Dai criteri di Copenaghen alla nuova metodologia: tutto quello che c’è da sapere sull’allargamento ai Balcani

, di Euractiv Italia

Dai criteri di Copenaghen alla nuova metodologia: tutto quello che c'è da sapere sull'allargamento ai Balcani
(EPA-EFE/GEORGI LICOVSKI)
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Euractiv il 5 giugno del 2020, ed è a cura di Carlotta Benussi (ASSID).

La politica di allargamento consiste nel processo di adesione di paesi terzi all’Unione Europea. È ammissibile qualsiasi paese europeo che rispetti i valori dell’Unione e che si impegni nella loro promozione, secondo quanto previsto dagli articoli 2 e 49 del Trattato sull’Unione Europea (TUE). Il soddisfacimento dei criteri di Copenaghen (così chiamati in seguito al Consiglio europeo di Copenaghen del 1993, che per primo li mise nero su bianco, anche se in seguito sono stati rivisti durante il Consiglio europeo di Madrid nel 1995) è fondamentale nel percorso di integrazione dei paesi candidati, o potenziali candidati, in quanto quest’ultimi pongono delle condizioni politico-democratiche ed economiche da implementare, tra cui:

  • “la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela”;
  • “l’esistenza di un’economia di mercato affidabile e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione”;
  • “l’attitudine necessaria per accettare gli obblighi derivanti dall’adesione e, segnatamente, la capacità di attuare efficacemente le norme, le regole e le politiche che formano il corpo della legislazione dell’UE (l’«acquis»), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria”.

Mentre per avviare i negoziati di adesione all’UE, i paesi candidati devono soddisfare almeno il primo criterio, tutti i loro progressi vengono monitorati dalla Commissione europea che redige annualmente delle relazioni in merito. Il processo di allargamento si articola in 3 fasi principali (candidatura, apertura dei negoziati e membership), ognuna delle quali deve essere approvata da tutti i paesi membri dell’UE. Inoltre, il processo di adesione dei Balcani occidentali è stato favorito dal Processo di Stabilizzazione e di Associazione (PSA), avviato nel 1999 con l’obiettivo di avvicinare la regione all’Unione Europea favorendo lo sviluppo di una cooperazione regionale e bilaterale di natura finanziaria, politica e commerciale attraverso la stipula degli Accordi di Stabilizzazione e di Associazione (ASA).

Al di là della Turchia, i paesi della regione balcanica che si sono proposti come futuri membri dell’Unione Europea sono Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. Tuttavia se in Serbia e Montenegro i negoziati sono attualmente in corso, Macedonia del Nord ed Albania invece hanno ricevuto la veste di candidato ufficiale solo a Marzo 2020, nel pieno della pandemia COVID19, dopo che è venuta meno l’opposizione di alcuni paesi membri come la Francia, anche a seguito della decisione della Commissione europea di rinnovare la metodologia per l’allargamento nel febbraio 2020 per rendere il processo di adesione più credibile, dinamico e prevedibile, rafforzandone l’orientamento politico. La nuova metodologia ha la priorità di facilitare l’integrazione della regione attraverso vertici periodici tra Unione Europea e Balcani, con un maggior coinvolgimento degli stati membri nel monitoraggio e nel riesame del processo. Un’ulteriore novità è quella del raggruppamento dei capitoli negoziali in sei gruppi tematici (questioni fondamentali; mercato interno; competitività e crescita inclusiva; agenda verde e connettività sostenibile; risorse, agricoltura e coesione; relazioni esterne): i negoziati sulle questioni fondamentali sono gli apripista del processo negoziale e anche quelli che ne determinano la chiusura. Inoltre, la Commissione si impegnerà a fornire maggiori indicazioni sui passi da seguire per finalizzare l’adesione. Questo nuovo approccio si applicherà ai paesi che hanno ottenuto lo status di candidato, mentre Serbia e Montenegro, che hanno già avviato i negoziati, potranno decidere quale metodo applicare.

