La crescita delle differenze culturali all’interno delle società globalizzate in cui viviamo è un dato evidente, di cui tutti possiamo fare esperienza quotidiana. La mobilità transnazionale delle persone, degli immaginari collettivi, dei valori, delle lingue e dei linguaggi – in una parola delle culture antropologicamente intese – è all’origine di questa crescita delle differenze, che determina il carattere sempre più multiculturale delle comunità e dei territori.
Il mondo, in altre parole, è in misura crescente attraversato da flussi non solo di merci o di denaro, ma anche di segni di natura culturale che configurano, fra l’altro, diverse possibili opzioni esistenziali per gli individui, posti di fronte a molteplici possibilità di scelta rese disponibili per un verso dall’incontro quotidiano con gli “altri diversi da me” e, per altro verso, dalle “vetrine” mediatiche globali veicolate dai grandi networks dell’informazione e dell’intrattenimento. Il mondo globalizzato è, per così dire, una sorta di grande “supermercato dell’immaginario”, in cui la vita reale e la sua rappresentazione si mescolano e confondono, e in cui un numero crescente di persone può fare esperienza, fisica o anche solo virtuale, della differenza. Quali tipi di differenza, e di quale origine? In sintesi: differenze di origini etniche (con le connesse differenze somatiche che, lo si voglia o no, di fatto contano nelle percezioni collettive). Differenze linguistiche, spesso un vero “muro” relazionale che impedisce il dialogo fra le persone e le culture. Differenze religiose, che se enfatizzate e assolutizzate hanno come noto esiti tragici nelle relazioni umane. Differenze di natura etica, connesse a diversi sistemi di valori e tradizioni culturali. Differenze “di genere”, maschi e femmine, ma non solo, e di preferenze sessuali, che in qualche caso contano anche più di altre differenti appartenenze (le comunità gay, ad esempio, mescolano spesso con successo diverse etnie, religioni, classi sociali). Differenze sociali, di classe e di status, che si intrecciano inevitabilmente con le altre, e determinano divisioni o aggregazioni non facilmente prevedibili.
In sostanza, tutto ciò determina un insieme di differenze culturali di tipo antropologico - inerenti a costumi, modi di vita, mentalità, atteggiamenti ecc. - e quindi la nascita e lo sviluppo di società sempre più multiculturali. Una multiculturalità globale che per la prima volta nella storia proviene “per grandi numeri” (centinaia di milioni di persone, flussi informativi multimediali quotidiani e pervasivi ecc.) da tutto il mondo, e lo percorre interamente.
E’ utile rilevare, fin d’ora, che multiculturalità non significa multiculturalismo. Di fatto le nostre società del XXI secolo sono tendenzialmente tutte multiculturali, nel senso che ospitano al loro interno un insieme crescente di differenze culturali, ma non tutte praticano il multiculturalismo, cioè politiche tese a proteggere, favorire e consolidare le differenze. In breve, la multiculturalità è un fatto (che può piacere o non piacere, ma di cui non si può negare l’esistenza), mentre il multiculturalismo è un orientamento strategico, una politica, una scelta che può essere perseguita o meno. Va anche osservato che ci sono modi diversi possibili di intendere questa politica e questa scelta, e quindi non esiste neppure (anche questo è un fatto) un multiculturalismo solo.
In questa prospettiva, si può anche capire meglio cosa siano stati, e in qualche misura tentino ancora di essere, gli Stati sovrani nazionali, visti nella loro “lunga durata” fra XIX e XX secolo. Questi Stati hanno in qualche misura “nazionalizzato” le società, o almeno hanno tentato con tutti i mezzi, compreso l’uso della forza, di farlo. In concreto, hanno imposte lingue uniche, religioni dominanti, etiche pubbliche di Stato, lealtà esclusive ed escludenti, forme di cittadinanza su base nazionale, modelli di famiglia univoci e così via. Gli Stati nazionali, in breve, hanno sempre temuto e osteggiato le differenze, e favorito e promosso l’uniformità, che era vista come la base fondamentale della loro legittimazione.
