Al vertice NATO dell’Aia del giugno 2025, Pedro Sánchez si è distinto come l’unico leader europeo a sfidare apertamente la linea imposta da Donald Trump. Il presidente statunitense, tornato sulla scena con la consueta retorica muscolare, ha preteso che i membri dell’Alleanza Atlantica portino la spesa militare al 5% del PIL entro il 2035, ben oltre il 2% previsto dal precedente accordo di Vilnius. Mentre la maggior parte dei Paesi, sotto la pressione economica e diplomatica degli Stati Uniti, ha accettato senza riserve, la Spagna ha posto un freno.
Sánchez ha dichiarato che Madrid è disposta ad arrivare al 2,1%, ma non un punto percentuale in più, a meno di non sacrificare la spesa sociale o aumentare il carico fiscale sui cittadini. Questa posizione ha irritato Trump, che ha definito il premier spagnolo “un ostacolo alla sicurezza collettiva” e ha ventilato possibili ritorsioni commerciali, tra cui il raddoppio dei dazi su prodotti agricoli iberici.
In un momento in cui le grandi potenze europee, Francia e Germania in testa, si sono allineate alla volontà statunitense, la fermezza di Sánchez ha assunto un valore simbolico che va oltre il dibattito tecnico sulla difesa. Emmanuel Macron ha sottoscritto l’obiettivo del 5%, rafforzando il pilastro industriale della difesa francese, mentre il cancelliere Scholz ha firmato un accordo per dotare gli F-35 tedeschi di missili da crociera norvegesi JSM, a testimonianza dell’intento di Berlino di accelerare il riarmo.
L’isolamento di Sánchez in questo contesto è stato evidente, (la foto conclusiva dell’incontro è emblematica a riguardo) ma non privo di significato: ha difeso un modello europeo alternativo, incentrato sulla cooperazione, sull’autonomia strategica e sulla difesa della spesa sociale.
Nel contempo, il governo spagnolo naviga in acque interne molto agitate. All’interno del PSOE è esploso il cosiddetto “Caso Koldo”, una trama giudiziaria che vede protagonista l’ex-ministro dei Trasporti José Luis Ábalos Meco (figura molto vicina a Sánchez), e il consigliere Koldo García Izaguirre. Entrambi sono accusati di aver tessuto una rete di appalti truccati, con tangenti pagate da aziende come Acciona e una cifra sospetta di circa 620 000 € in sovrapprezzi.
Il segretario di Organizzazione del PSOE, Santos Cerdán, è stato incriminato dalla Guardia Civil per corruzione e apparente coinvolgimento nella trama, con indagini sui suoi conti e un’audizione fissata per il 30 giugno. Parallelamente, la Guardia Civil ha raccolto prove anche contro la moglie di Sánchez, Begoña Gómez, e suo fratello, David Sánchez Pérez‑Castejón, quest’ultimo rinviato a giudizio per presunta creazione di posti su misura nella Diputación de Badajoz.
Le inchieste hanno avuto ricadute immediate anche sulla tenuta della maggioranza parlamentare che sostiene Sánchez. Alcuni degli alleati di governo hanno preso pubblicamente le distanze dal partito socialista. Il leader di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), Gabriel Rufián, ha pronunciato un discorso durissimo al Congresso dei Deputati, affermando che “la sinistra non può permettersi il lusso di rubare”. Le sue parole hanno trovato eco anche in Sumar, che ha chiesto chiarimenti e trasparenza, mentre il partito basco EH Bildu ha espresso “grave preoccupazione” per la gestione politica degli scandali. Questo clima di tensione ha minato la fiducia reciproca nella maggioranza e ha messo in discussione la possibilità di approvare provvedimenti chiave nei mesi a venire, lasciando Sánchez in una posizione sempre più precaria, stretto tra le pressioni internazionali e una fronda interna che non intende più tollerare ambiguità su legalità e giustizia.
L’ostinazione con cui Sánchez ha rifiutato l’ultimatum statunitense va letta non solo come un gesto di coerenza politica ma di sopravvivenza interna. Dire di no agli Stati Uniti, soprattutto in modo così netto e spregiudicato, garantisce sempre un certo capitale politico interno. La posizione di Sánchez non è antiamericana, ma piuttosto europeista, nella misura in cui difende il principio che l’adesione all’Alleanza Atlantica non implica l’abbandono della propria autonomia decisionale. È un atto politico prima ancora che strategico, che tenta di ridefinire lo spazio d’azione degli stati membri dentro la NATO in tempi di ridefinizione del concetto stesso di sicurezza. La sua sfida, tanto solitaria quanto emblematica, resta per ora una nota dissonante in una sinfonia atlantica sempre più dettata da Washington. L’Europa si riarma e si spaventa, comincia la corsa matta agli ombrelli per ripararsi dal temporale.
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