Esiste una relazione tra le crisi e le catastrofi che si stanno abbattendo oggi sul mondo e la necessità di avere più Europa?
Le vittime, le distruzioni e l’incertezza sul futuro che in queste settimane stanno sconvolgendo l’esistenza di centinaia di milioni di uomini e donne in molti paesi dell’Africa settentrionale, della penisola arabica e del Giappone hanno cause molto diverse fra loro. Ma quando vengono considerati nel loro insieme e in relazione al mondo in cui viviamo, alle conseguenze che producono, questi drammatici fatti rappresentano l’ennesima conferma della fragilità dell’attuale sistema di governo internazionale, della precarietà del modello di sviluppo fondato su un sistema di produzione e consumo di energia giunto ai limiti della sostenibilità e della sicurezza, dell’incapacità degli Stati ed in particolare, per quel che ci riguarda più direttamente e che dipende da noi, degli Stati europei a contribuire ad affrontare e risolvere le sfide poste dalla globalizzazione e dall’impetuosa, ma non imprevista o imprevedibile, ascesa economica, sociale e politica del resto del mondo rispetto all’Occidente.
Molti parlano della catastrofe giapponese come di una nuova 11 settembre per la politica mondiale.
L’illusione che il primo shock del nuovo millennio, quello prodotto dall’attentato dell’11 settembre 2001 e dalle sue conseguenze anche in termini militari, fosse solo uno sporadico grave episodio, si è presto infranta contro la realtà delle ripetute crisi, politiche, economiche ed ecologiche, e delle loro gravi ripercussioni su scala mondiale, che si stanno succedendo nell’ultimo decennio. Ma la politica non sa ancora dare risposte convincenti a queste crisi.
E in tutto questo l’Europa che può fare?
Per restare all’Europa, quando si considera la conseguenza della crisi nord africana e della catastrofe giapponese che tutte le opinioni pubbliche, tutti i governi e tutti i movimenti politici, sono costretti a prendere in considerazione in questi giorni, vale a dire l’inaffidabilità e l’insicurezza di uno sviluppo economico-produttivo ancora troppo dipendente dal petrolio e dal nucleare, appare in tutta evidenza l’enorme responsabilità che grava sugli europei per non aver saputo, non solo e non tanto negli ultimi dieci anni, bensì in oltre mezzo secolo, contribuire a portare a termine la costruzione di un diverso modello di governo politico, economico e produttivo su scala internazionale: vale a dire di non essere stati capaci di portare a termine la costruzione di un nuovo “solido Stato internazionale” per usare le parole di Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene scritto nel 1941, proprio a partire dal loro continente. Un modello che fosse in grado sia di offrire un credibile e valido punto di riferimento politico istituzionale, sia di fornire un aiuto concreto, duraturo e svincolato dagli interessi nazionali, ai paesi della sponda africana del Mediterraneo. Un modello cui il mondo guardava con speranza, al punto che la stessa Cina ha continuato a seguirne con attenzione lo sviluppo sin dagli anni Settanta del secolo scorso.
Tuttavia dei progressi sono stati fatti.
Certamente in questi ultimi decenni il mondo ha fatto enormi progressi, in termini di realizzazione di sempre migliori condizioni di vita e di sicurezza; progressi che sono stati possibili grazie ad una crescente affermazione della rivoluzione scientifica e tecnologica e alla sempre più ampia diffusione su scala internazionale dei principi di democrazia, libertà e giustizia sociale. L’Europa stessa ha potuto godere di questi progressi soprattutto grazie al fatto di aver saputo avviare il processo di integrazione continentale; ma al tempo stesso, non essendo riuscita a completare questo processo, dando vita alla Federazione europea, è rimasta in uno stato di minorità politica di cui oggi si vedono gli effetti: non è un caso che per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale sia diffuso tra gli europei il sentimento che il benessere e la qualità della vita raggiunti vengano messi in discussione e in pericolo, e addirittura che nelle nuove generazioni si sia insinuato il dubbio di non poter vivere un futuro migliore di quello dei loro genitori. Quando si incrina la fiducia nel progresso, si incrina anche la fiducia nella società e nello Stato in cui si vive, e il rischio delle derive politiche e di aggrapparsi ad illusorie soluzioni demagogiche e taumaturgiche, aumenta enormemente.
Ma da che cosa possiamo partire per comprendere quello che sta accadendo?
La cartina di tornasole è rappresentata proprio dalla questione energetica. La dipendenza degli europei dal petrolio non costituirebbe un problema così grave dal punto di vista ecologico, economico e strategico se solo l’Europa fosse stata, o fosse già, in grado di promuovere un piano di sviluppo euro-africano della produzione e distribuzione di energia elettrica a partire da impianti fotovoltaici da installare in Nord Africa. Così come, per quanto riguarda l’impiego dell’energia nucleare, è semplicemente inspiegabile il fatto che gli europei abbiano per primi posto le basi di una Comunità con aspirazioni sovranazionali per il suo sviluppo ed impiego, l’EURATOM, e che oggi offrano ancora lo spettacolo di Stati incapaci di governare una politica di sicurezza comune degli impianti esistenti, una politica davvero europea di transizione all’impiego di fonti rinnovabili, una politica industriale e commerciale unica – non di competizione nazionale come avviene oggi tra Francia, Germania e Gran Bretagna – sullo sviluppo, l’impiego e la vendita fuori dall’Europa delle tecnologie nucleari. In questo modo gli europei non aiutano né se stessi né il mondo ad affrontare le crisi attuali (e quelle future, perché è evidente che ce ne saranno altre su questo terreno).
