700 mila firme andate in “fumo”

, di Davide Cinotti

700 mila firme andate in “fumo”
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Inutili le 700 mila firme per la depenalizzazione della cannabis, come le 1,2 milioni raccolte a favore dell’’eutanasia legale. I referendum sono stati giudicati inammissibili dalla Corte Costituzionale. La sentenza è inappellabile.

Cosa prevedeva il referendum sulla cannabis?

Il quesito referendario proponeva di intervenire sia sul piano della rilevanza penale sia su quello delle sanzioni amministrative. L’obiettivo della consultazione popolare, la prima per cui sono state raccolte anche firme digitali, sarebbe stata la depenalizzazione della coltivazione di qualsiasi pianta per uso personale (ma mantenendo le pene legate alla detenzione, alla produzione e alla fabbricazione delle sostanze). Permetteva quindi di depenalizzare qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione dell’associazione finalizzata al traffico illecito.

Le ragioni della Corte Costituzionale

Il problema, secondo il Presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato, è soprattutto il primo dei tre ritagli proposti al Testo Unico sulle droghe, il 309/90: “il quesito è articolato in tre sotto quesiti e il primo, relativo all’articolo 73 comma 1 della legge sulla droga, prevede che scompaia tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, che non includono neppure la cannabis ma il papavero, la coca, le cosiddette droghe pesanti. Mentre la cannabis è nella tabella 2. Già questo sarebbe sufficiente a farci violare obblighi internazionali plurimi che abbiamo e che sono un limite indiscutibile dei referendum”. In più, “ci portano a constatare la inidoneità rispetto allo scopo perseguito perché il quesito non tocca altre disposizioni che rimangono in piedi e che prevedono la responsabilità penale delle stesse condotte”. Se il quesito non avesse riportato questo errore, sostiene Amato rispondendo alla domanda di un giornalista, avrebbe potuto anche essere ammesso. “Ma non sono io che scrivo i quesiti” - ha aggiunto - “se il quesito è diviso in tre sotto quesiti, io non posso toccare questo treno: se il primo vagone deraglia, si porta dietro gli altri due”.

Secondo Amato, la trattazione giurisprudenziale non è materia della Corte costituzionale. E a Marco Cappato, che ha accusato i giudici di “sentenza politica”, il Presidente ha risposto di essere assai meno politico di lui, facendo calare il silenzio in sala.

La difesa dei comitati

Il comitato promotore, composto da decine di associazioni che lavorano sugli stupefacenti da decenni, invece, ritiene la lettura di Amato sbagliata: dopo il 2014, scrivono, “il comma 4 è tornato a riferirsi alle condotte del comma 1, comprendendo così la cannabis. La scelta è quindi tecnicamente ignorante e esposta con il tipico linguaggio da convegno proibizionista”.

I promotori del referendum da mesi avevano spiegato che la richiesta di depenalizzare non solo la coltivazione di cannabis con principio attivo, ma tutte le coltivazioni, era l’unico modo per recepire una sentenza del 19 dicembre 2019 delle sezioni unite della Corte di Cassazione. All’epoca, la Corte aveva stabilito che vanno escluse dal reato di coltivazione di stupefacenti «le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica» che «appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore». Dettagli, che però hanno portato alla bocciatura.

“Le motivazioni addotte dal Presidente Amato e le modalità scelte per la comunicazione sono intollerabili«ha dichiarato il presidente del Comitato Referendum Cannabis Marco Perduca. Il quesito, hanno spiegato i promotori,»non viola nessuna convenzione internazionale tanto è vero che la coltivazione è stata decriminalizzata da molti paesi, ultimo tra questi Malta”.

«Il quesito era corretto e non lasciava spazio alla coltivazione a fini di spaccio di droghe pesanti» ha detto a Repubblica Leonardo Fiorentini, segretario del Forum Droghe, membro del Comitato promotore del referendum, che con un pool di attivisti e avvocati aveva scritto il quesito inammissibile per la Consulta. «Non abbiamo sbagliato. È la legge sulle droghe a essere scritta malissimo e abbiamo dovuto anche fare i conti con precedenti decisioni della Corte costituzionale che aveva già bocciato quesiti per la legalizzazione della cannabis, il nostro obiettivo finale. Era chiaro a chiunque avesse letto le carte che il referendum avrebbe depenalizzato la coltivazione di tutte le piante, senza però intervenire sulle pene per le altre condotte a fini di spaccio come la detenzione e la fabbricazione. Nessuno si sarebbe messo a coltivare coca o oppio sul balcone”. “Le piante di coca” - ha continuato Fiorentini - “per questioni climatiche, non crescono in Italia e non risultano sequestri. Cosa che invece accade per il papavero. Entrambe però, come è ben noto e al contrario della marijuana che è pronta per il consumo, necessitano di complicati processi di raffinazione per diventare eroina e cocaina».

«La cannabis è l’unica, tra tutte le sostanze contemplate nel Testo unico, che può essere assunta subito dopo la fase di coltivazione” - ha precisato in un’intervista alla Stampa Riccardo Magi - “di qui la scelta di eliminare solo il termine coltiva dalle condotte descritte al comma 1. Le altre, dalla fabbricazione alla raffinazione, restano punite. E sono necessarie per il processo produttivo delle altre sostanze stupefacenti. Quindi, il quesito non avrebbe inciso sulla punibilità di condotte attinenti ad altre droghe».

La cannabis in italia

Per approfondire l’argomento puoi leggere il mio articolo sul tema.

Al momento, chi coltiva cannabis in Italia, anche in casa, rischia da 2 a 6 anni di carcere. Ma oggi le stime più attendibili parlano, per la sola Italia, di oltre sei milioni di consumatori, presenti in tutte le fasce di età. Sullo sfondo, restano migliaia di malati affetti da patologie come sclerosi multipla, dolore oncologico cronico, cachessia (in anoressia, HIV, chemioterapia), glaucoma, sindrome di Tourette. Da quindici anni il ricorso a farmaci cannabinoidi è legale, ma la richiesta è lontana dall’essere soddisfatta: difficoltà di approvvigionamento, scarsa disponibilità dei medici alla prescrizione, costi eccessivi per un uso frequente, ridotta produzione nazionale. Sul piano amministrativo, il quesito puntava a eliminare la sanzione della sospensione della patente di guida e del «patentino» per i motorini, oggi prevista per chi viene trovato in possesso (in qualsiasi contesto) di una piccola quantità di droga per uso personale. Da quando esiste la legge, quasi un milione e mezzo di persone si è visto applicare questa sanzione.

E adesso?

Come per l’eutanasia, si deve ripartire dal Parlamento, ma la strada è impervia. Starà al Parlamento legiferare in merito, ma con l’attuale composizione è pressoché impossibile. Per avere leggi su eutanasia e cannabis legale, l’unica via resta quella di votare un Parlamento, alle prossime elezioni politiche, che sia in grado di farlo.

Ma sarebbe possibile?

In commissione Giustizia è ferma una proposta di legge che depenalizza i fatti di lieve entità legati alla cannabis e inasprisce gli altri. È possibile che quest’ultima venga discussa? Basti pensare che Gasparri, membro della maggioranza ha commentato: «un’ottima notizia, il partito della droga è stato sconfitto». A voi le vostre considerazioni.

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