La vicenda di Patrick Zaki. Un caso Europeo

, di Ignazio Pardo

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La vicenda di Patrick Zaki. Un caso Europeo

Abbiamo ricostruito la travagliata storia di Patrick dal suo arresto fino ad oggi, analizzando le controversie e i punti caldi che riguardano la sua incarcerazione e la più generale situazione del sistema giudiziario egiziano. Questa violazione ha generato forti risposte da parte delle società civili in Europa: ne abbiamo parlato con Domitilla Brandoni, rappresentante dei dottorandi in Consiglio degli studenti e Senato Accademico all’Università di Bologna, e Giada Rossi, amica e compagna di studi di Patrick. Questo caso costituisce un’occasione per l’intera Unione Europea, che potrebbe riscattarsi dopo i fallimenti politici e diplomatici degli ultimi anni e agire compatta a difesa dei diritti fondamentali di un proprio studente.

Il 7 febbraio 2020 Patrick George Zaki, studente egiziano all’Università di Bologna di ritorno in Egitto per una visita alla famiglia, viene fermato all’aeroporto del Cairo in nome di un mandato di arresto emesso nel settembre 2019 e di cui nessuno era a conoscenza. Da qui ha inizio la vicenda che ha suscitato scalpore e generato numerose manifestazioni a richiesta della liberazione del ragazzo e del rispetto dei valori democratici e dei diritti fondamentali dell’uomo da parte dello Stato egiziano. Un caso che ha scosso le istituzioni e in particolare le società civili dell’intera Unione Europea, poiché ha colpito un giovane che, seppur cittadino extracomunitario, vive e studia in Europa. Il suo sequestro non fa che sommarsi a quello di migliaia di altri detenuti e di tutti i cittadini egiziani che, sin dall’insediamento del presidente Abdel Fattah Al-Sisi nel 2013, hanno visto i propri diritti di espressione e opinione e le proprie libertà progressivamente limitati da un regime repressivo e capillare.

La vicenda di Patrick Zaki. L’arresto e la detenzione

Patrick Zaki, 28 anni, si è trasferito in Europa per frequentare il Master Erasmus Mundus in Studi di Genere e delle Donne, sponsorizzato dalla Commissione Europea che coinvolge sette università in sei Stati Membri tra cui l’Università di Bologna. La notte tra il 6 e il 7 febbraio Patrick viene fermato all’aeroporto del Cairo dall’Agenzia di Sicurezza Nazionale egiziana che, dopo averne fatto perdere le tracce per oltre un giorno, lo trasferisce nel carcere di Mansoura, città natale del ragazzo, dove ha inizio la detenzione preventiva.

L’arresto è avvenuto in nome di un mandato risalente al settembre del 2019 ed emesso in seguito a dei post pubblicati su una pagina Facebook del ragazzo, dichiarata falsa dalla difesa. I cinque capi di accusa riportano la diffusione di false notizie che minano all’ordine sociale, l’incitamento a manifestazioni illegali, sovversione contro le autorità egiziane, minaccia alla sicurezza nazionale e propaganda terroristica. Per questo tipo di imputazioni, se il processo dovesse essere confermato, lo studente rischierebbe di subire una condanna dai 13 ai 25 anni di reclusione. Giada Rossi, amica e compagna di studi di Patrick, ci racconta come «pur essendo consapevole della situazione nel suo Paese, Patrick non si aspettava assolutamente di poter essere perseguito, era tranquillissimo». Peraltro, Patrick non avrebbe fatto ritorno in Egitto se avesse potuto immaginare ciò che lo aspettava. Tutto ciò sembra dovuto principalmente alla collaborazione del ragazzo con l’Egyptian Initiative for Personal Rights (EIFR), una ONG che si occupa della difesa dei diritti fondamentali in Egitto. Inoltre, i suoi legali hanno affermato che durante il primo interrogatorio gli agenti abbiano insistito nel chiedergli quali legami avesse con la famiglia di Giulio Regeni – con cui Patrick non è mai venuto a contatto -.

