Democrazia sotto assedio - parte 1

, di Davide Emanuele Iannace

Democrazia sotto assedio - parte 1
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Articolo pubblicato nell’ambito della campagna 2020 «Democracy Under Pressure» della JEF-Europe, 16-22 marzo 2020. Parte 1 di 2.

La democrazia contemporanea non è semplicemente sotto pressione. Oggi, all’alba degli anni ’20, la democrazia è costantemente sotto assedio. Dopo essersi conquistata il suo spazio nel mondo e nel mosaico della storia, la democrazia come la conosciamo si ritrova ad una pericolosa impasse, divisa tra le sfide proposte da tecnologie sempre più pervasive e presenti nella vita di tutti i giorni e le sfide dell’anima umana, forse ben più insidiose di ogni computer.

Il mondo nel 2020 ha iniziato probabilmente tutto con il piede sbagliato. L’Australia ha bruciato per mesi, prima nel negazionismo del suo stesso governo, poi nella dolorosa accettazione che il clima, di per sé mutevole, ha accelerato i suoi cambiamenti; il Medio Oriente è ancora pervaso da venti di guerra, dalla Libia alla Siria, passando per l’uccisione dichiarata di ufficiali iraniani; il Covid-19 è l’ultima sfida di questi primi tre mesi, un virus che ha “approfittato” della grandezza del mondo interconnesso per diffondersi da un capo all’altro del pianeta. Sono tre, solo alcune di quelle che in realtà stiamo vivendo. Ogni paese e continente si ritrova con problemi, che possono andare dal nazionale fino all’urbano o al globale, interconnessi in una fitta rete sempre di più messa in crisi.

Al di là dei più che manifesti effetti di queste tre grandi sfide, c’è qualcosa su cui vale la pena portare l’occhio: come la democrazia stia mostrando, una ad una, tutte le sue crepe. Nonostante abbia affrontato sfide ben più mortali, come i governi totalitari di metà XX secolo, oggi la democrazia è nuovamente sotto assedio, in rottura con sé stessa a causa di una serie di fattori che nel XX secolo, semplicemente, non esistevano.

Il primo fra tutti è la globalizzazione in sé per sé. Viviamo in un mondo interconnesso, in cui l’Effetto Farfalla ha più che mai conseguenze sociali e politiche. Fin dall’inizio della crisi Covid-19, quando i giornalisti ancora lo definivano il “Coronavirus cinese”, pensando che si sarebbe fermato lìa Wuhan, limitato dalle misure di contenimento super-restrittive del governo di Pechino; gli effetti sull’economia globale avevano già cominciato a farsi sentire. La chiusura delle fabbriche che producono quotidianamente, quasi H24, i pezzi necessari a mandare avanti le economie delle mega-corporazioni europee ed americane, avevano scosso i mercati. Come vendere gli IPhone, se i chip sono bloccati in Cina? Come si può mandare avanti un mercato a produzione di massa se non si può produrre una massa di qualcosa?

Quando poi il Covid-19, come finalmente ci si è decisi a chiamarlo, si è diffuso al di là dell’Asia ed ha cominciato a fare nido in Europa, in Medio Oriente e negli Stati Uniti, ci siamo accorti, brutalmente, che oggi i confini hanno il valore dei muri che proviamo ad alzare, delle mappe satellitari e degli sconfinamenti aerei, e che fondamentalmente quindi non esistono. Le navi da crociera balzano da un porto ad un altro; gli aerei volano da un hub internazionale all’altro, dove passeggeri cinesi si incrociano con americani mentre si siedono su aerei diretti da una parte all’altra del globo, scambiando poche parole, carte di credito e monete contanti con i lavoratori di questi stessi hub che poi, comunque, usciranno fuori. C’è poco da dire: il videogioco The Division ci aveva visto perfettamente su questo, una sola banconota può far più danni di una bomba. La globalizzazione, che comunque ha dato tantissimo all’umanità fin dall’alba dei tempi (tante sono le riflessioni che potremmo citare in merito, ma Andrè Gunder Frank e Thomas L. Friedman sono forse alcune delle necessarie letture su questo fenomeno per farsi una buona base di partenza), è anche allo stesso tempo uno dei suoi aspetti più incontrollabili. Di fatto, nessuna entità globale esiste oggi. Le Nazioni Unite, con le sue organizzazioni, non si possono nemmeno lontanamente comparare a un governo mondiale. Anche volendo, non potrebbe isolare senza l’assenso dei suoi membri una nazione per motivi emergenziali. Non ha la velocità, né il potere di governance né un monopolio della violenza che la identificano come un organo capace di imporsi sugli stati.

Non avendo una governance sopra la globalizzazione, quello che otteniamo sono centinaia di stati, ognuno in corsa con il proprio futuro, alla ricerca di una propria strada, imbrigliati in logiche economiche e politiche che spesso sfuggono ai loro stessi attori.

