L’hanno chiamata Pandoteira, la dispensatrice di doni. Era un’isola di quelle autentiche, che si meritano la ridondanza degli appellativi: un’sola isolata. Uno scoglio per marinai che profumava di lecci e salsedine, sferzato dall’acqua e dal vento. L’hanno chiamata Pandoteira e lei ha mantenuto la sua promessa, si è fatta portatrice di doni agli esploratori del mare. Poi sono arrivati altri viandanti, quelli della Storia. E Pandoteira è rimasta ad osservare.
Ha visto mescolarsi alle orme dei suoi abitanti quelle di alcuni cittadini del mondo ed è diventata il loro osservatorio forzato sul Continente. Orologiai, allevatori di polli, rivoluzionari. Uno di loro aveva vissuto in cattività buona parte della sua vita e lì trovò l’elezione. Con lui un maestro della mente, uno dell’anima e l’incontro nella piazzetta della Chiesa con almeno una quarta protagonista. A loro quasi nessun dono da Pandoteira. Da loro e a partire da quell’isola il grande dono agli Europei.
Tre o quattro tesi, un Manifesto. Tutto a ricordarci che non esiste nulla di più pratico di una buona teoria. Si sono detti che una seconda guerra civile europea sarebbe dovuta bastare ai loro concittadini, che non ci sarebbe dovuto essere spazio per un’altra goccia di sangue, per un’altra libertà negata. Che la pace non era solo un ideale, ma una necessità fisica e che le istituzioni avrebbero dovuto farle da scheletro per sostenerla generazione dopo generazione. Che i valori migliori e il pluralismo avrebbero dovuto rimpolparla.
Qualcuno gode oggi del loro dono, del loro sogno e della loro battaglia senza nemmeno sapere che sono esistiti. Senza sapere che Pandoteira li osservava mentre venivano colpiti dall’intuizione e mentre maturavano una passione umana e un’audacia politica solide come il granito. Uno di loro si sarebbe descritto un giorno come pesce liberato nel mare, come pescatore saccheggiato della sua preda, e ancora, come un Achab senza possibilità di conquistare la balena bianca. L’unico mare che aveva conosciuto era stato quello della prigionia e nelle correnti della libertà aveva visto i compagni smarrirsi in molti. Non lui. Non con la sua tenacia. Quella di chi ha un’idea vera, di quelle che bruciano e tolgono la voglia di dormire perché c’è tanto, davvero tanto da fare.
L’ideale nato su quell’isola grazie alla sua azione e a quella di altri grandi uomini ha trasformato un intero continente in una terra di doni. Democrazia, progresso, senso di comunità. Il lusso di non doversi più preoccupare per il pane e la pace, quello di poter passare all’obiettivo successivo.
Con chi pensa che questa storia scritta da un pugno di uomini su un pugno di scogli possa essere trascurata o sbeffeggiata bisognerebbe cercare il dialogo, ma ad una condizione: che i partecipanti alla conversazione non si limitino a menzionare “l’Europa” ma che debbano dire ogni volta “la mia Europa”. Perché anche loro sono parte di un pugno di uomini su un pugno di scogli tra oceano e Asia e perché anche loro vivono delle conquiste di civiltà per cui la generazione di Ventotene si è battuta partigianamente.
Se questa storia non vi è mai stata raccontata, sentitevi un lettore con in mano quello che potrebbe diventare il libro migliore della sua vita. Di quelli che aprono gli occhi sul mondo, che non si possono e non si vogliono dimenticare.
Non serve tornare a Ventotene per capirlo: questa battuta di pesca non è ancora finita e non sarà l’ultima. Se pochi uomini circondati dal buio hanno avuto l’ardore di sognare un’Europa libera e unita, se assieme ad altri uomini hanno avuto la tenacia di cominciare a costruire la Repubblica europea, noi dobbiamo trovare l’orgoglio di portare avanti la loro storia, di unire le nostre pagine alle loro per concluderla. Questa consapevolezza spaventa come una tempesta all’orizzonte, ma basta guardarsi intorno e ripensare al progetto nato a Ventotene per capire che a noi quel Manifesto ha regalato la voglia di continuare a salpare.
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