Le grida di condanna verso la dittatura sanitaria, la caoticità della folla, il corteo che vira, un rumore improvviso di vetri infranti e l’illusione di star rivivendo un passato ritenuto glorioso. L’8 ottobre 2021, durante il corso di una manifestazione contro l’obbligatorietà del Green Pass, un gruppo neofascista prendeva d’assalto la sede centrale della CGIL presso Corso Italia, a Roma.
A un anno dall’avvenimento - con le prime condanne giudiziarie già emanate - negli ambienti sindacali, oltre che anche in alcuni partiti e diverse realtà della società vicine alle lavoratrici e ai lavoratori, il dibattito sulla natura effettiva del gesto è ancora aperto, come lo è anche quello - ormai secolare - sull’efficacia e l’adeguatezza delle attuali forme di tutela delle libertà sindacali; dibattito solitamente svolto con un approccio orientato limitatamente alla giurisprudenza nazionale, ma che, al fine di porre efficacemente l’accento su un tema oggi più che mai di rilievo - quale è quello delle libertà sindacali e, dunque, della democrazia - correlandolo anche ai mutamenti sociali in corso negli ultimi mesi in tutta Europa, è bene affrontare in un’ottica che contempli un’area geografica più ampia.
Entrando nel merito delle varie giurisdizioni - contemplando nella trattazione anche la normativa comunitaria - per ciò che rientra nel diritto sindacale: nell’ordinamento giuridico italiano, a partire dall’art.39 della Costituzione - che esordisce proprio sancendo la libertà del sindacato - fino allo Statuto dei lavoratori, lo Stato riconosce un discreto grado di rilevanza dell’azione sindacale, dotando questa di tutela da parte della forza pubblica (si pensi, per esempio, all’art.28 del già citato Statuto dei lavoratori sulla repressione della condotta antisindacale), e in ordinamenti simili, quali quello tedesco e quello svedese, accade sovente che le lavoratrici e i lavoratori partecipino attivamente, mediante le loro rappresentanze, alla gestione dell’azienda - c.d. «cogestione», o Mitbestimmung; inversamente, la normativa europea - al di là degli artt. 12, 27 e 28 della Carta di Nizza (che si applica comunque agli Stati membri solo quando attuano il diritto dell’UE e che non estende il campo di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze di questa proprie), rispettivamente sulla libertà di associazione anche sindacale, sul diritto delle lavoratrici e dei lavoratori e delle e dei loro rappresentanti all’informazione e alla consultazione, e sui diritti di contrattazione collettiva e di sciopero - non regola in alcun modo l’esercizio dell’azione sindacale. I diritti di associazione e sciopero, come anche quello della datrice o del datore di lavoro di imporre serrate, sono disciplinati dal diritto dei singoli Stati membri, e delle lavoratrici e dei lavoratori o dei sindacati qualora accertino una violazione dei loro diritti. Anche nell’eventualità in cui questi trovino le loro fondamenta nel diritto dell’UE, potrebbero ricorrere, al fine di farli rispettare, solamente ai metodi previsti dalla legislazione nazionale rivolgendosi, dove previsto, ai tribunali locali. A causa del non intervento dell’UE, la normativa sul diritto sindacale, come implicitamente messo in luce dall’ETUI (l’Istituto sindacale europeo, centro di ricerca della Confederazione sindacale europea) nel suo rapporto 103 (del 2008, per cui suscettibile di imprecisioni rispetto alla situazione attuale) è priva di uniformità; se in Paesi quali l’Italia il sindacato ha un ruolo giuridicamente affermato e riconosciuto, e in Germania le lavoratrici e i lavoratori, anche se non sempre con i metodi propri dell’azione sindacale mediterranea, vedono solidamente riconosciuto il loro diritto a incidere in maniera determinante sull’amministrazione dell’azienda, in Belgio e Danimarca la legge proibisce lo sciopero organizzato con la finalità di rallentare l’attività lavorativa (prevedendo anche la possibilità che il rapporto lavorativo venga interrotto nell’eventualità in cui la lavoratrice o il lavoratore abbia aderito a uno sciopero, in virtù di quanto appena detto, illegale - e in Danimarca ciò vale anche in caso di partecipazione a scioperi legali), in Francia è vietato il picchettaggio (l’attività di ostruzionismo degli ingressi svolta davanti al luogo di lavoro dalle lavoratrici e dai lavoratori durante una rimostranza per impedire ad altre lavoratrici e altri lavoratori di svolgere regolarmente le loro mansioni lavorative) e in Lettonia, Bulgaria e Paesi Bassi non è consentito indire scioperi per motivi politici generali non strettamente correlati a questioni concernenti il lavoro.
