Si dice sempre che l’Unione europea si sia man mano fatta nelle grandi crisi e che siano state proprio le risposte a queste ad aver accelerato, nel corso della storia, qualsiasi processo di integrazione. E l’attuale crisi generata dalla guerra in Ucraina sta senza dubbio dando uno “scossone” al processo di integrazione europea, portando al centro del dibattito determinati temi (alcuni anche inediti), soprattutto in materia di politica estera, di difesa e di sicurezza comune europea.
Il fatto stesso che l’Unione europea si sia così apertamente schierata contro la Russia, annunciando addirittura l’invio di armi all’Ucraina, è un fatto inedito e potrebbe rappresentare un primo importante passo in avanti in materia di difesa comune con la realizzazione dell’Unione europea di difesa, storicamente argomento tabù.
È un fatto altrettanto inedito, e costituisce un importante svolta nell’approccio alle politiche (migratorie) europee, l’attivazione per la prima volta - da quando è stata adottata nel 2001 - della direttiva sulla protezione temporanea. Si tratta di un “dispositivo eccezionale per offrire una protezione immediata e temporanea nel caso di afflusso massiccio nell’UE di sfollati, cioè cittadini stranieri o apolidi che hanno dovuto abbandonare il loro Paese d’origine (o sono stati evacuati) e non possono rientrarvi, in particolare per guerra, violenze o violazioni dei diritti umani”. Si parla di «temporaneità» perché si considera che chi fugge dai luoghi di conflitto lo faccia temporaneamente poiché intenzionato a tornarvi una volta terminata l’emergenza.
Altro ambito in cui c’è stato uno “scossone” è quello del processo di adesione all’Unione europea da parte di Paesi terzi: se in passato ci sono state occasioni in cui l’Ue aveva fortemente accelerato su tale processo, ultimamente abbiamo potuto notare una sorta di “stallo”.
Con la Risoluzione adottata dal Parlamento europeo del 1° marzo, infatti, l’Unione europea si è di fatto impegnata ad approvare quanto prima la domanda dell’Ucraina per il riconoscimento dello status di Paese candidato. In questo modo potrà essere avviato tutto l’iter per il processo negoziale che si concluderebbe con l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea.
Tale fatto politico (non giuridico, dal momento che la risoluzione del Parlamento europeo non ha valore giuridicamente vincolante) è molto importante, soprattutto se rapportato con l’ampio dibattito che ne è scaturito: "Ucraina nell’UE, sì o no?”.
Si è trattato indubbiamente di un segnale forte da parte delle Istituzioni europee, che dovrebbe riportare alla memoria dei più scettici sull’argomento il famoso “allargamento a est” dell’Unione europea che vide l’ingresso di ben dieci Paesi tutti insieme nel 2004, poi di altri due nel 2007 (Romania e Bulgaria) e infine di un ultimo nel 2013, la Croazia.
In quegli anni, l’Unione europea aveva di fatto radicalmente “mutato” la propria politica di adesione: non a caso era sempre stato previsto che l’UE valutasse le domande di adesione caso per caso, e non che “raggruppasse” Stati per farli entrare tutti insieme. Quella volta invece, l’intento dell’Unione era stato proprio quello di “premere sull’acceleratore” portando all’adesione nello stesso momento di tutti quegli Stati, a riprova del fatto che in presenza di volontà politiche, si possono incentivare determinati processi.
Certo, la cosa aveva comportato senza dubbio delle conseguenze: non tutti i Paesi neo-membri presentavano lo stesso livello di standard richiesti dall’Unione europea (i cosiddetti “Criteri di Copenaghen”) per ritenersi allineati a essa. Ma proprio per tal motivo, le Istituzioni decisero di adottare alcuni “strumenti di flessibilità”, come nei confronti della Romania, verso la quale si attivò il cosiddetto “meccanismo di cooperazione e verifica”. Poiché al momento della sua adesione si riteneva che il Paese non fosse ancora del tutto effettivamente allineato agli standard di tutela dello Stato di diritto, si decise di creare tale meccanismo di controllo e verifica, della durata di 3 anni, per monitorare i progressi in materia di riforme istituzionali. Si riteneva infatti che la Romania avrebbe potuto raggiungere gli standard richiesti dall’UE sostanzialmente nell’arco di 2-3 anni.
Tuttavia, questo slancio nell’accelerazione del processo di adesione all’Unione europea per gli Stati terzi ultimamente si era arenato, tanto da non ritenersi dovesse essere portato avanti con urgenza e nell’immediato. Eppure, molti Stati desiderosi di fare il loro ingresso nell’UE hanno fatto, in questi anni, grandi passi in avanti per raggiungere gli standard richiesti. Basti pensare alla Macedonia del Nord che per risolvere la controversia relativa al nome del Paese con la Grecia, ha tenuto un referendum per aderire all’UE.
Su tutti questi temi tornati al centro del dibattito europeo, e non solo, l’Unione dovrà elaborare una propria strategia di risposta. Ovviamente, sarà compito non solo delle Istituzioni, ma anche degli Stati membri ridare slancio al processo di integrazione europea in ogni suo settore, dall’allargamento, passando per il progetto di una difesa comune, fino ad arrivare all’ambito della sicurezza energetica.
Quella attuale rappresenta un’altra crisi che, con ogni probabilità, darà avvio (come è stato altrettanto per la pandemia), a nuovi slanci ed enormi passi in avanti nel processo evolutivo di costruzione politica europea. Questo sarà possibile se l’Unione europea, con la partecipazione unanime di tutti i suoi membri, si adopererà per avere un’autentica unità politica; costruire un apparato di difesa comune, integrare la sua politica estera e di sicurezza comune, raggiungere un’autonomia strategica in materia energetica. Se, quindi, da questa crisi l’Unione europea ne uscirà più rafforzata e compatta che mai, in grado di affermarsi come leader politico sul piano geopolitico mondiale. D’altronde, come è affermato dalla dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto".
Segui i commenti: |