Mai come in questo 2021 i diritti faticosamente conquistati dalle donne del mondo sono messi sotto pressione

8 marzo, tra pandemia e diritti mancati

, di Mariasophia Falcone

8 marzo, tra pandemia e diritti mancati
Autore: Photo by lucia on Unsplash, https://unsplash.com/photos/48UaeIMNAA4

Eurobull, nella settimana dall’8 al 14 marzo 2021, rilancia il progetto European HerStory, sottolineando l’importanza delle donne nella costruzione di un’Europa democratica e federale

A un anno dall’inizio della pandemia di Covid-19, che ci ha costretto a rivedere tutte le nostre priorità dinanzi questa minaccia per la salute collettiva, dobbiamo fare i conti con uno scenario in cui le contraddizioni del nostro modello di società sono più visibili che mai. Per questo motivo, forse più che in altri anni, diventa necessario dare ancora più significato alla Giornata internazionale della donna.

Secondo l’ISTAT, su 101 mila persone occupate in meno a dicembre 2020, 99 mila sono donne. Sebbene queste statistiche da sole debbano già preoccupare, questo dato nasconde al suo interno una disparità ancora più grave, quella della segregazione occupazionale [1]. Le donne impiegate sono per lo più relegate al settore dei servizi, particolarmente colpito dalla pandemia. Questo è un esempio di come la pandemia di Covid-19 abbia rafforzato le motivazioni della Giornata internazionale della donna, costringendo, almeno per un giorno, a (ri)aprire il dibattito su come il nostro modello di società non sia ancora stato capace di garantire pari diritti e la sperata uguaglianza. L’8 marzo serve non solo per celebrare tutto quello che ha fatto il movimento per i diritti delle donne fino ad oggi, ma ci forza come società a guardare in faccia le ingiustizie che continuiamo a perpetrare. Soltanto se riusciamo a riflettere su cosa voglia dire realmente parità di genere, possiamo capire in che modo dobbiamo lavorare per garantire un mondo più equo per tutti.

L’Unione Europea considera la parità di genere non solo un valore comune, ma un diritto fondamentale e una condizione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi di crescita e di coesione sociale. Oltre alla proposta di qualche giorno fa per una direttiva europea che permetta di sanzionare le aziende che discriminano le donne in termini di salario, la Commissione Europea si impegna costantemente nelle questioni di genere attraverso il lavoro dello European Institute for Gender Equality (EIGE), agenzia dell’UE dedicata esclusivamente alla parità di genere, che da tempo implementa strategie di gender mainstreaming [2] per raggiungere gli obiettivi di parità e analizzare a fondo gli ostacoli ancora esistenti.

Nonostante questo, e nonostante gli sforzi a livello sovranazionale per rendere la parità di genere una priorità, tocca fare i conti con le realtà degli stati membri. In Italia, i dati sul tasso di occupazione femminile sono sconcertanti - quella femminile è al 48,4% rispetto a quella maschile che si attesta al 66,6% - ma lo sono ancora di più se confrontati con quelli sul livello di istruzione delle donne, che per il 22% hanno una laurea rispetto al solo 16% degli uomini.

I dati sconfortanti che arrivano da alcuni stati membri non costituiscono certo un’eccezione e devono essere considerati come parte di un sistema. Quello che viene definito come gender gap costituisce un danno per l’economia a livello globale, poiché si tratta di talenti e risorse che rimangono essenzialmente inutilizzati, il cui costo è pagato da tutta la società. Ad esempio, secondo l’EIGE, una diminuzione del gender gap nel mondo del lavoro creerebbe fino a 10.5 milioni di posti di lavoro entro il 2050, di cui il 30% per gli uomini.Questo contribuirebbe a rendere l’Unione Europea campionessa di crescita economica inclusiva e sostenibile a lungo termine e senza eguali nel mondo.