Se questa inomogeneità normativa può essere giustificata, se non anche sostenuta, in virtù della diversità culturale che contraddistingue i Paesi dell’Unione europea e che vede quindi ognuno di questi rapportarsi all’istituzione del sindacato secondo usi e costumi distinti, affermati dalla storia del relativo Paese, non si può evitare di chiedersi se tale diversità costituisca, nel tempo odierno, un problema. Come dimostrato dall’assalto alla CGIL e dal rapido e recente ricomparire dei nazionalismi e dei sovranismi in Europa, con particolare riguardo all’ultimo periodo elettorale, è in crescente espansione un fenomeno alimentato da spiriti del passato ben noti che mina a ledere i principi della democrazia e, con essi, le libertà del sindacato, con la finalità ultima di avviare una progressiva regressione dei diritti civili, fino a raggiungere la totale repressione di questi e di qualunque forma di espressione di tutte quelle diversità, di opinione e di identità, che rifiutano di conformarsi all’ideologia dello standard e dell’odio. Una mancanza di uniformità sul diritto sindacale, l’assenza di garanzie e tutele minime poste dal diritto dell’Unione che possano contenere e ridurre le disuguaglianze e, al tempo stesso, mantenere saldi i principi fondamentali di democrazia e Stato di diritto (che coesistono primariamente anche grazie all’esistenza dei sindacati, o comunque alla possibilità, da parte delle lavoratrici e dei lavoratori, di organizzarsi e riscattarsi), alimenta tale fenomeno. E se per ora l’assalto alla CGIL rappresenta, quantomeno per l’importanza dell’avvenimento, un unicum a livello europeo - senza comunque trascurare i piccoli e non poi così infrequenti assalti alle sedi territoriali dei sindacati di cui a volte giunge notizia - non sembra apparire poi così lontana la prospettiva che episodi di squadrismo simili e dalla stessa matrice inizino a verificarsi anche in altri Stati europei, con il silenzio dei Governi, poiché - per ciò che concerne quelli di chiara ispirazione antisindacale o, in generale, dagli orientamenti fortemente conservatori e reazionari - complici in virtù della propria ideologia, comune a quella degli stessi gruppi squadristi, e dell’Unione europea, poiché sprovvista di una normativa sul diritto sindacale.
Progettare e istituire una normativa europea che ponga dei principi base in materia di libertà sindacale e che ogni Stato membro sia tenuto a rispettare, porterebbe alla creazione di garanzie minime - quantomeno teoriche - affinché le libertà ora presenti, suscettibili di essere brutalmente violate dagli estremismi in ascesa, vengano preservate, se non migliorate, e contribuirebbe anche al raggiungimento di una reale uguaglianza tra le condizioni delle lavoratrici europee e dei lavoratori europei al di là del proprio Paese di lavoro, dando così sostanza ai principi di non discriminazione ed eguaglianza insiti nello Stato di diritto e previsti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ad ogni modo, è alla lettrice o al lettore in prima istanza, e alla cittadina e al cittadino secondo poi, che spetta l’onere di ritenere se il pericolo manifestato nelle righe antecedenti sia fondato, e se, nell’eventualità di ciò, questo sia sufficiente per giustificare quella che comunque risulterebbe, in virtù della diversità non solo degli ordinamenti ma anche delle tradizioni e delle mentalità, un’intromissione violenta - o, di contro, una svolta in senso federalista positiva e necessaria - nel diritto e nella società degli Stati membri.
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