Conferenza delle parti di Varsavia: confidando in un accordo nel 2015

, di Olimpia Fontana

Conferenza delle parti di Varsavia: confidando in un accordo nel 2015

Nonostante l’urgenza di stabilire precisi e più rigorosi ed efficaci obblighi da parte degli Stati in vista della scadenza, nel 2020, della seconda fase del protocollo di Kyoto, l’annuale Conferenza delle Parti (COP19) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), tenutasi a Varsavia dall’11 al 23 novembre 2013, si è conclusa senza colpi di scena, proseguendo sulla scia della Durban Platform for Enhanced Action siglata alla COP17 nel 2011.

Come affermato dallo stesso presidente della COP19 Marcin Korolec, a Varsavia “si è stabilito un sentiero su cui i governi lavoreranno per la bozza di un nuovo accordo universale sul clima. Un passo essenziale per raggiungere l’accordo finale a Parigi nel 2015”. Si prosegue quindi verso l’obiettivo di arrivare alla COP21 con un quadro globalmente vincolante in vigore a partire dal 2020. Ciascuno Stato dovrà contribuire all’accordo in termini di riduzione di emissioni di gas serra. È interessante notare che se nel testo negoziale originario della Conferenza si parlava di “commitments” per il clima da parte dei Paesi, il documento finale si riferisce a “contributions”: ciascun governo potrà applicare una certa discrezionalità nel fissare la misura del proprio contributo, che verrà poi presentato in sede di round negoziale.

Oltre all’iniziativa di lungo termine, la Conferenza ha prodotto:

 una serie di decisioni su aspetti operativi del Fondo Verde per il Clima (Green Climate Fund);

 la creazione di un Meccanismo internazionale di Varsavia per le perdite e i danni climatici (Warsaw International Mechanism for Loss and Damage);

 l’istituzione di un Quadro di Varsavia per REDD+ (Warsaw Framework for REDD+), ovvero un pacchetto di decisioni sugli aspetti organizzativi e istituzionali nell’ambito del programma REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation).

Il quadro che emerge dalla COP19 è scoraggiante sul fronte delle emissioni di gas serra e non è mutato l’atteggiamento indolente già manifestato nelle precedenti edizioni. A livello globale, Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo discutono sulla ripartizione degli oneri della riduzione delle emissioni: da una parte le nazioni ricche ritengono che debba valere un obiettivo di lunga scadenza uguale per tutti; dall’altra i paesi emergenti sostengono che devono essere le nazioni ricche a sperimentare per prime pratiche virtuose e fornire così il modello da seguire.

Divergenze persistono soprattutto tra Cina, che ha raggiunto il primo posto nella classifica dei maggiori emettitori di gas serra ma non intende per questa ragione sacrificare la propria crescita economica, e Stati Uniti, i quali vorrebbero che la Cina perdesse lo status di Paese non-Annex I dell’UNFCCC, ovvero di Paese in via di sviluppo non soggetto all’obbligo di riduzione delle emissioni.

Rimane, in ogni caso, problematico un accordo internazionale vincolante ed efficace se i Paesi industrializzati (prima di tutti gli Stati Uniti) non riconosceranno la posizione di principio, che accomuna tutti i Paesi in via di sviluppo (che ci pare legittima), in base alla quale le riduzioni progressive di emissioni di gas serra nell’atmosfera vadano calcolate sulle emissioni attuali “pro-capite” e non su quelle “totali”.

Preoccupa poi l’attuale posizione americana, divenuta più tollerante sull’utilizzo delle fonti fossili di energia, a seguito della prospettiva di autosufficienza energetica nazionale, da raggiungere nel 2020, attraverso l’utilizzo del petrolio e del gas metano estratto dal sottosuolo, mediante la tecnologia di “fracking”.

In un simile contesto, dove gli interessi economici nazionali continuano a prevalere sull’interesse ecologico globale, l’Unione europea appare l’unico attore sulla scena intenzionato a perseguire una politica energetica di contenimento delle emissioni, così come dimostrano il pacchetto “obiettivo 20-20-20” e i suoi ambiziosi sviluppi.

Ora che le potenze emergenti stanno rivendicando modelli di produzione (e di consumo, come di recente la Cina) all’occidentale, è necessario che l’Ue, oltre a investire per ridurre le emissioni del 20% di gas serra, esporti un modello di crescita alternativo, basato sul risparmio energetico, l’uso razionale dell’energia e il riciclo dei materiali. L’Ue appare, dunque, l’unico soggetto che possa promuovere il passaggio su scala mondiale verso quella che Jeremy Rifkin definisce la terza rivoluzione industriale. Grazie a una consolidata esperienza di unificazione in vari ambiti (economico, monetario e prossimamente bancario), l’Ue potrebbe interpretare l’attuale crisi economica come un’occasione per rilanciare la propria crescita attraverso investimenti nel settore della green economy e acquisire l’autorevolezza necessaria per proporre all’esterno un modello di sviluppo ecologicamente sostenibile.

Il punto di arrivo della svolta in senso ecologico, per funzionare in modo effettivo e democratico, dovrebbe essere l’istituzione di un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (WEO), dotata di poteri sovranazionali e di risorse proprie finanziate attraverso strumenti quali la carbon tax e la tassa sulle transazioni finanziarie. Non può, dunque, essere sufficiente l’assetto emerso dalla COP19, che apporta maggiore flessibilità al meccanismo dei contributi, prevedendo la ratifica di un protocollo sì universale e con valore vincolante, ma pur sempre subordinato alla disponibilità effettiva dei paesi su come e quanto intendano impegnarsi.

La crisi ambientale e la crisi economico-finanziaria hanno in comune il fatto di travalicare i confini nazionali e di basarsi sulle interdipendenze tra Stati. Ma se la crisi economico-finanziaria, che attanaglia principalmente i paesi occidentali, porta a una riduzione della propensione alla solidarietà sui problemi comuni, l’emergenza ecologica, che manifesta i propri effetti catastrofici soprattutto sui paesi emergenti, richiederebbe a chi ne ha la capacità e la responsabilità di impegnarsi per un radicale mutamento dell’attuale modello di sviluppo, in un orizzonte di sostenibilità che riguarda l’intero pianeta.

1. Articolo originariamente pubblicato dal Centro Studi sul Federalismo

2. Fonte immagine Railwaypro

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