Bandiera bianca

, di Stefano Rossi

Bandiera bianca

È una resa incondizionata, senza l’onore delle armi, quella che il Parlamento ha messo in scena nelle tre lunghe giornate di votazioni per la Presidenza della Repubblica. Una resa di fronte alle sfide che il Paese aveva chiesto al Parlamento di risolvere: la crisi politica, tramite la formazione di un nuovo governo dopo l’esperienza Monti; la crisi sociale, con l’adozione di misure concrete per rilanciare uno sviluppo sostenibile che possa garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente; la crisi di rappresentanza, con il recupero della giusta distanza tra i cittadini e i loro eletti.

La pesante sconfitta di un Parlamento senza bussola è frutto di una serie di contingenze su cui non serve attardarsi ora, con il rischio di perdere il quadro complessivo della situazione. Il risultato di questo decisivo passaggio istituzionale è un nulla di fatto, uno stallo che rimanda ancora (ma per quanto può ancora essere rimandato?) il momento in cui verrà realizzato il necessario cambiamento di rotta.

Chi piange, chi ride, chi grida al golpe: le tre maschere indossate – sempre le stesse – dai tre principali partiti sono la mera rappresentazione di un vuoto di prospettive, da riempire con la commedia. I 1007 rappresentanti della nazione presenti in Parlamento hanno dovuto realizzare di essere tornati al punto di partenza, di essersi fatti trovare impreparati al momento decisivo, proprio quel momento che avrebbe potuto segnare una svolta nel coma politico che immobilizza questo Paese da più di un anno.

Ma nulla di tutto ciò è successo. In un crescendo di desolazione, sono cadute tutte le proposte, quelle vecchie come quelle nuove. Da una parte un PD incapace di cambiare passo, che entra nel panico quando è di fronte al traguardo, è riuscito nell’impresa davvero ardua di fallire una votazione che - dati i numeri a disposizione e il fresco mandato popolare - avrebbe potuto imporre al resto delle forze politiche, dando così prova di una debolezza che ha portato la segreteria nazionale alle dimissioni immediate. Dall’altra un centrodestra che non riesce ad affrancarsi da un passato troppo ingombrante e che sembra compiacersi della sua mera sopravvivenza in accanimento terapeutico. E poi i discepoli dell’homo novus, che erano riusciti – lo si ammetta – a cavalcare una indicazione, pur “capitata” accidentalmente, largamente condivisa dai cittadini e ben condivisibile da buona parte del Parlamento. Ma che, fallendo, hanno confermato “l’eterna contraddizione del radicalismo: incapace di evolversi, favorisce la restaurazione”.

Così è maturata la resa di un Parlamento senza bussola, frutto della carenza assoluta di una visione per il futuro nel seno del sistema democratico.

A questo punto serve chiedersi quale sia la ragione della sconfitta che tutto il Paese ha subito. Sarebbe facile nascondersi dietro l’incapacità delle persone alla guida dei partiti, o ad una sbagliata legge elettorale, o ancora (pericolosamente) dare la colpa ai meccanismi della rappresentanza. Su questo Rodotà ha chiarito – a ragione – sin da subito: “ciò che decide il Parlamento è democrazia”.

Il problema è altrove. Bisogna rendersi conto del fatto che il Parlamento – quale che sia la legge elettorale, quali che siano i soggetti politici – non è più in grado di affrontare e vincere le più alte sfide e difficoltà che i cittadini hanno di fronte. È la sovranità stessa ad essere in crisi. La nazione non è più il luogo politico dove si possa concepire e tentare di realizzare una nuova visione, dove si possa scrivere un nuovo progetto. Finché la classe politica non comprenderà ciò e non lo spiegherà ai cittadini, andrà ottusamente incontro a sconfitte sempre nuove.

Serve invece un processo costituente che sia in grado di riconciliare il livello della sovranità, che non è più nello Stato, e quello della democrazia. Ma piuttosto che cercare di riportare la sovranità dove sta la democrazia – tentativo antistorico e destinato a finire con la tragedia - dobbiamo portare la democrazia dove sta la sovranità. Ed oggi, il luogo politico dove avviare questo nuovo e rivoluzionario progetto si chiama Europa.

Fonte immagine Fotopedia

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