I dati e le statistiche ci forniscono un quadro tristissimo dello stato dei diritti delle donne, in Italia, in Europa e nel mondo, anche se basterebbe solo chiedere alle donne di raccontare le loro esperienze in termini di lavoro, salute e sicurezza per capire che c’è ancora un forte bisogno dell’8 marzo. Per una donna vivere in questa società costituisce un rischio per la sua salute, perché le donne hanno meno possibilità di essere curate e i rischi per la loro salute sono meno studiati; costituisce un rischio per la sua sicurezza economica, perché per le donne accedere al mondo del lavoro è impossibile se vogliono contemporaneamente avere dei figli, a fronte di un guadagno inferiore 16%a parità di mansione rispetto ad un uomo (senza contare le ore di lavoro semplicemente non pagato); costituisce, infine, ancora un rischio per la loro stessa vita: le donne continuano ad essere vittime di violenza domestica il doppio degli uomini. Sono vittime di stalking tre volte in più degli uomini e hanno un rischio più elevato di essere uccise per mano di un uomo che da tumori, malaria, guerra e incidenti stradali insieme [3]. Vivere come donna continua ad essere più difficile che vivere come uomo: è difficile accedere al mercato del lavoro, alle prestazioni sanitarie, partecipare ai processi politici e decisionali. Questo fa sì che alle donne non siano garantiti tutti i diritti fondamentali, rendendo l’iniquità di genere una violazione dei diritti umani con una storia fin troppo lunga alle spalle.

C’è bisogno di celebrare la Giornata internazionale della donna perché ancora viviamo in mondo modellato sugli ideali del patriarcato (bianco) che opprime non solo le donne, ma anche le BIPOC [4] e la comunità LGBTQ+. Questi ideali costituiscono ancora la norma che domina tutti gli aspetti della nostra società: l’ideale di persona di successo, di leader politico, la norma per qualunque tipo di discorso e comportamento.

Questa è una sfida ben più difficile da superare e che non può essere vinta con gli strumenti del diritto, ma con uno sforzo collettivo come esseri umani: disimparare tutti i comportamenti oppressivi che abbiamo imparato e decostruire tutto quello che finora ha costituito la norma. Il terreno di questa sfida si incrocia non solo con quello della parità di genere, ma con quello dei diritti civili, quello contro il nazionalismo e contro la crisi climatica.

Abbiamo ancora bisogno di rivendicare l’8 marzo come giornata della donna, non solo come festa per quello che è stato fatto da chi ci ha preceduto, ma come un’occasione per riflettere su quanto ancora abbiamo da fare. Oggi, per fortuna, le tematiche di genere sono entrate nel dibattito pubblico, ma questo comporta il rischio di inquinare il messaggio della parità (come viene fatto costantemente dalle esponenti della destra sovranista), con il risultato che tutti si sentono in diritto di reclamare l’etichetta del femminismo o metterne in discussione il pensiero e la storia. È difficile rendersi conto di quanto abbiamo ancora bisogno della parità di genere, soprattutto ora che il problema della mancanza di diversità nei luoghi decisionali più importanti sta pian piano entrando nel dibattito pubblico e, per risposta, vediamo effettivamente più donne in posizioni di leadership. Tuttavia, questo comporta sempre il rischio di cadere nel tokenismo [5]: sebbene Christine Lagarde sia alla guida della BCE, è l’unica donna a sedere a quel tavolo. Il senso femminismo non è mai stato quello soltanto di raggiungere un’opportunità prima preclusa, ma raggiungere opportunità per l’uguaglianza collettiva; non culmina con lo sfondare la porta, ma col tenerla aperta per tutte le comunità di oppressi.

Note

[1Per una definizione precisa di segregazione occupazionale

[2Per maggiori informazioni, il sito dell’EIGE descrive efficacemente il termine

[3Kristof, N. D., & WuDunn, S. (2010). Half the sky: Turning oppression into opportunity for women worldwide.

[4Si intende la comunità formata dalle persone nere, indigene e di colore, secondo la definizione del New York Times

[5Per maggiori informazioni sul tokenism, qui

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