Paura dell’identità europea

, di Federica Martiny

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Paura dell'identità europea

Ci troviamo inesorabilmente davanti al fatto che negli ultimi anni l’Europa, proprio nel momento in cui sarebbe dovuta giungere alle soglie dell’unità politica ed economica, si scopra sconvolta da resistenze di ogni tipo, al punto che oggi il segno più profondo dell’unità europea sembra riscontrarsi soprattutto in una sempre più forte e tangibile presa di distanza dall’Europa, da parte dei cittadini e degli Stati europei.

Motore di quelle spinte xenofobe e antieuropeiste –di cui le ultime elezioni del Parlamento europeo sono ancora viva testimonianza- che imperversano da più parti sul vecchio continente sembra davvero essere la paura della perdita della propria identità, di quella identità rinchiusa tra le mura della singolarità e del particolarismo, a cui da sempre gli uomini si aggrappano e si ancorano nei periodi di crisi, di assenza di certezze e di mancanza di stabilità.

Ora dobbiamo però e perciò chiederci se questa soluzione sia efficace o se invece sia la mera illusione di ritrovare in se stessi quelle risposte e quelle certezze che le istituzioni politiche non riescono a garantire.

Bisogna partire innanzitutto dall’assioma fondamentale per cui l’identità del singolo non può in alcun modo prescindere dall’incontro, dal confronto e anche dallo scontro con l’altro, con il diverso da sé, con lo straniero. È questo incontro-scontro che ci permette di avvicinarci alla nostra identità, che ci permette di scoprirne le frange più nascoste e fondamentali.

A sessant’anni dalla Dichiarazione Schuman occorre ricordarci e riscoprire le nostre responsabilità nei confronti non solo di noi stessi ma anche e soprattutto della storia, e ribadire con voce ferma e sicura che realismo e utopia si compenetrano nel tentativo di frenare gli impulsi disgregatori, inesorabili conseguenze di una lotta intestina per un’egemonia che ormai non è più reale, e di ritrovare equilibrio e forza nella Federazione europea.

Fonte immagine: Flickr

Tuoi commenti
  • su 8 febbraio 2010 a 11:51, di riccardo lala In risposta a: Paura dell’identità europea

    Ho pubblicato integralmente il Vostro post sul Blog «Identità Europea», ritenendolo meritevole di segnalazione. Di converso, Vi invio, come risposta, il penultimo post del nostro blog, che tratta un argomento parallelo:

    For Overcoming the Blocking of Europe, Direct Action of Civil Society is Required.Pour éviter le blocage de l’ Europe, une action directe de la société civile est requise. Um Europas Sackgasse zu vermeiden, Direktaktion seitens Zivilgesellschaft ist erforderlich.

    In un precedente blog, avevamo accennato alla nostra preferenza, per descrivere la situazione in cui stiamo vivendo, per la «teoria degli equilibri punteggiati», anziché per la «concezione lineare della storia» .

    In concreto, le mutazioni antropologiche, culturali, socio-economiche, istituzionali e strategiche indotte dalla fine della Modernità stanno lavorando «nel profondo»: erodendo la fede nol carattere provvidenziale della «civiltà occidentale»; indebolendo culture, istituzioni e dirigenti legati ai temi «forti» della Modernità; facendo emergere nuovi Paesi, nuovi paradigmi, nuove culture.Ad un certo momento, tutte queste «faglie», per ora sotterranee ed impercettibili, si apriranno improvvisamente, mostrando allo sguardo uno scenario assolutamente inedito.

    Perciò, non ci stupisce il tono catastrofistico di uomini politici, giornalisti e intellettuali in questo inizio di secolo. Essi si rendono, seppur confusamente, conto del fatto, che, nei nuovi scenari, l’Europa così com’ è sarà assolutamente spaesata e impreparata.

    Essi denunziano anche, come Nicola Bonanni su «La Repubblica», o Barbara Spinelli su La Stampa, una lista di sintomi preoccupanti ( rallentamento economico, esclusione dalle grandi decisioni internazionali, disinteresse da parte dell’ America); alcuni, come Guy Verhofstadt nella sua Lettera aperta al Presidente Van Rompuy, fanno anche un elenco di cose da farsi.

    A nostro avviso, tuttavia, nessuna di queste critiche, né di questi appelli, potrà essere efficace.

    Come osserva giustamente Barbara Spinelli, la ragione prima di questa irrilevanza va ricercata in un’ opzione dello stesso «establishment» europeo: puntare tutto, per la sopravvivenza dell’ Europa, sulla prosecuzione all’ infinito di un’assoluta egemonia americana, che si sta, invece, progressivamente indebolendo.

    Questa osservazione non è, a nostro avviso, sufficiente. Questo «establishment» europeo non può muoversi per ricercare opzioni diverse, in quanto la sua natura e la sua cultura glielo impediscono.

    Una cultura modernistica, millenaristica, pragmatistica e tecnicistica, come quella dell’ attuale «establishment», non riesce neppure ad immaginare un futuro del mondo diverso dall’ omologazione sul modello culturale «occidentale», né un Occidente che non sia guidato dall’ antropologia puritana.

