La lezione della crisi economica, l’Europa e gli squilibri globali

, di Simone Vannuccini

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La lezione della crisi economica, l'Europa e gli squilibri globali

Con il 2009 sembra archiviata in Europa anche la fase più acuta della crisi globale; il dibattito economico si concentra ormai sulla natura della ripresa (a V, repentina, oppure a U, più lenta e graduale), e sulla tempistica della exit strategy, cioè sui modi e sulle cadenze da seguire per “chiudere i rubinetti” delle politiche fiscali e monetarie che hanno sostenuto il sistema economico nei giorni più neri del collasso della finanza (prima) e dell’economia reale (poi). Resta quindi soltanto da capire quando la “mano visibile” nazionale tornerà ad essere “invisibile”, lasciando dietro di sé una quantità immane di debito pubblico cui far fronte e tanta paura per un crollo che verrà ricordato come pari, se non peggiore, a quello del ’29.

Ma si è davvero concluso tutto con il classico (o forse – per usare un’ironia da economista – con il neo-classico) lieto fine? La dura lezione degli ultimi due anni è stata fatta propria da politici, industriali, uomini dell’alta finanza e normali cittadini? Non del tutto. Se le scelte di politica economica si sono rivelate efficaci, le cause soggiacenti la crisi restano ancora al loro posto. Effettivamente, a differenza della fine dei “ruggenti” anni Venti, quando politiche restrittive hanno aiutato – invece di limitare – la discesa nella Grande Depressione, l’attuale risposta alla crisi è stata immediata: manovre espansive e un’iniezione senza precedenti di moneta fresca nel circuito economico da parte delle autorità di politica monetaria ci hanno dimostrato che la lezione di inizio Novecento è stata compresa e ricordata (tanto da far guadagnare a Ben Bernanke, chief della statunitense Federal reserve, il titolo di “uomo dell’anno” assegnato dalla rivista Time).

D’altro canto, se gli errori del passato non si sono ripetuti e se il sistema economico mondiale è stato mantenuto artificialmente a galla, il risultato è stato raggiunto con enormi costi economici, politici e sociali e le cause strutturali della crisi non sono state minimamente intaccate. Il piano europeo di risposta alla crisi rappresenta un caso quasi scolastico di quanto detto sopra: orientato al breve periodo, al sostegno dei consumi e al ripristino della fiducia, non è altro che una razionalizzazione dei piani d’intervento nazionali (se si esclude lo 0,3 per cento delle risorse totali fornite dal bilancio comunitario). Invece di un unico piano sovranazionale, finanziato con risorse proprie dell’Unione (quindi attraverso una riforma del bilancio comunitario, della fiscalità continentale o tramite l’emissione di Union bonds) e capace di sfruttare – per la sua natura continentale – le economie di scala europee, si è scelta la strada inefficiente del coordinamento intergovernativo. Le inefficienze di questa scelta, dal punto di vista non soltanto dell’analisi economica, ma anche da quello delle possibilità politiche, sono evidenti:
 l’esplosione dei debiti pubblici per il reperimento delle risorse con cui rilevare le banche insolventi, finanziare gli stabilizzatori sociali e gli interventi di politica fiscale (l’aumento del debito provocherà un’ulteriore spiazzamento delle risorse nazionali destinabili ai già provati sistemi di welfare, al sostegno all’innovazione, alla ricerca e all’“inverdimento” – greening - dell’economia, insomma, a tutti i “pilastri” di quella che doveva essere – secondo la fallimentare Strategia di Lisbona – l’economia fondata sulla conoscenza più competitiva al mondo),
 lo sfruttamento non ottimale – già accennato – delle economie di scala continentali (considerando i meccanismi di trasmissione del ciclo economico e l’altissimo grado di integrazione commerciale dei paesi europei – e in particolare di quelli dell’Eurogruppo, l’effetto moltiplicativo di un unico piano anti-crisi sovranazionale sarebbe stato maggiore),
 gli incentivi al free riding per quei paesi che, vincolati dai parametri del patto di stabilità o incapaci di spingere oltre il proprio indebitamento, possono decidere di non sforzarsi e di godersi passivamente i benefici dello “sgocciolamento” (trickling down), dovuti alle esternalità positive generate dall’impegno dei più virtuosi (i quali, però, non avrebbero più incentivi a pagare – da soli – anche per gli altri, configurando il tipico caso di fallimento di un’”azione collettiva”).

