Dalla pandemia alla transfobia: La Legge Anti-Coronavirus di Orbán

, di Cecilia Gialdini

Dalla pandemia alla transfobia: La Legge Anti-Coronavirus di Orbán

Il fine giustifica i mezzi. Questa citazione erroneamente attribuita al filosofo Niccolò Machiavelli [1] esplica perfettamente la motivazione che ha portato il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán a chiedere i pieni poteri al Parlamento, cavalcando il panico generato dalla pandemia di Covid-19. Il motivo di questa mossa è infatti arginare il contagio e sconfiggere il coronavirus. A differenza degli altri paesi europei, inclusa l’Italia, che si sono limitati a emanare lo stato di emergenza e a promulgare decreti (che dovranno poi comunque essere approvati dall’organo legislativo), Orbán ha fatto una scelta diversa, di reminiscenza militare e assolutistica, usando una terminologia che ormai sembrava propria solo dei libri di storia. Per il nazionalista ungherese, però, questa sembra essere la soluzione più efficace per salvare la popolazione dalla pandemia.

Ma se il fine è abbastanza manifesto (o almeno, così sembrerebbe), altrettanto non si può dire dei mezzi.

Infatti, la “legge coronavirus” prevede la sospensione delle attività parlamentari, l’estensione illimitata dello stato di emergenza di cui può essere decretata la fine solo da Orbán stesso. La manovra ha destato numerose perplessità e alcune reazioni abbastanza veementi; ma cosa può fare l’Europa di fronte a questa svolta così marcatamente illiberale? Secondo le parole di Pierre Haski su Internazionale ben poco. Infatti, di fronte a una critica del Presidente della Commissione Ursula Von der Layen, il portavoce del governo Zoltán Kovács ha ribattuto aspramente che sull’Ungheria si stiano adottando dei “doppi standard” e che Bruxelles stia propugnando una vera e propria caccia alle streghe e una “coordinata campagna di diffamazione”. Del resto, non è la prima volta che il Primo Ministro nazionalista e xenofobo sfida i valori alla base dei trattati fondativi e dello spirito stesso di pace e di solidarietà proprio dell’Unione. Stavolta però non ha soltanto oltrepassato la linea (come avevamo già affermato qui), ma ha deciso di andare ancora avanti, sfruttando l’emergenza della pandemia per piegare lo stato alla sua volontà. Infatti, il 31 marzo, una volta ottenuti i pieni poteri, il Super Primo Ministro ha presentato una proposta di legge (Legge T/9934, ribattezzata dalla stampa indipendente “Salátatörvény”, letteralmente “legge insalata”) o nella quale illustrava il suo piano d’azione nella guerra contro il coronavirus. Una legge estremamente dura, con norme ben più restrittive di quelle adottate in Italia e nel resto d’Europa. E che trascendono la sola quarantena. Si prevedono infatti pene fino a cinque anni di reclusione per la diffusione di fake news riguardanti il coronavirus e un incrementato controllo sulla qualità dell’informazione,mettendo gravemente a rischio la libertà di stampa.

Ma la disposizione più raggelante è negazione dei diritti di una delle più discriminate fasce della popolazione, una minoranza tra le minoranze, ancora oggi purtroppo vittima di pregiudizi e di oscuramento: le persone transgender. Pur nella totale assenza di un legame con la pandemia, infatti, Orbán inserisce a tradimento una nota che elimina la possibilità di cambio del sesso e del nome. Nel nome della lotta al Covid-19, nella legge viene introdotto il “sesso di nascita” che rappresenta l’unica caratteristica che determina il genere delle persone. Secondo questa nuova definizione “il genere basato sui caratteri sessuali primari e sui cromosomi”, pertanto sono di fatto negate le terapie ormonali e l’eventuale registrazione all’anagrafe del nuovo nome, alla fine del percorso di transizione. In questo senso, già l’Ungheria non si presentava come uno dei paesi più avanzati, dal momento che l’operazione chirurgica era uno dei requisiti per il cambio di genere sui documenti. Tutto questo proprio nel “Transgender Visibility Day”, per una sorta di macabra ironia o forse di deliberata sfida. Con un’interpretazione alt-right del detto “creare opportunità dalla crisi”, Orbán sta utilizzando il caos creato dal coronavirus per propugnare un regime personalistico e, con esso, imporre la sua visione cisgender ed eteronormata.

