Ventisette giudici salvano l’Europa

, di Matteo Fanton

Ventisette giudici salvano l'Europa

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, pochi giorni fa ha deciso di garantire un futuro all’Europa [1]. Il caso affrontato dalla Corte tocca profili estremamente interessanti di diritto costituzionale dell’Unione europea e si configura come decisivo nel valutare la “legalità” di strumenti, messi in campo negli ultimi anni dagli Stati membri, per contrastare gli effetti della crisi economica che sta colpendo duramente il cuore stesso dell’Unione, nonché per garantire la tenuta del sistema euro. La questione, sollevata di fronte alla Supreme Court of Ireland dal parlamentare irlandese Thomas Pringle ha ad oggetto la validità della decisione, presa dal Consiglio europeo nel 2011, di modificare l’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente al meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro introducendo il cosiddetto fondo salva Stati.

La no bail-out clause [2] (art. 125 TFUE) è il grande ostacolo al salvataggio di quei Paesi che affrontano grandi difficoltà economico-finanziarie e potrebbero non essere più in grado di rispettare la l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Ciò pone un problema significativo. Data la grande interdipendenza economica tra i Paesi membri, soprattuto in area euro, il fatto che Paesi economicamente e finanziariamente più forti non possano “salvare” quelli in situazione di maggiore difficoltà rischia di danneggiare considerevolmente anche i primi e non soltanto i secondi. La soluzione individuata a livello europeo dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri è stata quella dell’adozione di un Trattato istitutivo del meccanismo europeo di stabilità (MES). Tale strumento istituisce un fondo di 700 miliardi di euro a disposizione dei Paesi dell’area euro che si trovano a dover fronteggiare difficoltà finanziarie.

Il ricorso di Pringle mirava essenzialmente a un duplice risultato. Da un lato far constatare che la modifica dell’articolo 136 TFUE costituisce una modifica illegittima, alla luce della procedura di revisione semplificata (art. 48(6) TUE) e che detta decisione è incompatibile con talune delle disposizioni dei trattati. Dall’altro lato ottenere il riconoscimento del fatto che, ratificando, approvando o accettando il Trattato che istituisce il MES l’Irlanda assumerebbe obblighi incompatibili con i trattati sui quali è fondata l’Unione europea. Non si può fare a meno di notare come la questione abbia un fine marcatamente politico, sebbene assuma le sembianze di una controversia squisitamente giuridica.

A seconda della procedura seguita, in Irlanda, le cose cambiano notevolmente. Per una modifica dei Trattati adottata con la procedura semplificata è sufficiente infatti una ratifica parlamentare, nel caso invece della procedura ordinaria l’ordinamento irlandese prevede l’onere ben più gravoso dell’istituzione di un referendum nonché di una successiva riforma costituzionale. Si tratta, è chiaro, di una istanza di democrazia. Si rivendica il diritto a far valere la propria opinione tramite referendum. La Corte di Giustizia, in composizione plenaria (evento assolutamente raro e riservato ai casi di estrema rilevanza) ha negato la validità delle questioni sollevate dal parlamentare irlandese. Ha fatto ciò per garantire continuità alle misure a salvaguardia del sistema euro e per salvare l’Europa, e in particolare l’euro-zona, da un tracollo finanziario che si sarebbe rivelato quanto mai vicino nell’eventualità di un esito diverso. La questione, decisa con procedura accelerata, non può che essere vista, questa volta come tante altre in passato, come una netta presa di posizione della Corte. Questa, da sempre ultima garante dell’Unione, si è pronunciata in maniera estremamente chiara in favore del processo di integrazione europea. Una sentenza dal grande valore politico prima e più che giuridico. Una decisione il cui esito, giuridicamente tutto meno che prevedibile, si preannunciava invece estremamente certo nel considerare la vasta giurisprudenza della Corte nonché i più o meno espliciti obiettivi di policy della stessa.

Sollevati dalla decisione del 27 novembre, occorre però interrogarsi su quale debba effettivamente essere il ruolo della Corte di Giustizia. Pronunce come quella in oggetto (e relativo salvataggio in extremis) non dovrebbero infatti essere necessarie. Il ruolo di supporto dell’Unione, il favorirne il rafforzamento e il garantirne la sopravvivenza non dovrebbero più essere lasciati, come in questo caso, solo ed esclusivamente alla Corte. Ora più che mai è responsabilità degli Stati membri decidere, una volta per tutte, di abbandonare almeno in parte il mito della sovranità nazionale e abbracciare, con la giusta convinzione, l’idea di un’Europa strutturalmente più unita e competente, dotata dei giusti strumenti ed equipaggiata in modo sufficiente per affrontare le numerose sfide che il futuro ancora le riserva.

Fonte immagine Flickr

Note

[2Regola secondo la quale gli stati appartenenti alla Comunità Europea (v. CE) non possono farsi garanti del debito di un paese appartenente alla Comunità stessa. La no bail out clause, insieme al divieto del finanziamento monetario del tesoro da parte delle banche centrali e l’obbligo di mantenere un determinato rapporto tra il PIL (v.), il disavanzo (v. Deficit) e il debito pubblico (v.), costituisce una regola di condotta, a cui gli Stati membri devono uniformarsi, sancita dal trattato di Maastricht (v.). Lo scopo dell’inserimento di tali regole è quello di evitare che con l’integrazione economica europea le situazioni debitorie dei paesi aderenti possano avere effetti deleteri sull’intera Comunità. (Fonte: Simone, dizionario online)

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