quelli più avanzati sul mercato. La maggior parte di questi componenti tecnologici vengono prodotti da un’unica azienda, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (TSMC). A dicembre scorso, l’azienda taiwanese ha tenuto una cerimonia per celebrare l’apertura di una fabbrica di chip in Arizona ed è pronta ad aprirne delle altre in futuro. Ma questo evento ha anche suscitato dei malcontenti a Taiwan. Il Guomindang (GMD – il Partito Nazionalista Cinese di Taiwan) ha infatti accusato l’attuale governo taiwanese (guidato dal PPD – Partito Progressista Democratico) di aver “regalato” la più importante fabbrica di Taiwan agli USA, ma il PPD ha commentato che a Taiwan verrà comunque utilizzata una tecnologia più avanzata e che la ricerca permarrà all’interno del paese per permettere al settore di rinnovarsi continuamente. Inoltre, sempre più investitori stranieri si stanno voltando verso Taiwan: l’ASML, un’azienda olandese, aprirà il suo sesto stabilimento a Taipei quest’anno e Micron e Applied Materials, due aziende statunitensi, stanno iniziando a espandersi a Taiwan. Per quanto riguarda la Cina, la minaccia americana ha fatto si che Pechino cercasse nuove strategie per non perdere il proprio vantaggio su Taiwan rimanendo così indietro. Per fare ciò, la RPC sta utilizzando la promessa di generosi salari e vantaggi lavorativi per qualunque esperto taiwanese che voglia trasferirsi nella Cina continentale e, secondo Nikkei Asia, al momento sono circa 3000 gli ingegneri che hanno deciso di accettare l’invito di Pechino.

È chiaro che i semiconduttori siano diventati materia di competizione globale e che, come al solito, la Cina e gli USA non possano far altro che competere per raggiungere il primato anche in questo settore. Il ruolo di Taiwan nella vicenda è sicuramente cruciale e sarà anche decisivo per determinare la direzione che intraprenderanno le relazioni sino-statunitensi in futuro.

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