Democrazia d’eccezione

, di Sebastiano Putoto

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Democrazia d'eccezione
Soldati tedeschi seduti all’esterno di un cafè parigino (19419). Das Bundesarchiv, via Wikimedia Commons.

Il normale funzionamento delle nostre democrazie è sospeso durante questo periodo di quarantena e isolamento forzati, imposti dalla maggior parte dei governi europei ai propri cittadini per contenere la diffusione del COVID-19. Misure senza dubbio giustificate a seguito della pandemia. Ma una volta superata la crisi sanitaria, come libereremo dalla quarantena i nostri diritti civici e politici?

“Misure eccezionali per circostanze eccezionali” è il mantra di questi tempi. Il Grande Isolamento ci ha portati a chiuderci in casa – ma, d’altra parte, ha anche confinato molti dei nostri diritti civici e politici, come la libertà di riunione o il normale funzionamento dei sistemi parlamentari. Non che le misure di quarantena non siano giustificate, quando la scelta sia tra contenimento temporaneo o contagio virale. Le leggi e le norme – l’ordine giuridico-costituzionale di una società – sono stabilite per quelle circostanze che il legislatore può prevedere. Ma a differenza di una guerra, che ancora richiede una dichiarazione formale in un preciso istante di tempo, una pandemia globale non rispetta i precetti del diritto internazionale – d’altronde, come potrebbe? – e colpisce senza preavviso.

Lo Stato d’eccezione

Contro una crisi di tale portate, pertanto, s’impongono misure urgenti ed energiche. Perché queste misure possano essere intraprese, il potere esecutivo deve disporre di poteri emergenziali, previsti dalla maggior parte, se non da tutte, le Costituzioni moderne. La lungimiranza di padri e madri costituenti, memore degli orrori dei regimi fascisti autoritari e della Seconda Guerra Mondiale, giustamente ha definito ambito e durata di tali norme da “Stato d’eccezione”. Un tentativo di porre condizioni e vincoli a quella che il filosofo tedesco Carl Schmitt[1] chiamò “dittatura commissariale”: una sospensione momentanea dell’ordine costituzionale volta a preservare l’ordine costituzionale stesso. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che filosofi posteriori trovarono a rimarcare[2] del resto, è che non v’è garanzia che il “sovrano” – colui che esercita poteri emergenziali durante lo Stato d’eccezione – li restituirebbe una volta superata la crisi.

Misure d’emergenza nell’Unione Elementi di “Stato d’eccezione” si possono rinvenire nella risposta dei Governi europei alla crisi del COVID-19. Sorvoliamo per un attimo sui soliti “ragazzacci”, Polonia ed Ungheria: il governo per decreto, la sospensione delle elezioni e delle sessioni parlamentari, le restrizioni alle libertà personali e collettive, sono diventate la norma in tutti gli Stati Membri. Misure giustificate – e ci mancherebbe! – dalla necessità di proteggere l’inviolabile diritto alla vita dei cittadini. Il disagio, tuttavia, non ha mancato d’emergere. È certamente possibile che, come nel caso della Spagna, le diatribe sullo stato d’emergenza siano dettate in larga parte dall’opportunità di sfruttare la debolezza strutturale di un governo di minoranza per vantaggi elettorali a breve termine. Ma l’interesse politico di parte non può sempre essere una scusa. È diritto dei Parlamenti sorvegliare e dovere delle opposizioni – per quanto a volte estrema e disgustosa la loro proposta politica – contestare le azioni dei Governi. In Italia, il paese che conosco meglio, le misure d’isolamento sono state in larga parte decise per Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM): un atto amministrativo “avente forza di legge”, sul quale però pesa la mancanza di controllo parlamentare. I DPCM sono stati preferiti – e varrebbe la pena chiedersi perché – ad altri strumenti previsti dalla nostra Costituzione, di approvazione ugualmente rapida e sostanzialmente autonoma da parte del Governo, come i decreti legislativi e i decreti legge. La necessità di mandato parlamentare o di conversione in legge a data posteriore permettono una fondamentale dimensione di controllo parlamentare ex ante o ex post, senza nulla togliere alla rapidità dell’azione governativa. L’interrogativo, allora, non è se queste misure siano momentaneamente giustificate, ma se i precedenti che si determinano oggi permarranno dopo la crisi sanitaria. Cioè, se lo Stato d’eccezione sia, in definitiva, l’Hotel California delle democrazie moderne: puoi uscirne quando preferisci, ma non lo potrai mai veramente abbandonare[3].

