Cos’è il World Justice Project e perché dobbiamo tenerlo d’occhio

, di Cesare Ceccato

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Cos'è il World Justice Project e perché dobbiamo tenerlo d'occhio
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Fondato nel 2006 - stesso anno in cui ebbe inizio la campagna Democracy Under Pressure - il World Justice Project è la più efficace organizzazione al mondo nel campo dell’informazione sullo Stato di diritto e della promozione dello stesso. Le ricerche e i sondaggi che svolge, coinvolgendo direttamente la società civile, gli permettono di redigere ogni anno un Rule of Law Index, i cui risultati, più nitidi di qualunque informazione la stampa possa fornire, sono spesso preoccupanti.

Tutti i capitoli della storia dell’umanità hanno almeno un elemento in comune: le persone capaci di immaginare. Pensateci, l’evoluzione è sempre stata legata a questo potere; c’è chi l’ha fatto in piccolo e chi l’ha fatto in grande, chi ha visto il suo nome perdersi nel tempo e chi diventare leggenda, ma ogni periodo storico ha avuto i suoi immaginatori, ed è grazie a loro che ci troviamo nel mondo che viviamo oggi. Non dobbiamo retrocedere di troppi secoli per incontrare la compagnia di Charles de Montesquieu, filosofi, storici e attivisti politici che immaginarono un mondo in cui non sarebbe stato il sovrano, ma i cittadini ad avere la parola sulla loro vita e sul loro destino, in cui tre poteri non si sarebbero accavallati l’uno sull’altro, in cui determinati diritti e libertà sarebbero stati intangibili, inviolabili, fondamentali. Grazie alla loro immaginazione, l’umanità ottenne, evento dopo evento, il fenomeno che conosciamo come Stato di diritto.

Eppure, quando oggi ci capita di leggerne o di sentirne parlare, raramente è per rimarcazione dei suoi valori, della dignità umana, della democrazia, dell’uguaglianza e della solidarietà, anzi, è per il venir meno di uno o più di questi per mano di uno Stato nazionale. E mica sempre si tratta di Stati giovani, che possono appellarsi alla scusa di non aver conosciuto al meglio la parola dei pensatori prima citati. Spesso sono Stati che vivono accanto a noi, o sotto il nostro stesso tetto, quello delle dodici stelle volte proprio a rappresentare umanità, pace e armonia. Dovremmo preoccuparci di non star andando nella direzione giusta?

La risposta è presto data dal World Justice Project, organizzazione nata dall’idea di William H. Neukom, con il supporto di altri 21 partner strategici, come iniziativa presidenziale dell’American Bar Association (ABA). Neukom immaginò un sistema in grado di creare conoscenza e consapevolezza sullo Stato di diritto in tutto il mondo e di stimolare l’azione per promuoverlo laddove questo presentasse delle evidenti lacune. Era il 2006, lo stesso anno in cui la JEF Europe lanciava la prima edizione di Democracy Under Pressure, campagna di denuncia sulle violazioni della democrazia e dei diritti umani, allora legata unicamente alla Bielorussia, il Paese ritenuto essere “l’ultima dittatura in Europa”. Se si guarda alle informazioni che il WJP raccoglie, si nota come questo mito non sia perfettamente veritiero.

Tradizionalmente, lo Stato di diritto è stato considerato il dominio di avvocati e giudici. Ma le questioni quotidiane di sicurezza, diritti, giustizia e governance riguardano tutti noi; tutti sono attori dello Stato di diritto, così recita il sito web dell’organizzazione, in apertura del Rule of Law Index, una classifica annuale di 139 Paesi ordinati per garanzia di libertà e diritti, tenendo conto di otto macro-dimensioni dello Stato di diritto: la limitazione dei poteri governativi, l’assenza di corruzione, l’open government, i diritti fondamentali, l’ordine e la sicurezza, l’applicazione della legge, la giustizia civile e la giustizia penale. I dati a riguardo sono raccolti attraverso sondaggi che coinvolgono direttamente la società civile, in modo tale che questi siano il meno possibile viziati dal credo politico o dal nazionalismo travestito da patriottismo delle persone di potere o degli organi di stampa.