Paesi candidati

Il Montenegro ottiene la candidatura nel 2010 e i negoziati con l’UE partono nel 2012. Attualmente il paese ha aperto 32 dei 35 capitoli negoziali, ma solo tre sono stati chiusi e i progressi sono ridotti. Il Montenegro ha affrontato profonde divisioni politiche e tensioni sociali nel corso dell’ultimo anno: il Parlamento è dominato dal Democratic party of Socialists (DPS) dal 1991, alleato con partiti minori, mentre le opposizioni sono altamente frammentate e nel 2019 hanno boicottato i lavori parlamentari. La coalizione guida ha fatto dei passi controversi, tra cui l’adozione della legge sulle libertà religiose che penalizza la comunità serbo-ortodossa e che è sfociata in massicce proteste civili. Nel 2019, il governo ha alzato il salario minimo mensile da €193 a €222, dal momento che era il più basso in tutta la regione. Circa la libertà politica, l’EIU Democracy INDEX pone il paese all’84° posto, mentre, per quanto riguarda la libertà economica, Heritage Foundation lo posiziona al 42° posto su 45 nella regione europea anche se ha migliorato il suo punteggio ottenendo 61,5 punti. La crescita de PIL reale nel 2019 ha toccato il 4,7%, mentre l’irrigidimento della politica fiscale e la diminuzione della spesa pubblica hanno prodotto una riduzione del deficit di bilancio statale al 2,9% del PIL nel 2019.

La Repubblica serba è una democrazia parlamentare multipartitica ma negli ultimi anni la scena politica è stata dominata dal Partito progressista serbo, avviando un processo di erosione dei diritti politici e civili e ostacolando la libertà di stampa e di espressione, tanto che Belgrado è scesa di 14 posti nella classifica di Reporter senza frontiere, mentre l’EIU Democracy Index pone il Paese al 63 posto, con la perdita di 3 posizioni rispetto al 2018. Gli elementi a rischio sono soprattutto i giornalisti indipendenti e le opposizioni; in seguito alle violenze contro Borko Stefanovic, leader del partito di opposizione, sono scoppiate frequenti manifestazioni contro il governo. Nonostante ciò, i negoziati continuano e la Commissione prevede la sua adesione intorno il 2025, anche se ammette che si tratti di un traguardo ambizioso. Dal punto di vista economico la Serbia ha vissuto una crescita del PIL del 4,2%; ciò ha attratto ingenti capitali stranieri e interni. Inoltre, tra il 2008 e il 2018, il PIL pro-capite è aumentato del 26%. Malgrado ciò, l’emergenza Covid-19 sta guidando il paese verso una recessione economica, a causa di un’esponenziale riduzione del turismo, degli investimenti esteri e delle esportazioni. Il tasso di disoccupazione totale è del 9,7%, quello femminile (10,4%) è più alto rispetto a quello maschile (9,3%) ma sono entrambi in calo. La disoccupazione femminile sotto i vent’anni tocca il 55,6%, mentre quello maschile il 34,9%. Il livello di giovani disoccupati è cresciuto dal 26% nel 2019 al 29,51% a gennaio 2020. Grazie ai recenti aggiustamenti fiscali, è migliorata la sostenibilità del debito pubblico che è passato dal 70% del PIL nel 2015 al 48,2% a inizio 2020.