    Eppure, per competere efficacemente con le nuove realtà emergenti da tutte le parti del mondo, occorrerebbe comprendere la forza che promana, anche sulla costruzione politica, sulle attività economiche e sulle strategie militari, dall’ appartenere a culture «olistiche» che non guardino solamente all’economia e alla politica.

    Soprattutto, comprendere che, nella gestione del futuro mondo «multipolare», ciascuno conterà solamente in funzione della capacità che esso avrà di gettare sul piatto della bilancia esigenze, proposte e soluzioni che, da un lato, riuniscano un ampio consenso in patria e risolvano i problemi del proprio Continente, e, dall’ altro, non siano contrarie alle esigenze di base di tutta l’ umanità, ed alle ineludibili scelte socio-culturali degli altri Continenti.

    L’America continua a proporre, a quel tavolo, l’ esportazione dell’ efficienza economica, sorretta dai valori della liberaldemocrazia e del mercato.La Cina butta, sul piatto della bilancia, il culto dell’ «armonia», il rifiuto dell’ egemonia mondiale. In fondo anche il mondo islamico, anche se in modi contraddittori, e, tavolta, distruttivi, apporta, a questo dibattito, un contributo fondamentale: l’ importanza delle religioni nell’affrontare i problemi del mondo.

    Che cosa apporta l’ Europa al tavolo mondiale, che non sia un sottoprodotto della civilità americana?L’ unica cosa che distingua l’ Europa attuale dall’America è l’ economia sociale di mercato. Tuttavia, Cina e Paesi in via di sviluppo sono, nella sostanza, ancor più «sociali» dell’ Europa ( in quanto mirano a risolvere, con la spinta decisiva dello Stato, le esigenze drammatiche di centinaia milioni di loro cittadini).Essi non hanno molto da imparare a questo riguardo, e, comunque, non potrebbero applicare un’ «economia sociale di mercato» che presupporrrebbe comunque condizioni storiche ed economiche molto diverse.

    Al massimo, chi potrebbe imparare da noi sono gli Americani, i quali, però, tranne alcune modeste eccezioni, come Jeremy Rifkin, non sembrano averne una grande intenzione. Lo stesso Obama è stato costretto, dal Congresso e dagli elettori, a smorzare molto le proprie politiche sociali e ambientaliste, aventi una qualche affinità con la «economia sociale di mercato».Inoltre, si è sempre guardato bene dal fare qualunque cosa che assomigli al prendere atto che un’ Unione Europea esiste. Termine mai usato da alcun Presidente americano. Come stupirsi che non sia voluto venire a Madrid? Come afferma giustamente Barbara Spinelli, gli americani non sono disposti a riconoscerci una superiorità intellettuale (a mio avviso, neppure un’ eguaglianza).

    Quest’ apparente posizione di stallo non è inevitabile.

    Il blocco culturale in cui versa l’ «establishment» europeo non è «colpa» della cultura europea. Anche se oggi ci sono pochi intellettuali che «pensino fuori del coro», la maggior parte della tradizione culturale europea non è millenaristica (vedi San Paolo, Sant’Agostino e Maimonide); né economicistica (vedi Aristotile, Dante, Goethe, Tolstoj); né «suprematista bianca» (vedi De las Casas, Vieira, ancora Goethe, Carlyle, Simone Veil).

    L’ Europa è culturalmente attrezzata a comprendere la storia dell’ Umanità nel suo complesso, senza pregiudizi «eurocentrici» o «occidentalistici» (cfr. p. es. Matteo Ricci, Schopenhauer, Guénon, Toynbee, Panikkar).Essa ha denunziato i pericoli di un futuro puramente tecnocratico (Zamiatin, Capek, Huxley, Orwell ), e tentato di elaborare «utopie» che non implichino anche, nel contempo, la «Fine della Storia» (Platone, Moro, Coudenhove Kalergi, Spinelli,Latouche).

    Che questi grandi filoni della cultura europea vengano studiati ed approfonditi non potrà essere opera degli attuali «establishments», che, delle loro vecchie culture, hanno fatto la base delle loro carriere e del loro potere. Si impone un rinnovato sforzo della società civile, per incontrarsi, discutere, studiare questi temi e gli autori che li trattano, per confrontarsi con la società e formulare proposte condivise, da portare a livello europeo.

    Alpina continua a proporsi come luogo di incontro e dibattito a questo fine.

    Intervenite alla riunione del 9 Febbraio alle ore 21

    presso Alpina Srl

    Via P. Giuria n.6

    10.125 Torino

    tel 011 668758

    E.mail: info chez alpinasrl.com

  • su 11 febbraio 2010 a 10:18, di Angela In risposta a: Paura dell’identità europea

    Si tratta di uno splendido articolo. Chiaro, lineare, denso e corposo: Federica Martiny è una grande! My compliments.

  • su 13 febbraio 2010 a 01:18, di nicola In risposta a: Paura dell’identità europea

    acute osservazioni.....

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