Come da prassi – e come temuto sin da subito dagli osservatori internazionali e dagli attivisti in difesa dei diritti umani – la mancanza di decisioni e di reali progressi inquisitori e decisionali nello svolgimento delle udienze hanno fatto sì che la custodia cautelare venisse rinnovata di 15 giorni in 15 giorni fino ad arrivare all’inizio di marzo quando, con lo scoppio dell’emergenza Covid-19, il ragazzo si è trovato ulteriormente di fronte all’impossibilità di comprendere e conoscere le proprie sorti a causa del blocco di tutte le attività giudiziarie del Paese. In attesa della prossima udienza, confermata per il 21 aprile e che si spera non venga di nuovo rimandata o annullata, si cerca di mantenere alta l’attenzione sul tema.

Sin dai primi momenti il caso sembra presentare molti dei preoccupanti tratti che caratterizzano i trattamenti riservati ai prigionieri politici sotto il regime di Al-Sisi. Dopo la sua cattura, Patrick è scomparso infatti per più di 24 ore e il suo arresto è stato formalizzato solamente l’8 febbraio. Secondo i legali il ragazzo è stato inizialmente rinchiuso nelle stanze dell’Agenzia di Sicurezza Nazionale all’interno dell’aeroporto, dove è stato oggetto di torture per oltre 17 ore attraverso percosse ed elettroshock. Samuel Thabet, uno dei due avvocati di Patrick, ha dichiarato che i segni dei pestaggi sul volto erano visibili a occhio nudo.

Una volta trasferito nel carcere di Mansoura, l’incarcerazione ha avuto inizio senza alcun rispetto degli standard minimi previsti dal diritto internazionale in materia di diritti fondamentali. Patrick avrebbe dichiarato di essere rinchiuso in una cella con altri 35 detenuti e una sola latrina. Dopo l’udienza del 22 febbraio, che ha visto per la seconda volta confermata la detenzione preventiva, Zaki è stato trasferito senza preavviso nel centro di detenzione di Tora, nella capitale – dove si trova tutt’oggi-, già tristemente noto poiché è qui che si trova buona parte degli oltre 60 mila prigionieri politici oppositori del regime del presidente Al-Sisi. Fortunatamente, dopo momenti di grande preoccupazione, i legali di Patrick hanno comunicato che il ragazzo non si trova nell’ala denominata “lo Scorpione” ossia quella di massima sicurezza-.

Nessuno ha però più avuto modo di avere contatti con lui o informazioni sulla sua salute. Resta infatti alta l’allerta dovuta alla mancanza di aggiornamenti riguardo le sue condizioni sanitarie, poiché lo studente soffre di problemi respiratori e si suppone che nel centro di Tora le misure precauzionali anti-contagio non siano affatto rispettate. Come racconta Giada Rossi:

«nemmeno noi sappiamo niente sin dal 9 di marzo, non ha più potuto vedere gli avvocati, nessun contatto con i genitori e tutte le udienze sono state rinviate. Non poteva esserci situazione più perfetta per l’Egitto».

Per il momento, dunque, le condizioni e le sorti del ragazzo sembrano destinate a rimanere un’incognita, in quanto l’attuale blocco dovuto alla pandemia da Coronavirus favorisce ironicamente l’arbitrario e controverso esercizio della detenzione preventiva in Egitto.

Il processo sembra dunque reggersi su presupposti ambigui e, a detta dei sostenitori del ragazzo, costruiti dalle stesse autorità egiziane. Effettivamente molti elementi lasciano trasparire forti contraddizioni da parte dell’accusa. In primo luogo, il mandato che ha incriminato lo studente sarebbe stato emesso nel settembre del 2019 ma mai notificato. A questo proposito, Zaki sostiene inoltre che la pagina Facebook sulla quale sono basate le prove che lo accusano sarebbe falsa e non appartenente a lui. In secondo luogo, il verbale dell’arresto sarebbe stato falsificato poiché dichiara che il ragazzo è stato arrestato l’8 febbraio in un posto di blocco a Mansoura, la sua città, quando invece è stato accertato che la Sicurezza Nazionale lo ha fermato sin dal suo arrivo all’aeroporto del Cairo, avvenuto la notte precedente. Questa incongruenza di circa 30 ore coprirebbe proprio il lasso di tempo in cui il ragazzo è scomparso senza che nessuno ne fosse a conoscenza e durante il quale egli ha dichiarato di essere stato interrogato e torturato. Inoltre, questo tipo di detenzione, per quanto largamente utilizzata da parte della Procura Superiore di Giustizia egiziana, dovrebbe essere applicata, secondo il Codice penale egiziano, solo in caso di motivi fondati descritti minuziosamente, flagranza di reato o possibilità che le prove vengano inquinate. La situazione di Patrick non rientrerebbe in nessuno di questi casi, poiché come ricordato da Giada Rossi «le autorità non hanno in mano niente se non la pagina incriminata».