Paesi candidati in attesa dell’inizio dei negoziati

L’Albania ha presentato la domanda di adesione all’Unione Europea nel 2009 e il Consiglio Europeo ha formalmente dato inizio ai negoziati nel marzo 2020. Per giungere a questo traguardo, Tirana ha dovuto ottemperare a cinque priorità chiave: la riforma della magistratura e della pubblica amministrazione, la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, e la difesa dei diritti umani. Nonostante i miglioramenti evidenziati dall’ultima relazione del Consiglio, persistono ancora delle difficoltà a livello istituzionale, dove si è manifestata una notevole polarizzazione delle forze politiche, in seguito a frequenti proteste delle opposizioni nei confronti del governo nel 2019. Circa la democraticità, nel 2019 Tirana si è classificata al 79° posto secondo l’EIU Democracy Index, perdendo tre posizioni rispetto al 2018, e viene definita un regime ibrido. Dal punto di vista economico, registra tassi di crescita positiva con un innalzamento del PIL da una media del 2,2% nel 2015 a una del 4,2% nel 2018. Tuttavia, il reddito pro capite ($5075,40) risulta inferiore rispetto a quello dei cittadini europei ($40.978,90). Il tasso di disoccupazione si aggira intorno all’11,6%, il livello più basso mai raggiunto finora, mentre la disoccupazione giovanile ha subito un leggero aumento a inizio 2020 (21,4%). La lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, che dilaga nelle strutture giudiziarie e politiche, è stata inaugurata con la riforma giudiziaria del 2016 che prevede il processo di vetting, ovvero la verifica della formazione, del patrimonio e dell’integrità morale di giudici e procuratori. Transparency la posiziona al 106°posto nel suo indice di corruzione percepita.

La domanda di adesione della Repubblica della Macedonia del Nord è stata ostacolata per ben cinque volte dal veto greco a causa della disputa sul nome del paese. La controversia è stata risolta con l’accordo di Prespa del 2018 tra l’ex Repubblica di Macedonia e la Grecia, e ciò ha spinto il Consiglio europeo a dare il via libera all’avvio dei negoziati nel 2020, insieme a quelli albanesi. Nel maggio 2019 si sono tenute elezioni presidenziali che sono state valutate libere e credibili dall’OSCE: un esito migliore rispetto a quelle legislative del 2016, in cui erano stati registrati fenomeni di intimidazione nei confronti dei votanti. Al giorno d’oggi, Skopje ha raggiunto un equilibrio notevole grazie al rafforzamento della governance e a un maggior dialogo con le opposizioni. Nonostante l’EIU Democracy Index ponga il paese al 77° posto, classificandolo come regime ibrido, la Macedonia del Nord ha fatto molti progressi sul fronte dei diritti e libertà politiche. Ad esempio, la presenza di parlamentari donne è discreta (11%) e il paese ottiene 62 punti nell’indice di parità di sesso, appena sotto la media europea di 67,4. Il PIL ha vissuto un’espansione costante negli ultimi 5 anni (3,4%) grazie al consumo privato e pubblico mentre il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 16,6% nel 2020, sei punti in meno rispetto al 2017 (22,9%).

Potenziali candidati

Accordi di stabilizzazione e di associazione con la Bosnia-Erzegovina vengono aperti nel 2008 ma entrano in vigore solo nel 2015. Le condizioni interne relative allo sviluppo istituzionale, politico ed economico non facilitano l’accelerazione del processo. Infatti, la Bosnia-Erzegovina è caratterizzata da un’elevata decentralizzazione e una divisione su base etnica delle istituzioni statali derivate dalla Costituzione che, rientrando nel quadro degli accordi di pace di Dayton del 1995, riconosce l’esistenza di due macroregioni. Tali divisioni erano finalizzate a garantire maggior sicurezza alle parti che erano state coinvolte nella guerra civile: bosniaci musulmani, serbi e croati. Tuttavia, la Costituzione non sembra fornire una tutela sufficiente ai gruppi minoritari e più vulnerabili e contiene disposizioni che sono state giudicate non conformi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ad esempio, nella Repubblica Srpska solo recentemente è stata abolita la pena di morte. Inoltre, i diritti politici sono influenzati dall’appartenenza etnica e dalla residenza: i membri delle minoranze etniche non possono candidarsi alla presidenza. Nel corso degli anni le competenze statali si sono allargate, creando ambiguità circa la ripartizione dei poteri e influenzando anche il sistema giudiziario che non dispone di sufficiente autonomia e risulta fortemente politicizzato. L’EIU Democracy Index pone il Paese al 102 posto, classificandolo come regime ibrido mentre Freedom House conferisce un punteggio di 1 su 4 all’efficienza delle operazioni nazionali per la lotta alla corruzione, dando al paese un voto di 53 su 100 per quanto riguarda le libertà civili e i diritti politici. Con una crescita del Pil del 3% nel 2019, l’economia bosniaca fatica comunque a decollare e l’adozione di un’economia di mercato è rallentata da stalli politici e da insufficienti investimenti nel settore educativo (solo il 15% dei bambini ha accesso alla scuola materna mentre in UE il dato è del 95%).