Se negli ultimi sei anni i Paesi scandinavi (Norvegia, Danimarca, Finlandia, Svezia) hanno stabilmente occupato i primi posti della classifica, talvolta alternandosi sul gradino più alto del podio, altri hanno viaggiato sulle montagne russe. Guardando all’Europa, c’è una Francia che, nel giro degli ultimi due anni, ha perso sei posizioni, passando dal diciassettesimo al ventitreesimo posto. Forte contributo è stato sicuramente dato dalla legge prevedente pene per chiunque diffonda in modo negativo immagini in cui la Gendarmerie è impegnata in interventi di ordine pubblico, legge che compromette le libertà di stampa e di espressione. Infatti, se si prende unicamente a modello la categoria dei diritti fondamentali, la Francia è trentaduesima, terzultima tra i Paesi dell’Unione europea. L’Italia, dopo aver ondeggiato per anni negli ultimi posti della top 30, è oggi trentaquattresima. Una corruzione ancora paragonabile a quella di Bahamas e Santa Lucia, una giustizia eccessivamente burocratica e un sistema carcerario poco utile, spesso controproducente e al cui interno capita che i diritti umani vengano meno (vedasi le torture a Santa Maria Capua Vetere) fanno sì che il Bel Paese si trovi solo due posizioni avanti alla temuta Polonia, che pure non fa mistero delle sue violazioni dello Stato di diritto - dalle influenze governative sulla magistratura al divieto dell’aborto, passando per le LGBT free zones - che le sono costate pesanti sanzioni da Bruxelles, inclusa la sospensione dei fondi del Next Generation EU.

La Bielorussia, novantasettesima in classifica, fino al 2020 occupava la posizione che oggi spetta allo Stato fanalino di coda dell’Unione europea, ovviamente - ma neanche troppo, vista la decrescita della Grecia - l’Ungheria. Sessantanovesima, esattamente a metà classifica, a metà tra Danimarca e Venezuela. Ora, posto che con il passare del tempo l’indagine si è ampliata ad altri Stati, alcuni dei quali hanno esordito in fondo alla classifica, dimostrando di disporre almeno della trasparenza necessaria per esserci, come Mozambico, Mauritania e Haiti, cosa differenzia l’ultima dittatura in Europa dal Paese presieduto da Viktor Orbán? Allo stesso modo, cosa la differenzia da Stati candidati a entrare a far parte dell’Unione europea precipitati in classifica di venti (Serbia e Macedonia del Nord) o trenta (Albania e Turchia) posizioni nel giro di sei anni?

Fondamentalmente, la Bielorussia è una regime totalitario de facto. Dal 1994, anno delle ultime elezioni considerate legittime, il Presidentissimo Aljaksandr Lukašėnka ha pian piano inglobato sotto la sua autorità ogni potere della cosiddetta Repubblica, imponendo la sua legge, imbavagliando qualunque oppositore politico e facendo il possibile per mantenere il sedere ben caldo sulla poltrona più alta di Minsk. Lukašėnka è arrivato addirittura a escludere - per motivi che sarebbe iperbolico definire fumosi - dieci candidati alle elezioni presidenziali del 2020, elezioni che l’hanno nuovamente visto vincitore o per un’improvvisa epifania del 60% dei votanti o per spudorati brogli. Gli altri Paesi citati non arrivano a tanto, e sono privi del titolo di dittatura, ma stanno prendendo quell’andazzo. Tutti hanno iniziato con qualche riforma costituzionale borderline e proseguito con la più o meno palese invasione di un potere sull’altro. Arrivati a quel punto, ogni Stato ha proseguito nel modo che più gli conveniva, chi spiando la popolazione, chi opprimendo la stampa, chi l’opposizione, chi la minoranza di turno.

A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, e a ogni sgambetto allo Stato di diritto, il World Justice Project reagisce immediatamente. Questo è il motivo principale per cui va tenuto sotto stretta osservazione, soprattutto dall’Unione europea. Bruxelles può e deve indicare la strada da intraprendere ai suoi 27 Stati membri, così come a chi vuole andare a ricoprire quel ruolo. Certo, ogni capitolo dell’acquis è importante, ma attenzione di gran lunga maggiore dovrebbero avere il ventitreesimo, quello dedicato alla magistratura e ai diritti fondamentali, e il ventiquattresimo, su giustizia, libertà e sicurezza. È impensabile che un Paese dell’UE o candidato a farne parte, per quanto all’avanguardia possa essere a livello di sistema lavorativo, di ricerca o di tutela dell’ambiente, risulti sotto la soglia minima anche solo in una delle dimensioni del Rule of Law Index.

In realtà, è impensabile che un qualunque Paese, nel 2022, risulti sotto la soglia minima anche solo in una delle dimensioni del Rule of Law Index. È dimostrazione che non stiamo andando nella strada giusta e che abbiamo perso la capacità di immaginare un mondo migliore. Plurale, perché a questi dilemmi bisogna rispondere come umanità, che si sia danesi o venezuelani, europei, americani o asiatici. Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.

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