Uno stato di emergenza permanente

La politica occidentale vive in stato di emergenza permanente da almeno vent’anni, e poteri quasi-emergenziali sono stati esercitati senza freno anche in tempo di pace. Sempre a titolo d’esempio, con l’intenzione di garantire rapidi processi legislativi a livello UE, la maggior parte della legislazione europea ha, nei fatti, trascurato le procedure previste dai Trattati, a favore invece dei cosiddetti “triloghi”: negoziati informali (e pertanto non trasparenti) sui testi legislativi tra Commissione europea, Consiglio dell’Unione e Parlamento europeo. Non sarebbe inconcepibile considerarli una mite – e tuttavia persistente – versione dello Stato d’eccezione schmittiano. A scanso d’equivoci, sia chiaro sin da subito che non è mio parere che la Commissione (l’Esecutivo dell’Unione) possa mai divenire un’istituzione di tipo autoritario, non ultimo perché non “sovrana”: le mancano competenze e strumenti per assumere quei poteri emergenziali necessari all’imposizione unilaterale della propria volontà, nonostante le sguaiate grida euroscettiche di certuni. Questa è, peraltro, la battaglia fondamentale dei federalisti: che nessun livello di Governo – locale, regionale, nazionale, europeo o globale – sia mai “sovrano” nel significato schmittiano, capace di sospendere indefinitamente l’ordine costituzionale e i diritti dei cittadini. In ciò giacciono peraltro forza e debolezza delle democrazie parlamentari. I processi parlamentari e giudiziali sono deliberatamente lenti, poiché hanno per obiettivo di distillare gli elementi delle decisioni, permettendone un’attenta considerazione e un dibattito pubblico con cognizione di causa[4]. Le decisioni prese in stanze chiuse e nemmeno più dense di fumo sono certamente rapide, ma difficilmente rafforzeranno la fiducia dei cittadini nell’Unione. Come potranno mai queste decisioni prese in un permanente Stato d’eccezione, con un occhio alla prossima tornata elettorale, invece che alla prossima generazione, prepararci per i cambiamenti profondi e strutturali del mondo che verrà?

La lotta che ci attende Mentre alcuni di noi si trovano già alla fine del loro periodo d’isolamento da COVID-19, molte domande emergono prepotentemente, relative al nostro lento ritorno ad un ritmo di vita normale: come andare a lavorare di nuovo fuori dalle nostre case, mantenendo il distanziamento sociale, o come gestire e finanziare l’uscita da una recessione prolungata che sopravviverà di molto ad una crisi sanitaria per altri versi relativamente breve (ma non per questo meno profonda). Ma la domanda che ancora in pochi sembrano porsi è come gestiremo gli effetti duraturi della pandemia sulle nostre democrazie. Una cittadinanza inquieta è facilmente sedotta dall’illusione dello splendore governativo: salde scrivanie di legno da dove s’annunciano quarantene, s’uno sfondo di tappezzerie dorate ed insegne istituzionali. Implicazioni che vogliono sottintendere che l’Esecutivo è, e sempre sarà, un benevolo e leale protettore – e questo, caro lettore, è tutt’altro che certo. Una flebile vocina nella vostra testa vuole portare alla vostra attenzione l’altro lato della questione: letta nella stessa voce monotona dello stesso Primo Ministro, è l’asserzione che controlli ed equilibri democratici hanno, per ora, cessato d’applicarsi – e questa, caro lettore, è la verità. Le emergenze sono un melodioso richiamo all’assolutismo, e i potenti sono assuefatti al dolce canto di queste sirene. Ciò che inizia dolce, finisce amaro. E non sempre ciò che inizia amaro, finisce dolce. Questo è il motivo per cui tanto ci dovrebbero essere care le democrazie parlamentari e i loro processi lenti; e sempre questo è il motivo per cui non possiamo rinunciare alla nostra lotta, come democratici radicali e come federalisti.

[1] Carl Schmitt (1888 – 1985), fu un giurista, filosofo e teorico politico tedesco, famoso per il suo lavoro sul concetto di “Stato d’eccezione”, la sospensione dell’ordine costituzionale e il conseguente esercizio di poteri straordinari da parte del “sovrano” (tipicamente, il Potere Esecutivo). Schmitt fu anche un esponente di spicco del Partito Nazional-Socialista tedesco (la sua infatuazione per lo Stato d’eccezione non avrebbe dovuto lasciar adito a dubbi). [2] Cfr. per es. Carl J. Friedrich (1941), Governo costituzionale e democrazia. [3] Il testo originale inglese della canzone degli Eagles recita “you can check out anytime you like / but you can never leave”. [4] La responsabilità di un’eventuale dicotomia tra teoria e pratica andrebbe cercata più tra i cittadini (in)attivi, che nei processi stessi.

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