Nella medesima prospettiva si può anche capire meglio come questo tipo di Stato nazionale e nazionalizzatore, oggi, “perforato” da ogni lato dai flussi della globalizzazione, sia ormai al tramonto. La società civile, il territorio, in misura crescente sfuggono al controllo dello Stato, perdono i caratteri tradizionalmente nazionali, si decostruiscono, e si transnazionalizzano. Si sviluppa in sostanza una contraddizione sempre più forte fra forme della statualità e struttura della società civile: la statualità è sempre più vuota e delegittimata, la società civile è per altro verso sempre più “orfana” di una statualità capace di rappresentarne la realtà, le aspettative e gli interessi.
La prospettiva che stiamo delineando offre anche una chiave di lettura del processo di unificazione europea in corso. La grande “scommessa” del processo di integrazione europea, dopo la fine della seconda guerra mondiale, è stata precisamente questa: mettere fine ai conflitti identitari, transnazionalizzare (cioè in questo caso europeizzare) le società civili, promuovere l’unità nella diversità (“uniti nella diversità” è come noto il motto dell’Unione Europea, uno dei suoi tre simboli insieme all’inno e alla bandiera). Una “scommessa” in qualche misura vinta, ma comunque sempre in pericolo, come segnalano la rinascita di forme di xenofobia e razzismo; i successi elettorali di movimenti nazionalisti e populisti; le reazioni impaurite e difensive ai processi migratori dei segmenti della società civile più negativamente investiti dai meccanismi della globalizzazione; le reticenze e i silenzi delle leadership politiche anche progressiste di fronte alla prospettiva della “cittadinanza di residenza” (non più legata all’origine nazionale) come strumento decisivo della convivenza multiculturale.
I problemi della multiculturalità, della differenza e della convivenza, oltre che in Europa, sono come è noto all’ordine del giorno anche in tutti i grandi Stati federali del mondo: dall’India, il caso più straordinario e suggestivo di multiculturalità in un contesto di statualità comune, agli Stati Uniti, al Canada. Le grandi federazioni si propongono in sostanza come i “laboratori” più significativi, per il loro successo od anche insuccesso, delle politiche per affrontare questi temi, come i luoghi di sperimentazione di prospettive che potrebbero domani essere utili anche per pensare e costruire qualche forma di statualità planetaria.
Come governare dunque, nella nostra età globale, società sempre più multiculturali? Come affrontare il problema della convivenza delle differenze o, per richiamare il motto dell’Unione Europea, dell’ “unità nella diversità”? Come gestire, con quali istituzioni e forme di statualità, una complessità sociale e culturale inedita, che rischia sempre di sfuggire al controllo e può in ogni momento tradursi in pericolosi - come ha scritto Amartya Sen, “l’identità può anche uccidere, uccidere con trasporto”- conflitti identitari?
Credo che una prima e fondamentale risposta a queste domande consista nel riconoscere la necessità, tanto sul piano culturale quanto sul piano istituzionale, della pluralità delle identità, delle appartenenze e delle cittadinanze. La società multiculturale, se vuole convivere pacificamente e valorizzare le differenze, deve necessariamente essere una società “declinata al plurale”. La pluralità delle identità e delle appartenenze va intesa non solo come un attributo della società nel suo complesso, in quanto differenziata al suo interno e composta da persone e gruppi diversi per tradizioni culturali, origini e sistemi di preferenze. Va intesa, prima e più ancora, come un attributo dell’individuo, che porta in sé, legittimamente, dimensioni identitarie plurali e appartenenze molteplici. All’origine dei conflitti identitari e delle tragedie conseguenti, come dimostra l’esperienza storica, c’è di solito, per così dire, “un’ipertrofia dell’identità” o, più precisamente, di un singolo fattore identitario che viene assolutizzato e reso esclusivo rispetto a tutti gli altri come, ad esempio, nel caso dei fondamentalismi religiosi oppure, ancora, dei fondamentalismi di natura etnica. Né la religione né il gruppo etnico di origine sono in realtà, come è evidente, l’unica dimensione della vita umana, e convivono anzi con altri molteplici e importanti fattori identitari. I fondamentalismi religiosi o etnici sono il prodotto di ideologie e di interessi organizzati, ai cui fini strumentalizzano le persone riducendone “a una sola dimensione” l’appartenenza e l’identità. Sono, in breve, riduzionismi criminali, responsabili di straordinarie tragedie umane.
