Chi si recherà alle urne domenica 8 giugno dalle 7:00 alle 23:00 e lunedì 9 giugno dalle 7:00 alle 15:00 riceverà in mano cinque schede: le prime quattro (verde, arancione, grigia, rossa) riguarderanno l’abrogazione del decreto legislativo n. 23 del 2015, meglio noto come Jobs Act, che ha introdotto nell’ordinamento il Contratto a Tutele Crescenti (CATUC), nella parte riguardante la disciplina dei licenziamenti illegittimi nelle imprese con più di 15 dipendenti (quesito n.1); l’abrogazione parziale delle norme sui licenziamenti e le relative indennità nelle piccole imprese (quesito n.2), oltre che di norme in materia di contratti di lavoro a tempo determinato, inclusi durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi (quesito n.3) e infine l’abrogazione delle disposizioni che escludono la responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dai lavoratori dipendenti di imprese appaltatrici o subappaltatrici (quesito n.4). Verrà poi consegnata un’ultima scheda, di colore giallo, relativa al tema della cittadinanza.
Ma facciamo un passo indietro. Tre sono le tipologie di referendum previste dall’ordinamento giuridico italiano. Vi è il referendum consultivo, con il quale si chiede ai cittadini un parere su proposte di legge o politiche pubbliche. Questa tipologia referendaria non è vincolante e non richiede alcun quorum. Vi è poi il referendum costituzionale confermativo (art. 138 Cost.) con cui si conferma o respinge una legge di revisione costituzionale, che sia stata approvata con maggioranza inferiore ai 2/3. Trattandosi della conferma di una legge sulla quale il Parlamento ha già deliberato a favore, non è richiesto un quorum di partecipazione. Vi è, infine, il referendum abrogativo, con il quale si abroga in tutto in parte una legge o un atto avente forza di legge (decreti legge e decreti legislativi). In questo caso è richiesto un doppio quorum: un quorum qualitativo, ovvero l’ottenimento della maggioranza dei voti favorevoli, e uno quantitativo, secondo il quale, perché il referendum sia valido e quindi produca l’effetto abrogativo, occorre che si esprima il 50% più uno degli aventi diritto di voto. Questo è il caso di tutti e cinque i quesiti che ci verranno sottoposti tra pochi giorni: quesiti che richiedono il raggiungimento di entrambi i quorum (qualitativo e quantitativo) e che produrranno, in caso di esito positivo, un effetto abrogativo.
Vediamo ora nel dettaglio il caso del referendum riguardante la cittadinanza. Intitolato “Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana” e seguito dalla domanda «Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole ’adottato da cittadino italiano’ e ’successivamente alla adozione’; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: ’f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica’, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante ’Nuove norme sulla cittadinanza’?», il quesito può risultare molto complesso.
Nei fatti, l’articolo 9 della legge sulla cittadinanza attualmente in vigore (risalente al 1992), al quale si riferisce il quesito, è il seguente: “La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno: a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni; b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione; c) allo straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato; d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica; e) all’apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica; f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica”.
Se passasse il quesito, l’articolo verrebbe così modificato: “La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno: a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni; b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione; c) allo straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato; d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica; e) all’apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica; f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica”.
In sintesi, se il referendum sulla cittadinanza dell’8 e 9 giugno 2025 venisse approvato, in seguito alla riformulazione della lettera b ed eliminando la lettera f, potrebbe ottenere la cittadinanza «qualsiasi straniero maggiorenne che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni». In questo modo, si stima, intorno ai due milioni di persone potrebbero diventare idonee a richiedere la cittadinanza italiana, ai quali si aggiungerebbero circa 500.000 figli minorenni che acquisirebbero automaticamente la cittadinanza, derivandola dai genitori per ius sanguinis.
Bisogna però riflettere su cosa accade successivamente alla richiesta della cittadinanza. Infatti, il percorso per diventare cittadini italiani si rivela spesso lungo, complicato e costellato di difficoltà amministrative che scoraggiano anche i più determinati. Uno dei principali ostacoli risiede nei tempi di attesa: la legge prevede che la procedura per il riconoscimento della cittadinanza per residenza debba concludersi entro 36 mesi (ridotti da 48 dopo la riforma del 2020). Nella realtà dei fatti, tuttavia, molte pratiche restano bloccate per anni. I ritardi sono spesso causati da carenze di personale nelle prefetture, sistemi informatici inadeguati e una generale lentezza nella gestione delle pratiche. La raccolta della documentazione richiesta, poi, rappresenta un altro scoglio significativo: i richiedenti devono fornire certificati del proprio Paese d’origine che comportano spesso lunghe trafile burocratiche e difficili traduzioni. Inoltre, le indicazioni variano da una prefettura all’altra, creando confusione e disparità di trattamento. In molti casi, le richieste di integrazione documentale arrivano mesi dopo l’invio dell’istanza, riavviando di fatto la procedura. Anche chi sposa un cittadino italiano, e dunque non è soggetto al requisito di 10 anni di residenza ininterrotta, deve affrontare un percorso analogo, che prevede requisiti linguistici e tempi d’attesa lunghi.
