Quando, nel 1926, il filosofo e politico italiano Antonio Gramsci scriveva dei momenti di crisi e dei loro “fenomeni morbosi più svariati”, non avrebbe potuto immaginare l’attuale situazione di crisi pubblica, politica, economica e sociale. Eppure, c’è qualcosa che possiamo ricavare da questa sua riflessione: se vogliamo evitare che nascano i mostri, dobbiamo far avanzare il nuovo mondo, e in questo, il femminismo può esserci di aiuto.
Non sorprende che, in una situazione di crescente incertezza e di disuguaglianze, le ansie sociali e il panico morale trovino il modo di manifestarsi politicamente. In questo contesto, la politica della paura controlla il discorso pubblico. Il nostro passato ci dimostra che il prodotto di queste narrazioni si discosta dai principi che il progetto europeo dovrebbe rappresentare: l’aumento della discriminazione, le politiche dell’altro e di esclusione, la competizione, l’individualismo e il comportamento egoistico. Se vogliamo evitare un’ondata di sfiducia, di euroscetticismo e di politica di estrema destra, dobbiamo agire, e dobbiamo farlo come federalisti europei. Ma come federalisti, abbiamo ancora una lunga strada comune da percorrere e c’è molto che possiamo imparare da altri movimenti politici volti a costruire una società più inclusiva, cooperativa ed equa.
Nel loro ultimo libro, i sociologi e filosofi francesi Pierre Dardot e Christian Laval sostenevano che costruire un autentico federalismo “non è possibile se non sulla base della cooperazione, non della competizione” [2], e gli eventi più recenti dimostrano la validità di questa osservazione. Le difficoltà nel trovare un accordo su un piano di ripresa economica europea e nel prospettare una risposta comune alla crisi, come abbiamo visto con la chiusura delle frontiere Schengen e con il mancato accordo sui coronabond, sembrano costruire muri tra Stati membri e cittadini; gli stessi muri che volevamo smantellare quando sostenevamo la solidarietà europea come modo per affrontare le questioni transnazionali.
Se c’è qualcosa in cui i recenti movimenti femministi sono riusciti, è stato nel realizzare il concetto di “comune” attraverso la loro azione collettiva, costruendo comunità che mettessero in risalto l’importanza di spazi pubblici condivisi come strade, piazze e sistemi di welfare pubblico. Questa possibilità di costruzione del mondo attraverso la cooperazione ha riportato il corpo al centro delle nostre strategie politiche. E il corpo è diventato centrale in questa strategia politica non solo perché ha permesso alle femministe di radunarsi per le strade o perché ha politicizzato le violenze e i rischi che le donne soffrono, ma è stato fondamentale perché ci ha permesso di esporre la radicale vulnerabilità e precarietà dei nostri corpi. Qui, la vulnerabilità non deve essere intesa come una condizione negativa, di debolezza e di abbandono, ma, invece, va intesa come una condizione di base della vita e dell’esistenza sociale, come apertura che ci costituisce come esseri che influenzano e sono influenzati dagli altri allo stesso tempo [1].
È questa apertura e fragilità che ci consente di enfatizzare l’interdipendenza che organizza e condiziona le nostre vite. In effetti, solo riconoscendo l’impatto che abbiamo gli uni sugli altri e il modo in cui i nostri incontri danno forma alle nostre vite è possibile capire l’importanza della costruzione di legami che ci uniscono.
Il femminismo ci ha dimostrato che è possibile costruire una narrazione polifonica che incorpora voci multiple (e talvolta contraddittorie) che articolate danno luogo a una comunità più ampia. Ciò è stato possibile solo riconoscendo la nostra vulnerabilità e interdipendenza, il nostro bisogno reciproco e l’impossibilità di operare come individui indipendenti e autosufficienti. Il femminismo ha così costruito una comunità, esponendo la nostra capacità di influenzarci a vicenda e prendendola come punto di partenza per costruire un progetto comune.
Questo è il momento giusto per abbandonare l’idea che la nostra partecipazione a una comunità è condizionata dalla nostra appartenenza ad essa. In effetti, l’appartenenza non dovrebbe essere intesa come una conseguenza ma, piuttosto, come una causa. Partecipiamo a un progetto comune e, così facendo, costruiamo i legami e articoliamo le voci che in primis modellano questa comunità. Non si tratta di prendere parte al progetto europeo perché siamo europei, ma di costruire un progetto europeo partecipando ad esso e, così facendo, costruiamo anche il nostro essere europei.
L’Europa non riguarda solo la politica monetaria o il controllo delle frontiere. Al contrario, l’Europa consiste nel creare una comunità in cui tutti si considerano uguali, come individui interdipendenti che hanno bisogno gli uni degli altri e che si influenzano a vicenda, attraverso l’apertura a una conversazione dialogica che articola i legami affettivi, sociali e politici in una rete, in un legame comune. E il femminismo può insegnarci come farlo. Se vogliamo evitare che nascano i mostri, dobbiamo iniziare a costruire questa comunità federale come parte delle trasformazioni sociali. Dobbiamo iniziare a costruire la nostra Europa federale come comunità basata sull’interdipendenza, sulla collaborazione e sulla solidarietà reciproca. E dobbiamo farlo ora.
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