In sintesi, quindi, l’incapacità di andare oltre un problema strutturale (l’intergovernatività dell’Unione) ha generato una situazione paradossale: mentre ogni governo nazionale è consapevole dei vantaggi di un unico piano “federale” anti-crisi, la scelta del mero coordinamento e le sue conseguenti inefficienze in termini di costi-opportunità e di incentivi ha reso conveniente il comportamento “nazionalista”. Alla fine la risposta alla crisi è insufficiente ma, date le condizioni di contesto e dall’ottica nazionale, resta populisticamente efficace di fronte agli elettori; come dire che è meglio salvare la faccia a brevissimo termine, piuttosto che favorire la ripresa nel medio-lungo periodo. Un esempio perfetto della pavida filosofia short-term-ista che regna tra i governanti europei. Tornando alla “lezione” della

... l’incapacità di andare oltre l’intergovernatività dell’Unione ...

crisi e alle sue cause strutturali, c’è poi un rovescio della medaglia rispetto al parziale successo ottenuto dalle risposte di politica economica: se l’espansione monetaria ha salvato il sistema economico mondiale, allo stesso tempo ha permesso a tutti coloro che hanno favorito con le proprie scelte l’esplosione della bolla speculativa dei mutui sub-prime (la “goccia” che ha fatto traboccare il vaso dell’instabilità economica mondiale), cioè i guru dell’alta finanza, le banche internazionali e i gestori dei fondi d’investimento, di riappropriarsi delle risorse bruciate in pochi giorni senza particolari “punizioni” e senza dover cambiare il proprio comportamento economico.

Il terremoto finanziario è apparso quindi soltanto come un’ondata di “distruzione creatrice” di schumpeteriana memoria, che ha ripulito il mercato cacciando gli agenti incapaci e premiando i sopravvissuti; il sistema può riprendere a funzionare come e meglio di prima. In realtà la vera lezione della crisi è quella opposta: la bolla speculativa era soltanto una delle bolle che possono scoppiare quando il sistema economico soffre di profonde asimmetrie di potere politico, della mancanza di controllo istituzionale a livello globale, di un equilibrio di potere tra le forze in gioco sullo scacchiere mondiale. La bolla è l’aspetto contingente di un problema strutturale, uno dei sintomi di una malattia più profonda. E la metafora medica ci ricorda che curare un sintomo non significa sconfiggere la malattia; finché questa permane nuovi sintomi potranno emergere. Altre bolle potranno scoppiare (già si parla di bolla sui mutui degli esercizi commerciali, i commercial mortgage backed securities, o di speculazione sulle valute a buon mercato, come il debole dollaro post-crisi, – il c.d. carry trade -) fintantoché non si aggiusteranno i global imbalances, gli squilibri globali.

Quest’ultimi, che legano in particolare Usa e Cina e rendono la potenza declinante e quella emergente due “prigionieri incatenati”, hanno però natura e senso politico, e non soltanto economico. Il recente dibattito sulla richiesta da parte statunitense di rivalutazione dello yuan cinese (divisa che, sottovalutata, favorirebbe le esportazioni e la ripresa del gigante asiatico), richiesta tra l’altro gentilmente rispedita al mittente, è chiarificatore: da un lato emerge un rinnovato protagonismo cinese nelle questioni mondiali; dall’altro, la consapevolezza degli effetti marginali di una tale misura economica (il vantaggio cinese dipende soprattutto dai bassi costi del lavoro, e la forbice di prezzo tra i beni occidentali e quelli orientali è ormai talmente ampia che la rivalutazione non cambierebbe molto nei meccanismi e nelle scelte della domanda globale) ci dimostra che la richiesta americana è soltanto il tentativo di avere una conferma della propria supremazia mondiale, una supremazia sempre più in discussione (d’altronde ormai da anni alcuni storici e teorici delle relazioni internazionali ci ricordano che quando un paese finanzia “a debito” la propria potenza militare e politica, proprio come nel caso degli Usa, si trova già sulla strada del declino). Fino a quando questa pericolosa situazione non si risolverà, parlare di ripresa e di exit strategy sarà soltanto un simpatico diversivo intellettuale: serve un rinnovato equilibro nella bilancia della politica e dell’economia mondiale, e solo un’Europa federale avrebbe i “pesi” adatti a spostarne i piatti.

Ma l’Unione ed i governi nazionali – come abbiamo visto nell’esempio del piano europeo anti-crisi – vivono sospesi in una trappola fatta di “vedute corte”, nazionalismo e mancanza di coraggio politico. Non abbiamo ancora imparato del tutto la lezione della crisi, ma nella progressiva “sonnolenza della civilizzazione” che accompagna questi anni complessi non ci restano molti tentativi per rimediare. Possiamo unirci politicamente e dare il nostro contributo di europei perchè

... la sonnolenza della civilizzazione ...

vengano rimosse del tutto le asimmetrie di potere che alimentano e alimenteranno la crisi globale, oppure possiamo cullarci ancora per qualche tempo con le illusioni ed i miti del vecchio sistema europeo degli stati nazionali, mentre altri scrivono – senza di noi - le nuove regole del gioco della politica e dell’economia del mondo globalizzato.

Fonte dell’immagine: World Wide Web

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