Per diventare quello che è diventata oggi, la globalizzazione ha avuto bisogno non solo delle più recenti innovazioni nella meccanica dei trasporti, ma anche di quella delle telecomunicazioni. Senza Internet, non avremmo il mondo del XXI. Sembra stupido ripeterlo, ma è necessario. Internet è di fatto la spina dorsale del XXI secolo. Perché dovevamo ripeterlo? Perché era necessario per arrivare al punto in cui anche la democrazia ha iniziato a fondarsi sulle connessioni online. Nonostante l’attivismo politico e i comizi siano ancora oggi eventi offline, fisici, reali, le informazioni sui politici balzano da un server russo ad uno americano, minando la credibilità degli attori in corsa, per lo più volontariamente. È sui social che i meme navigano, nella loro finta innocenza di immagini divertenti che nella realtà trascinano con sé layer e layer di significati. L’ironia vive di Facebook, Twitter e Instagram, tra una battuta e un commento acido che nella realtà nasconde una vera intenzione di voto. Le urla dei votanti sono lì, al fianco delle ironiche immaginette e quelle hanno un significato che non si può semplicemente dismettere come “leoni da tastiera” e “gente senza null’altro da fare”. Perché alla fine quelle urla antisemite che correvano sui social le abbiamo viste a dicembre e gennaio sulle case di persone di religione ebraica. Perché alla fine, la gente che voleva sparare ai migranti, in Grecia lo fa davvero.

E visto che la democrazia, di fatto, si basa sulle persone, si basa sul loro desiderio di vivere e partecipare alla vita di uno stato democratico, non possiamo nemmeno non tenere in considerazioni tutti quelli che gridano contro questo stesso sistema.

Covid-19 ha messo in luce alcuni dei peggiori aspetti della democrazia, ma non del sistema teorico, quanto della sua realtà pratica. Ha messo in luce che gli attori interessati ad approfittarne per puro guadagno, economico e politico (non faremo nomi diretti, non ce n’è proprio bisogno), useranno ogni loro strumento e ogni arma a loro disposizione pur di ottenere un guadagno, a costo di qualsiasi caos e di qualsiasi degenerazione del sistema. Non solo, ha mostrato anche che è difficile lottare contro il panico delle persone; che queste diventano codarde, nel momento in cui lasciate in una situazione di caos che non riescono a capire; che abbiamo tanto a lungo elogiato il diritto dell’individuo a vivere che abbiamo dimenticato che la libertà ha un prezzo, e che questo prezzo si chiama responsabilità. Le urla contro i migranti che attraversano il Mediterraneo, gli inni per le Persone Forti al Comando, l’odio verso le vecchie élite, la ricerca perenne di un nemico, l’incapacità di obbedire ad un semplice comando come lo stare a casa per il bene pubblico, sono tutti pezzi di un solo puzzle che vede, al centro, una democrazia sempre più in crisi con sé stessa e le persone a cui dovrebbe rispondere.

Perché tutti pezzi di un unico puzzle? Perché di fondo il problema comune a questa scia è sempre lo stesso. Non è semplice ignoranza, perché sarebbe fin troppo facile affrontare questo problema gridando al lupo dell’analfabetismo, reale e funzionale. Potremmo puntare il dito contro delle misteriose élite che nell’ombra si muovono per conquistare il mondo, il Majestic-12 e gli Illuminati o chicchessia. Potremmo anche semplicemente dare la colpa al pessimo tempismo di un virus. La verità è, come sempre, complessa. La verità è che la democrazia è in crisi perché, contemporaneamente, vive dei rigurgiti autoritari che vengono spinti da una certa élite politica e culturale, ma anche da uno stato di quasi perenne crisi percepita, di un mondo in bilico e al rischio, in cui si ritrova nella Fede -che non è solo religiosa- un punto di appiglio. È in crisi perché, in mezzo a questa situazione di incertezza e rischio, sospinti dagli attori ma anche dal proprio banale umano impulso di cercare un senso il più semplice possibile alle cose, a trovare nell’Altro il nemico, nell’Altro sistema l’avversario. Il pre-giudizio vince su ogni giudizio possibile perché conviene, molto di più, scaricare la responsabilità su qualcos’altro, su qualcun altro.

Così possiamo spiegare la fuga dalla Lombardia, i due sciatori di Codogno scappati in montagna in weekend bianco. Così possiamo spiegare la fuga di notizie poco prima della quarantena, chi ha preso d’assalto i treni in notturna o chi ha fatto sette ore di taxi per fuggire. Non è semplicemente la paura che vince sul buon senso, perché di per sé la paura c’è sempre, e sempre ci sarà. È la vittoria della mancanza di senso critico con il semplice impulso del “Io me ne frego”, di fascista memoria e che fondamentalmente è lì, sotto lo strato di idiozie con cui riempiamo oramai i social media con possibili spiegazioni e interviste. I ragazzi in piazza a fare aperitivi sono quelli del “Io me ne frego”, che mettono a rischio paese e vite, comprese quelle di coloro che amano, solo perché incapaci di fare un semplice calcolo su quali siano i propri diritti e quali i propri doveri. La democrazia non è solo un piacere.

Continua...

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