Dal canto loro, anche i media egiziani si sono scagliati in maniera lapidaria contro Patrick Zaki descrivendolo come un terrorista, sovversivo e degenerato omosessuale – che ricordiamo essere un reato in Egitto – con l’intento di isolare il ragazzo. Molti giornali nazionali hanno inoltre provato a distogliere l’attenzione dell’Europa dal caso, dichiarando che sarebbe prettamente di competenza delle autorità egiziane poiché riguardante un proprio cittadino. A riguardo, Giada ci tiene a puntualizzare che «Patrick non faceva attivismo qui a Bologna. È di certo una persona molto consapevole e formata, dice sempre di voler stare a contatto con le persone e lavorare per e con i diritti umani e quelli delle minoranze. Il ritratto fornito dai media egiziani è l’opposto della realtà. Anche in tema di politica non ha assolutamente mai assunto posizioni sovversive o violente. È proprio una persona buona».

In Italia, a causa del rapimento e dell’uccisione di Giulio Regeni – avvenuta ormai più di 4 anni fa e rimasta senza una risoluzione – si è già avuto modo di scoprire la forte morsa autoritaria adoperata dal regime di Al-Sisi. Oggi il tema, ancora caldo nel nostro Paese, si ripropone d’improvviso in tutta l’Unione Europea, nei cui confini Patrick studiava, viveva e ha forti amicizie: i suoi diritti brutalmente violati hanno bruciato non solo sulla coscienza della società italiana ma, questa volta, anche di tanti altri ragazzi europei che sono stati improvvisamente catapultati nella quotidianità del regime di Al-Sisi, la cui indifferenza per i diritti umani fondamentali è tristemente nota ai suoi cittadini e a chi si occupa di Egitto. Questa è dunque una possibilità per l’Unione Europea di imporsi e stringersi per agire concretamente a difesa dei propri valori fondanti in modo da fermare la pratica oltremodo abusata di violazioni e metodi non democratici in Egitto.