La Repubblica del Kosovo si autoproclama indipendente dalla Serbia nel 2008 e al giorno d’oggi è riconosciuta dalla metà degli stati membri dell’ONU e dalla quasi totalità degli stati dell’UE, fatta eccezione per Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro. I difficili rapporti con Belgrado sono uno dei nodi cruciali che rallentano il processo di adesione, che è tutt’oggi allo stato di potenziale candidato; inoltre la proposta di liberalizzazione dei visti è ancora pendente al Consiglio. L’Accordo di Bruxelles del 2013, che ha favorito la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi e ha portato alla stipula di un ASA con il Kosovo, e il dialogo fra Pristina e Belgrado, facilitato da Bruxelles, stanno inoltre oggi vivendo una fase di stallo e sono in attesa di un rilancio. Il paese si trova ad uno stadio acerbo in tutti i campi soprattutto a causa di istituzioni deboli e una corruzione generalizzata che ha allontanato la fiducia dei cittadini. Dal punto di vista economico, con una crescita del Pil del 3,9% nel 2018, il Kosovo rimane comunque uno dei paesi più poveri d’Europa con un elevato tasso di disoccupazione (25,9% rispetto al 7,4% europeo) e standard di vita bassi: la popolazione al di sotto della soglia di povertà si aggira intorno al 17,6% contro il 9,8% dei cittadini europei. Il Freedom House definisce il Paese come parzialmente libero dandogli un punteggio di 56 su 100.

Nonostante i progressi registrati dai paesi dei Balcani occidentali, il processo di integrazione si prospetta lungo e tortuoso: la regione dimostra ancora grandi debolezze e lacune da sanare, e la lentezza degli sviluppi potrebbe frustrare la motivazione degli stati, che spesso procedono a tentoni in contesti critici e lontani dalle aspettative europee. Ma il coinvolgimento dei Balcani nell’Unione è auspicabile e necessario per infondere speranza ad un’area scossa da instabilità endemica, che sta tentando di costruire una prospettiva futura seguendo un modello, quello europeo, che potrebbe rappresentare una svolta nella storia balcanica. Si tratta di un progetto ambizioso che però favorirebbe sia la crescita dei candidati, sia la stessa Unione Europea che ne uscirebbe più compatta e completa. I dubbi rimangono, e sono legittimi, però si tratta di un processo in continua evoluzione che potrebbe sorprendere anche i più scettici.

Europea è una piattaforma autonoma istituita su iniziativa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), insieme a Centro Studi sul Federalismo (CSF), Centro Studi di Politica Internazionale (CeSPI), European Council on Foreign Relations Roma (ECFR), Istituto per gli Studi di Politica Interna (ISPI), Movimento europeo, Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT) e Villa Vigoni – Centro italo-tedesco per il dialogo europeo.

Inizialmente nata per accompagnare il dibattito pubblico in vista delle elezioni europee di maggio 2019, l’obiettivo della piattaforma che dà voce ai think tank e agli istituti di ricerca impegnati sulle tematiche europee è quello di fornire un’informazione puntuale e indipendente sulle politiche europee e sui rapporti tra Italia e Unione europea (dal sito di Euractiv)

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