Gli Stati Uniti hanno infatti più volte cercato di esercitare pressioni sulla Cina perché rivalutasse lo yuan, il cui basso valore di scambio favorisce pesantemente l’esportazione cinese e penalizza, viceversa, i paesi concorrenti. In generale, la posizione americana è quella di accusare i paesi che accumulano forti surplus nella bilancia commerciale, come appunto la Cina, ma in parte anche la Germania, di frenare la ripresa economica e aumentare la disoccupazione nel mondo, e uno dei loro obiettivi è pertanto quello di cercare di esercitare pressioni perché aumentino i consumi interni, oltre a richiedere, nel caso cinese, come già si diceva, una forte rivalutazione della moneta. Il tutto mentre da parte loro gli USA si muovono per ridurre il proprio disavanzo commerciale del 50%, stampando (di fatto) moneta in modo da abbassare il debito pubblico e provocare ad arte una svalutazione del dollaro (che sperano permetta di rafforzare le esportazioni), mantenendo al tempo stesso i tassi di interesse vicino allo zero, per cercare di favorire la ripresa economica.
Da parte sua la Cina, dopo aver accettato di operare una modesta rivalutazione della propria moneta all’inizio dell’anno, si è opposta categoricamente alle richieste americane, sostenendo che uno yuan più forte non servirebbe a risanare il deficit del mercato estero americano ma rischierebbe solo di portare numerose imprese cinesi esportatrici alla bancarotta. La Cina, pertanto, rivaluterà solo quando, come e nella misura in cui lo riterrà opportuno. Gli effetti della politica monetaria americana e della svalutazione del dollaro hanno avuto ripercussioni immediate su molti paesi. Moltissime monete hanno subito rapidi apprezzamenti, provocando pesanti contromisure da parte delle rispettive autorità monetarie e innescando una pericolosa spirale svalutativa dagli effetti imprevedibili. Per prima si è impegnata la Banca del Giappone nel tentativo di evitare a tutti i costi l’apprezzamento dello yen, e questa misura ha contagiato anche l’India, la Tahilandia, la Corea del Sud ed altri paesi del sud est asiatico costretti a loro volta a svalutare in risposta.
Non è difficile notare come il tasso di cambio della moneta diventi uno strumento per combattere una lotta politica sullo scacchiere internazionale: di fatto si tratta di misure protezionistiche mirate a far crescere le esportazioni del proprio paese. Il direttore dell’Fmi, Dominque Strauss-Khan, è stato tra i primi a denunciare questo tipo di politiche e i rischi che ne conseguono: “c’è la chiara idea che il cominciare a far circolare moneta sia un arma politica” ha dichiarato in diverse occasioni; “tradotta in azione, tale idea rappresenterebbe un serio rischio per la ripresa globale”. Peraltro, il rischio di tentazioni protezionistiche è avvalorato anche da misure di tipo più tradizionale: gli Usa, ad esempio, hanno preso una serie di misure su alcuni prodotti di importazione, che vanno dall’imposizione di dazi al blocco totale, oppure il Brasile ha recentemente raddoppiato i dazi doganali sulle importazioni.
La tensione valutaria di questi mesi è anche un sintomo del declino dell’egemonia americana, perché sono innanzitutto gli Stati Uniti in difficoltà a riverberare, attraverso le loro misure protezionistiche, le proprie debolezze sul resto del mondo, cercando di sfruttare i vantaggi che derivano loro dal fatto che il dollaro è ancora la principale moneta di riserva mondiale e il perno del sistema monetario internazionale. In questo modo, però, diminuisce il consenso degli altri paesi nei confronti degli USA, e la dimostrazione è offerta dalla reazione di fronte agli appelli americani sulla questione della eccessiva sottovalutazione dello yuan.