L’Alma Mater di Bologna ha immediatamente reagito alla sparizione di Patrick. Abbiamo discusso della posizione universitaria da varie angolazioni con Domitilla Brandoni, dottoranda in Matematica dell’Università di Bologna e rappresentante dei dottorandi in Consiglio degli studenti e Senato Accademico. Domitilla ricorda che a soli dieci giorni dall’arresto l’università ha organizzato una manifestazione in Piazza Maggiore a Bologna a cui hanno preso parte non solo i suoi organi ufficiali, incluso il rettore in persona, bensì anche il sindaco della città e tantissime parti della variegata società civile bolognese. La trasversalità della manifestazione e la grande partecipazione sono stati segnali indubbiamente forti ma subito dopo, come confermato anche da Giada Rossi, l’azione collettiva ha inevitabilmente cominciato ad accusare i colpi della diffusione pandemica del Covid-19. Come sottolinea Domitilla, in questi casi l’azione più importante che i cittadini possano portare avanti è tenere alta l’attenzione del caso sui media e nelle istituzioni, cosa che la crisi sanitaria ha reso pressoché impossibile. Se quindi nei primi tempi l’ateneo bolognese ha risposto con forza alla vicenda, scrivendo immediatamente un comunicato inter-universitario in cui chiedeva il rilascio immediato del suo studente, Domitilla riporta che il prosieguo dell’azione non ha rispecchiato le aspettative, sia a causa del blocco Covid-19 sia per una mancanza di visione comune di lungo periodo riguardo al caso. Come rappresentante di ADI Bologna, Domitilla a fine marzo ha portato in senato accademico un’interrogazione per chiedere all’università un’azione più forte in direzione della liberazione di Patrick. Infatti, l’Alma Mater ha il potere di sospendere gli accordi con le università, le aziende, gli enti pubblici e privati che prevedano un operato in suolo egiziano, finora mantenuti perché ritenuti dagli organi accademici un “ponte” con il paese che non ha a che vedere con l’arresto e la detenzione di Patrick. Al contrario, nell’interrogazione Domitilla sostiene che ciò non possa essere ritenuto vero perché in Egitto i rettori sono nominati direttamente dal governo e gli studenti vengono arrestati se esprimono un’opinione diversa da quella del regime. In Egitto le università non sono un baluardo contro l’autoritarismo, i ricercatori e i professori non sono liberi di pensare e scrivere e quindi il supposto “ponte culturale” con l’ateneo italiano è piuttosto effimero. Per queste ragioni l’Associazione dottorandi di Bologna ha chiesto all’Università di Bologna di aprire la strada alla sospensione degli accordi con i partner egiziani, ritenuta l’unica azione d’impatto possibile, oltre che di esportare tale iniziativa in altri atenei italiani ed europei. La risposta all’interrogazione non è ancora arrivata, ma Domitilla sottolinea che proprio questo è il momento di insistere sull’emergenza sanitaria per richiedere con maggiore determinazione la scarcerazione di Zaki. Diversi Paesi arabi e del Maghreb, anche quelli governati da regimi fortemente autoritari, hanno disposto la scarcerazione di migliaia di detenuti con reati minori dalle carceri sovraffollate in modo da contenere la diffusione dell’epidemia. L’Egitto è l’unico Paese dell’Africa del Nord che non ha preso alcun provvedimento, lasciando le carceri gremite e rischiando di dare vita a focolai ingestibili all’interno dei propri centri di detenzione pur di non liberare oppositori e dissidenti. Rallentare l’azione in questo periodo è molto rischioso, secondo Domitilla, e l’input a livello universitario non può che venire dall’ateneo di Bologna.

Anche Giada ci conferisce ulteriori esempi di volontà di farsi sentire e di come lo si stia cercando di fare su più fronti: «da persone amiche e che conoscono Patrick, stiamo cercando di mobilitarci e di muoverci assieme. Alcuni di noi vivono in Spagna, altri in Germania, in Egitto o in altri Paesi. Stiamo provando, assieme ad avvocati professionisti, innanzitutto di far conoscere la situazione -ad esempio attraverso la petizione lanciata sin da subito su change.org e la manifestazione in Piazza Maggiore-, iniziando da Bologna e cercando di coinvolgere altre città e università in Italia e all’estero. Ora ci sarà un’iniziativa chiamata “Voices For Patrick”, lanciata dai compagni di corso dell’Università di Granada – università madre del nostro Master- in cui degli artisti racconteranno attraverso opere ed esibizioni la vicenda di Patrick» e aggiunge «specialmente durante questo periodo di quarantena, in cui è tutto monopolizzato dal virus, dobbiamo reinventarci nuovi modi di fare attivismo, di muoverci e di comunicare».

Il processo di Patrick Zaki non è assolutamente un’eccezione per la popolazione egiziana, ma lo è per la società europea. Come sottolinea il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury «l’obiettivo della detenzione preventiva prolungata è di consegnare il prigioniero all’oblio». Ciò non deve accadere, e le autorità e le società europee sono ancora una volta direttamente responsabili di quello che succederà.

Il Sistema giudiziario parallelo. Difesa della sicurezza nazionale ed eliminazione del dissenso.

Per comprendere appieno l’impostazione repressiva e totale dell’autoritarismo di Al-Sisi è opportuno illustrare la natura e il funzionamento degli organi di giustizia che si occupano della sicurezza nazionale. Questo sistema è stato analizzato in maniera minuziosa da Amnesty International nel rapporto Permanent state of Exception in cui l’apparato è definito come una sorta di sistema giudiziario parallelo, che opera per eliminare ogni forma di dissenso attraverso sparizioni, condanne e accanimenti giudiziari.

