Indignados. Un treno per l’Europa

, di Antonio Longo

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Indignados. Un treno per l'Europa

La lunga crisi del capitalismo è diventata ormai una seria crisi sociale nell’Occidente. In America e in Europa la disoccupazione giovanile e le diverse forme di precariato hanno raggiunto livelli che presto possono superare l’indignazione che si è manifestata su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Dopo quarant’anni è arrivato un nuovo ‘68: è democratico e non ideologico; è realmente globale e non nazionale. Ma come quello del ‘68 è anti-istituzionale, ma allora le istituzioni decisive erano ancora gli stati nazionali, ora sono l’Europa, il FMI, il G8. Il ‘68 nasce contro la guerra imperialista americana, ora nasce come rivolta di chi non vuol pagare il prezzo della crisi economica internazionale. Il ’68 non incrociò la battaglia per l’Europa: la rivolta di quegli anni rimase segmentata nei rivoli nazionali, malgrado le aspirazioni internazionaliste.

Il tentativo che alcuni federalisti fecero allora di coniugare il cambiamento della società con la costruzione europea cozzò con il fatto che la politica produceva ancora l’illusione di una trasformazione radicale sul piano nazionale (la rivoluzione). E perciò la generazione degli anni 70/80 fu persa alla causa europea. Le conseguenze le sentiamo ancora oggi: manca, infatti, la leva dei militanti che oggi avrebbero 40/50 anni.

Oggi si corre un analogo rischio, ma con un’aggravante ulteriore. Il rischio è che il ‘progetto europeo’ venga scambiato per l’Europa che c’è, che è sempre più quella delle istituzioni europee (la BCE, il Parlamento, la Commissione). L’aggravante è che non c’è più la separazione tra politica nazionale ed europea (che allora, invece, c’era), perché dopo 30 anni dalla prima elezione europea e, soprattutto, dopo 10 anni di moneta unica la società europea si è, nel frattempo, formata. Ogni disfunzione nazionale diventa immediatamente europea e viceversa. Ne deriva che l’Europa (quella che c’è) sarà presa sempre più di mira, più del governo nazionale.

Scrivevo un anno fa ad un amico federalista: “I governi (Francia e Germania in testa) pensano di risolvere la crisi dicendo che bisogna tagliare spesa pubblica e salari. E’ un miracolo se la gente ancora non se la prende con l’Europa, ma, di questo passo, prima o poi succederà. Per la coscienza ‘antagonista’ l’Europa è già uno Stato e ne contestano l’istituzione di prima fila (la BCE) o la bandiera.

I simboli anticipano la realtà in formazione: l’unione monetaria è già un’unità politica, come dice Barbara Spinelli citando Bini-Smaghi, solo che fino a ieri non se ne aveva coscienza. Il movimento degli ‘indignati’ ha fatto prendere coscienza di questa unità. Quindi non serve dire che bisogna costruire l’Europa perché per il movimento antagonista l’Europa c’è già. Occorre dire che l’Europa che c’è funziona male. Perché non c’è la democrazia europea.

Se non c’è la democrazia europea non può esserci una politica sociale ed una politica in generale che dia un futuro alle giovani generazioni. Per costruire la democrazia europea non puoi dire che ci vuole un nuovo Trattato (queste cose vengono dopo). Bisogna dire che la democrazia europea occorre conquistarsela.

Come? Contestando innanzitutto chi la ostacola per conservare il vecchio potere nazionale, che è il vero responsabile della crisi e che si mimetizza per conservarsi, scaricando tutto sull’Europa. Contestando chi ne sfrutta la mancanza (i centri finanziari internazionali) per mantenere l’egemonia della finanza sulla politica. E poi, e soprattutto, chiedendo delle cose concrete a chi non fa (Bruxelles), a partire, ad esempio, da un piano per il lavoro. In politica è fondamentale il centro di imputazione della richiesta.

Un potere nuovo nasce, infatti, come risposta ad un bisogno diffuso di governo che manca: il giorno in cui le istituzioni europee diventeranno il centro di imputazione delle richieste popolari, quel giorno nascerà il governo europeo di fatto e la democrazia europea (che noi chiamiamo ‘federazione’) ne sarà poi la sua forma di legittimazione, attraverso un processo che poi potrà chiamarsi ‘convenzione’, costituente o altro ancora, non importa.

I federalisti assistono oggi incerti al passaggio del treno degli ‘indignados’. Alcuni vorrebbero salirci sopra, per indicarne la strada, ma non sanno come fare. Altri pensano che quei binari non portano all’Europa, quindi è meglio continuare sulla strada di sempre, pensando, erroneamente, che “ alla fine sono i governi nazionali che decidono”.

Il nuovo spaventa perché non lo conosci e tendi ad inquadrarlo nel vecchio mondo. Ma se assumi che questi movimenti sono già ‘politica europea’, allora dovrebbe essere normale occuparsene, così come ci siamo occupati dell’ambiente, delle energie rinnovabili, ecc. Con una differenza di fondo: che la condizione sociale è più difficile da affrontare e da gestire perché richiama subito il problema del potere sugli individui, cioè il governo della società.

Affrontare un movimento sociale come questo - che nasce sovrannazionale ed è già un fatto di ‘politica europea’ - da parte di un movimento politico come il nostro (che si è mosso da sempre su altre coordinate strategiche) richiede una ‘rivoluzione culturale’. Ciò è possibile se ci sarà una nuova leva di giovani federalisti che vivono la loro militanza anche come malessere di una condizione giovanile che li accomuna agli ‘indignados’ e ne fanno un soggetto della politica europea.

Fonte immagine: Flickr

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