Stai dicendo che bisogna andare oltre il petrolio e il nucleare.
Già. Ma il fatto è che per andare davvero oltre il petrolio e il nucleare occorrerebbe sviluppare e governare su scala continentale e mondiale delle reti intelligenti e sempre più interconnesse fra loro, le cosiddette smart-grids, per la produzione diversificata (con una quota via via crescente, ma inevitabilmente non esclusiva stante le attuali capacità tecniche, di energie rinnovabili) e per la distribuzione ed il consumo di energia elettrica. A questo proposito vale la pena ricordare che, senza una rivoluzione nel sistema di produzione e distribuzione dell’energia elettrica, anche la tanto invocata transizione dall’uso di combustibili fossili all’energia elettrica nel settore dei trasporti e dei consumi urbani è problematica.
Ma non c’è qualcosa che gli europei potrebbero fare subito?
Qualcosa potrebbero fare. Ma è evidente che nessun paese europeo, preso singolarmente, può dotarsi di un vero piano: quando si considera la politica di approvvigionamento di gas naturale e petrolio, sono evidenti le frizioni e le azioni contraddittorie condotte dai singoli Stati europei in politica estera; quando si considera la politica nucleare, addirittura si assiste ad una gara tra paesi europei (il caso più eclatante, che ha dei risvolti addirittura ridicoli, se la questione non fosse di per sé tragica, è rappresentato dagli accordi che cercano di stipulare le aziende tedesche e francesi in concorrenza tra loro, perseguendo alleanze che potrebbero poi ritorcersi contro gli europei, con paesi Arabi, asiatici e con la Russia).
E l’Unione europea?
L’Unione europea non riesce, nonostante i vari piani energetici varati, ad essere all’altezza di questo compito. Eppure il Trattato di Lisbona prevede nuove competenze in campo energetico per l’Unione europea. Sul tappeto ci sono già proposte, come quella di Delors, di creare una Comunità per l’energia. Se volessero almeno dimostrare la volontà di incominciare ad affrontare l’emergenza, i paesi europei (attraverso i loro governi e parlamenti e le istituzioni europee) potrebbero impegnarsi su questo terreno. Ma ciò non accade e, come europei, non abbiamo davanti a noi un tempo infinito per decidere cosa faremo da grandi. Il mondo va avanti molto più velocemente di noi.
Che fare allora?
Credo si debba andare oltre gli attuali limiti istituzionali che bloccano la capacità di azione degli europei, ossia andare oltre il Trattato di Lisbona. Solo così si può mettere in relazione l’esigenza di promuovere un piano di sviluppo per gli europei con quella di garantire la crescita e lo sviluppo dei paesi e dei continenti vicini; di mettere in relazione, attraverso il rafforzamento delle agenzie e delle istituzioni internazionali che un’Europa forte politicamente potrebbe sostenere, il problema della gestione in maggiore sicurezza delle decine (in Europa) e delle centinaia (nel mondo) di centrali nucleari ancora in esercizio e della loro riduzione in numero.
Cosa dovrebbero dunque fare gli europei?
Mi sembra che la cosa si possa riassumere in tre domande. E’ possibile incamminarsi sulla strada di cui si parlava prima senza pensare che un’efficace politica energetica può essere sviluppata solo come parte integrante di una coerente politica estera e di sicurezza? E’ immaginabile promuovere una simile politica al di fuori di un governo democratico e capace d’agire su scala almeno sub-continentale? Possono gli europei fare tutto ciò senza la Federazione europea? La risposta a ciascuna di queste domande è NO. Questo è il problema.
Quindi i federalisti europei che cosa propongono di fare?
I federalisti europei, a partire dall’Italia, continueranno a battersi affinché maturi nell’opinione pubblica, nelle forze vive della società, nelle istituzioni la consapevolezza di questa necessità e la volontà di fare i passi necessari per realizzare la Federazione europea incominciando anche da un numero ristretto di paesi nell’Eurogruppo. Non c’è altra strada.
Gli europei raccoglieranno questa sfida?
Siamo di fronte ad una responsabilità morale oltre che politica. Che ne siano consapevoli oppure no, gli europei hanno contratto un debito nei confronti dell’umanità, perché, più di ogni altra famiglia umana, hanno goduto dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento su scala industriale e plurisecolare della natura, e dal dominio e dall’influenza su altri continenti. Per vivere responsabilmente all’altezza delle sfide poste dal corso della storia devono perciò incominciare a saldare questo debito, mostrando nei fatti che l’unità politica tra più Stati su base federale non solo è necessaria, ma è anche possibile. E possono indicare al mondo intero un nuovo modello politico, sociale ed economico.
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