“Non è bene per il mondo che il peso della risoluzione di questo problema…rimanga sulle spalle degli Stati Uniti” ha dichiarato Tim Geithner, ma alla richiesta di sostegno degli americani non possono rispondere nemmeno alleati naturali quali gli Indiani che, anche a causa dei forti investimenti in infrastrutture degli ultimi anni, si trovano ad affrontare il problema di un’inflazione elevata, che nel breve periodo può essere tenuta sotto controllo solo grazie alle importazioni cinesi a basso costo; per questa ragione l’India, nelle sedi internazionali, mantiene una posizione di basso profilo, nonostante la sua critica alla politica monetaria cinese. Anche il Brasile, nonostante manifesti, attraverso le parole del Ministro delle finanze G.Mantega, una certa inquietudine nei confronti del conflitto monetario attualmente in atto, è incline a vedere il problema più nella politica americana che non in quella cinese. I rapporti commerciali con la Cina hanno infatti ormai superato quelli con gli USA e questo spiega le parole del Ministro degli esteri brasiliano che recentemente ha dichiarato: “Ritengo che fare pressione ai paesi non sia il modo migliore per risolvere i problemi”, aggiungendo: “Noi abbiamo una buona coordinazione con la Cina e stiamo parlando con loro. Non possiamo dimenticare che la Cina è il nostro principale cliente”. Ma l’atteggiamento più significativo rimane quello dei paesi dell’Eurogruppo, che rappresentano una fetta immensa della produttività, della ricchezza e dei rapporti commerciali internazionali. I paesi europei non hanno una posizione unitaria, né a livello dell’Unione a Ventisette, né dell’Eurogruppo. Wen Jiabao, nella sua visita in Europa in vista del G20 di novembre, ha potuto raccogliere solo una serie di opinioni divergenti, in cui ciascuno Stato e le stesse istituzioni europee esprimevano punti di vista non concordati. Ad esempio, Trichet, nella sua qualità di Presidente della BCE, ha tentato di premere sulla Cina per una rivalutazione dello yuan, ma non ha trovato nessun sostegno negli Stati nazionali, allettati, almeno in maggioranza, dalla proposta del premier cinese di aiutare la Grecia, mediante un sostanzioso finanziamento, per favorirne la ripresa. A dimostrazione del fatto che, in questa fase, gli Europei hanno troppo bisogno dei capitali cinesi e troppo interesse a rafforzare i rapporti commerciali con Pechino per avere la capacità di perseguire politiche che la irritino. La cosa è risultata evidente proprio al G20, quando la Germania – che ha una bilancia commerciale simile a quella cinese e che realizza grossi surplus, ma che nel contempo vede la sua area di mercato naturale, l’Unione Europea, in grave crisi a causa della questione dei debiti sovrani – ha preso posizione insieme alla Cina nel criticare le pressioni esercitate dagli USA. Anche grazie a questo atteggiamento europeo, il risultato complessivo del G20 è stato pertanto un sostanziale nulla di fatto, nonostante molti paesi si trovino in seria difficoltà in questa gara al ribasso sul tasso di cambio delle monete. Per il momento, di fatto, ogni paese continuerà a il cercare di difendersi per evitare un eccessivo apprezzamento della propria moneta e crescerà la tentazione di aumentare le misure protezionistiche in assenza di un accordo tra le potenze leader.
Paradigmatica, a questo proposito, la posizione russa nel G20 che ha sostenuto che gli Stati Uniti non devono prendere decisioni unilaterali che influiscono su tutto il mondo. Se vogliono farlo, il primo passo deve essere la riforma del sistema monetario internazionale, rinunciando al possesso della valuta di riferimento che dà loro un enorme vantaggio competitivo sul resto del mondo. Duro segno che i risultati della ricerca di alleanze strategiche che Cina e USA hanno messo in atto negli scorsi mesi vanno a favore della Cina. E’ stata infatti la Cina a fare per prima, ormai già più di un anno fa, delle proposte in questo senso, con Zhou Xiaochuan, il Presidente della Banca centrale cinese; e anche Hu Jintao, nel corso della sua visita ufficiale negli Stati Uniti a metà gennaio di quest’anno, ha ripreso la questione.
Che prospettive apre dunque questo scenario? Per noi Europei, bloccati nelle contraddizioni sempre più drammatiche dovute al fatto di aver creato una moneta unica senza accompagnarla con la nascita dello Stato federale europeo, si tratta di prospettive sicuramente molto fosche. In una guerra delle valuta di tutti contro tutti, siamo gli unici che non hanno nessuno strumento per difendersi, e a questa debolezza si unisce la fragilità strutturale delle nostre economie che in questa fase non riescono più a crescere in modo competitivo (o non crescono più del tutto, come è il caso dell’Italia). E’ evidente che serve un soprassalto di volontà politica per andare a colmare le lacune nella costruzione europea e per portare a compimento il processo di unificazione, con la creazione della Federazione, partendo dall’iniziativa di un gruppo di paesi attorno a Francia e Germania nel quadro dell’Eurogruppo. Senza questa iniziativa gli Europei sono condannati ad un rapido declino, che per gli Stati più deboli significherà addirittura sottosviluppo: per questo è interesse di tutti i cittadini premere sulla classe politica perché metta in agenda come priorità la costruzione della Federazione europea.
Segui i commenti: |