Tutto questo, oltre a essere un affronto ad anni di rivendicazioni per i diritti delle persone transgender, è una sconfitta per l’Unione Europea e il suo spirito democratico. Tristemente, non la prima.

Troppo spesso l’Unione ha chiuso gli occhi di fronte ad atteggiamenti chiaramente omofobi. A luglio dell’anno scorso, la Polonia aveva iniziato a stabilire le “LGBT free zones”, zone “ripulite dagli omosessuali” (che, per inciso, al momento contano quasi un terzo delle municipalità e delle province polacche). In Italia si è tenuto il famigerato Family Day, in difesa della famiglia tradizionale. Lo stesso Orbán è rimasto impunito dopo aver ritirato l’Ungheria dall’Eurovision con la motivazione che il Festival fosse “troppo gay”. Davanti a queste palesi derive illiberali e xenofobe, cosa ha fatto l’Europa? Citando di nuovo Pierre Haski “molto poco”.

Ma in questo caso il problema è più profondo. L’Unione Europea è molto, molto, indietro per quello che riguarda il riconoscimento dei diritti LGBTQ+. Nonostante nei trattati venga proibita la discriminazione degli individui per orientamento sessuale [2], l’Unione ha fatto poco o nulla per tradurre queste disposizioni in pratica. Alcuni flebili segni in questa direzione si ritrovano nella Direttiva 78 del 2000 e la Direttiva 54 del 2006, entrambe riguardanti l’eguale trattamento sul posto di lavoro, e nella risoluzione del Parlamento Europeo del 2019 sui diritti delle persone intersex. Le famose linee guida contro la discriminazione sono sempre rimaste bloccate al livello del Consiglio [3]. Per quanto riguarda le persone transgender, la situazione è ancora più desolante: benché nel 1989 il Parlamento avesse adottato una risoluzione sui diritti delle persone trans, l’identità transgender non compare in alcun documento o direttiva successiva. E soltanto nel 2002 la Direttiva 207 del 1976 sulla parità di trattamento fu emendata per includere anche l’identità di genere. In aggiunta al vuoto legislativo lasciato dall’Unione, anche l’implementazione dei diritti LGBTQ+ a livello dei singoli stati membri è piuttosto incongruente. Le normative per il cambio di sesso sono parecchio differenti e quasi tutte ancora molto indietro: sono pochi i paesi che non richiedono operazioni per poter cambiare il nome all’anagrafe [4] Il gesto di Orbán non ha fatto altro che evidenziare una delle più grandi lacune a livello europeo: la tutela delle persone transgender è materia troppo delicata per essere lasciata al solo volere dei singoli stati, troppo spesso tentati da spinte illiberali e antidemocratiche. È necessario innanzi tutto un coordinamento a livello europeo per elaborare misure non solo antidiscriminatorie ma di promozione attiva dell’identità di genere non binaria. A questo scopo, appare cruciale andare in direzione (ostinata e) contraria a quella di Orbán, propugnando una cessione della sovranità e una maggiore integrazione allo scopo di delegare a un organismo sovranazionale la legiferazione in materie che riguardino i più essenziali diritti umani. Solo l’Europa ha la levatura morale necessaria per assicurare l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, tutelando diritti civili anche in ambiti di cui gli stati nazionali ancora non sono in grado di comprenderne l’importanza.

Note

[1Sebbene storicamente collegata alla figura di Machiavelli, il filosofo non l’avrebbe mai enunciata nei suoi scritti. Tutt’altro, nel capitolo XVIII Del Principe si legge: “nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi [...]si guarda al fine [...] I mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati”.

[2Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea prevede la proibizione della discriminazione sulla base “sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale” (articolo 10) e l’istituzione di provvedimenti opportuni per combattere tali discriminazioni (articolo 19). Anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE sancisce la non discriminazione per orientamento sessuale all’articolo 21.

[3Joke Swiebel (2009) Lesbian, gay, bisexual and transgender human rights: the search for an international strategy, Contemporary Politics, 15:1, 19-35

[4Per maggiori informazioni sul livello di inclusione dei singoli stati, si rimanda al sito dell’iniziativa Rainbow (https://rainbow-europe.org/#1/0/0), realizzata creata dall’ILGA-Europe, the European Region of the International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans & Intersex Association.

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