Al vertice si trova la cosiddetta Procura Suprema di Sicurezza Nazionale (SSSP), ovvero l’organo giudiziario cui spetta svolgere le inquisizioni per i casi riguardanti la sicurezza nazionale. Al fianco della procura lavorano una forza speciale di polizia, chiamata Agenzia di Sicurezza Nazionale, e i tribunali antiterrorismo. Questa triade, che opera indipendentemente dalle altre istituzioni di giustizia, è stata enormemente rafforzata sin dalla salita al potere di Al-Sisi nel 2013, in particolare con l’emanazione della legge antiterrorismo del 2015, con la proclamazione dello stato di emergenza nel 2017 – ininterrottamente rinnovato da allora – e con il referendum del settembre del 2019, che attribuiscono discrezionalità più ampie e maggiori capacità alla Procura Suprema, strettamente collegata al Presidente egiziano.

La detenzione preventiva è una pratica estremamente diffusa in Egitto e, come dimostrato da Amnesty e da numerosi altri enti umanitari, oltremodo abusata e giustificata da accuse di terrorismo che spesso altro non sono se non espedienti per colpire manifestanti, studenti e ricercatori non in linea con l’agenda politica del Presidente. Questo tipo di custodia, disposta dalla SSSP e applicabile per periodi di 15 giorni fino ad un massimo di 150, può essere ulteriormente prolungata con un’approvazione del tribunale antiterrorismo competente al caso. La possibilità di interruzione di questa routine è aleatoria, poiché l’esaminazione di eventuali ricorsi da parte degli imputati spetta agli stessi giudici della Procura Suprema. Gli esperti di Amnesty hanno rilevato che, per i casi da loro studiati, la durata media della detenzione preventiva è di ben 345 giorni, con un impressionante picco massimo di 1263 giorni. Nella gran parte dei casi i detenuti non sono stati informati dei propri diritti e non gli è stato concesso di parlare con i propri legali secondo i tempi previsti dalla legislazione egiziana.

L’evidente negazione del diritto a un equo e giusto processo è affiancata inoltre da vere e proprie violazioni dei diritti umani in tema di detenzione e di modalità di investigazione e interrogazione. Amnesty e numerosi altri enti specializzati in difesa dei diritti fondamentali hanno spesso denunciato la sistematica pratica della tortura e di metodi di coercizione ed estorsione nelle carceri egiziane, in particolare da parte dell’Agenzia di Sicurezza Nazionale. Nonostante le innumerevoli segnalazioni da parte di individui e organizzazioni, nessuna indagine è mai stata avviata da parte della Procura Suprema nei confronti delle forze di polizia. Alla presenza di una struttura del genere e di tali evidenze non è difficile osservare come l’autoreferenzialità e il potere discrezionale di questi organi vengano incanalati in senso reazionario e repressivo in modo da eliminare ogni forma di dissenso nei confronti del regime, che secondo alcuni studi avrebbe fatto sparire circa 800 persone solamente nel 2019.

Questo tipo di prassi colpisce per lo più giovani militanti di organizzazioni e movimenti ad oggi dichiarati gruppi terroristici dal governo, ma anche, come testimoniato dalle storie di Patrick Zaki e Giulio Regeni, individui non direttamente coinvolti in affari politici, in modo da creare un clima di terrore che garantisca il monolitismo e il tacito appoggio al regime. Neppure i minori vengono risparmiati da queste spietate logiche. Human Rights Watch ha testimoniato e documentato i casi di ben 20 minori tra i 12 e i 17 anni sequestrati e torturati, quasi tutti per mano dell’Agenzia di Sicurezza Nazionale.

Alla luce di questo quadro non sorprende il fatto che Patrick sia ora detenuto. Allo stesso tempo, la preoccupazione per le sue sorti e condizioni sale vertiginosamente e bisogna che generi atti concreti oltre che semplici dichiarazioni di solidarietà e prese di posizione formali. La situazione di Patrick è europea, non nazionale, ci riguarda tutti come cittadini europei e la risposta deve essere sostanziale e coesa.

L’articolo è stato precedentemente pubblicato su «Il Bradipo Federalista», blog della sezione GFE di Bologna. Ha collaborato con l’autrice Virginia Sarotto. Link originale: https://ilbradipofederalista.wordpress.com/2020/04/14/la-vicenda-di-patrick-zaki-un-caso-europeo/

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