Dal 2018, è richiesto il possesso di una certificazione di lingua italiana almeno di livello B1, che rappresenta una barriera ulteriore per molti stranieri, soprattutto donne provenienti da contesti svantaggiati. Non meno complicata è la situazione dei figli nati in Italia da genitori stranieri: secondo la legge attualmente vigente, questi bambini non acquisiscono automaticamente la cittadinanza, ma possono fare richiesta solo al compimento dei 18 anni, dimostrando la residenza ininterrotta in Italia dalla nascita. Spesso, però, la mancanza di consapevolezza o la difficoltà nel reperire la documentazione necessaria fa sì che molti perdano questa possibilità.
Nonostante le promesse di riforma da parte di vari Governi, la legge sulla cittadinanza italiana - risalente al 1992 - resta tra le più restrittive d’Europa. Governi di destra e sinistra si sono avvicendati negli anni con varie proposte per estendere tale cittadinanza, come la recente iniziativa dello ius scholae, volto a dare la cittadinanza a chi ha completato un ciclo scolastico in Italia. Nessuna di esse è stata mai approvata. È necessario porre l’attenzione anche sul fatto che diventare cittadini italiani non è solo un traguardo che lega l’individuo alla Repubblica italiana, ma rappresenta anche l’ingresso formale nella più ampia comunità dell’Unione europea.
Nel momento stesso in cui si ottiene la cittadinanza italiana, e con essa i diritti e i doveri sanciti dalla Costituzione, si acquisisce automaticamente lo status di cittadino europeo. Questo principio, stabilito dai Trattati dell’UE, sottolinea come la cittadinanza europea sia complementare a quella nazionale, senza tuttavia sostituirla: un legame indissolubile che apre le porte a una dimensione sovranazionale di diritti e tutele.
Ma cosa significa, in concreto, essere cittadini europei? Un esempio è il diritto alla libera circolazione e al soggiorno in tutti i Paesi membri dell’Unione europea. Non solo viaggiare per turismo, ma anche risiedere, studiare e lavorare in qualsiasi altro Stato membro, godendo tendenzialmente delle stesse condizioni riservate ai cittadini di quel Paese. Altro pilastro della cittadinanza europea è il diritto di partecipazione politica. Ogni cittadino italiano, in quanto cittadino europeo, ha il diritto di votare e di candidarsi alle elezioni del Parlamento europeo, contribuendo così a definire le future direzioni politiche dell’Unione e gode del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, anche se diverso da quello di origine, alle stesse condizioni dei cittadini di quello Stato. La cittadinanza europea garantisce, poi, anche il diritto alla tutela diplomatica e consolare: un cittadino italiano che si trovi in un Paese terzo, al di fuori dell’Unione europea, dove l’Italia non abbia una propria rappresentanza diplomatica, ha diritto all’assistenza da parte delle autorità consolari di qualsiasi altro Stato membro presente in quel territorio.
Non meno importanti sono i diritti di natura civica, come il diritto di petizione al Parlamento europeo per sollevare questioni di interesse personale o generale che rientrino nelle competenze dell’UE, e il diritto di rivolgersi al Mediatore europeo per denunciare casi di cattiva amministrazione da parte delle Istituzioni o degli organi dell’Unione. Da ultimo (ma ci sarebbe in realtà molto altro) la cittadinanza europea implica il diritto di non discriminazione basato sulla nazionalità nell’ambito di applicazione dei Trattati. Questo principio assicura che i cittadini italiani, quando si trovano in altri Paesi membri, siano trattati in modo equo e senza ingiustificate disparità rispetto ai cittadini locali.
L’ottenimento della cittadinanza italiana risulta, dunque, un passaporto per l’acquis communautaire dell’UE, beneficiando delle opportunità offerte da uno spazio integrato di libertà, sicurezza e giustizia. Un invito a partecipare attivamente alla costruzione del processo d’integrazione europea. Un doppio status che arricchisce e rafforza l’identità multi-livello di ogni nuovo cittadino.
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