L’identità, se non vogliamo che “faccia male”, deve essere invece intesa, oltre che come plurale, come “costruita”, cioè non un fatto naturale dato una volta per tutte, ma il risultato di nostre scelte, esperienze, intenzioni. Come “relazionale”, cioè costruita nelle relazioni con gli altri diversi da noi con i quali quotidianamente ci confrontiamo. Come “processuale”, cioè mutevole nel tempo, in continua trasformazione a causa dei mutamenti di contesto e delle nostre dinamiche personali. Noi siamo sempre, per dirla in breve, “uno e molti”, e dobbiamo anzi rivendicare, per noi e anche per gli altri, il diritto ad esserlo.
Per quanto riguarda la cittadinanza, la condizione necessaria per garantire “l’unità nelle diversità” è la prospettiva di una cittadinanza postnazionale, plurale, di residenza. Una cittadinanza plurale (si può essere legittimamente cittadini di più poleis) e a più livelli, dal locale al globale, basata sulla residenza e non sulle origini è la strada maestra per la convivenza e lo sviluppo nel nostro secolo. Continuare a legare in modo esclusivo la cittadinanza alla nazione di origine e, in secondo luogo, la titolarità e l’esercizio dei diritti (civili, sociali, politici ecc.) a questo tipo di cittadinanza significa di fatto volere una società non inclusiva, fondata sulla segregazione, non democratica in quanto chiede ai “segregati” (stranieri, immigrati) il rispetto di regole che essi stessi non possono contribuire a produrre in quanto esclusi dal diritto di voto.
Si può osservare, a questo proposito, come dietro le posizioni segregazioniste e contrarie alla strada dell’inclusione vi sia in sostanza un “equivoco” antropologico, riassunto bene dallo scrittore Max Fischer in riferimento alla Svizzera degli anni Sessanta: “cercavamo braccia per le nostre imprese, abbiamo invece trovato uomini”. Un equivoco così alla fine si può pagare molto caro, e lo pagheranno soprattutto le generazioni future. Proprio per questo il problema ha generalmente poco appeal sul “mercato” politico, dove prevale la vista corta delle scadenze elettorali.
E’ necessario, in sostanza, progettare e realizzare una statualità non solo per la convivenza degli Stati e dei territori, secondo il tradizionale progetto federalista, ma anche una statualità, un “foedus”, per la convivenza delle differenze all’interno degli Stati e dei territori. Bisogna essere consapevoli che si tratta di un panorama inedito nella storia umana, prodotto da una globalizzazione che rende sempre più multiculturali e “meticce” le società, e che richiede quindi un grande sforzo di immaginazione e innovazione istituzionale. I federalisti, proprio in quanto portatori di uno storico progetto statuale di unità nella diversità, devono assumere questa sfida, produrre innovazione istituzionale, costruire alleanze con tutti gli altri attori impegnati in questa direzione. Dal punto di vista federalista, anche in riferimento al dibattito sul multiculturalismo e l’interculturalismo, può essere affermato un principio semplice ma chiaro: esiste per tutti un diritto alla differenza, ma esiste anche per tutti un diritto/dovere alla convivenza. Sono due diritti che non è facile fare stare insieme, ma che se non stanno insieme producono la fine della pace sociale e i conflitti. La cultura della differenza e la cultura della convivenza devono dunque necessariamente dialogare e “ibridarsi”.
Per concludere, può essere utile un’ultima considerazione. Tutte le grandi ideologie politiche del XIX e XX secolo, da quelle nazionali a quelle socialiste e comuniste, hanno prodotto “narrazioni”, “grandi racconti” per dirla con il filosofo Jean-Francois Lyotard, per legittimare e rendere visibili i propri progetti sociali e istituzionali. Le identità nazionali, in particolare, sono come è noto “grandi racconti” costruiti per legittimare e “interiorizzare” i poteri dello Stato nazionale nei confronti dei cittadini. Oggi, nel mondo attuale, anche i tribalismi etnici, anche le pulizie etniche producono “grandi racconti” e se ne alimentano.
Rispetto a tutto ciò, i sostenitori della convivenza delle differenze, dell’unità nella diversità, dell’inclusione sociale, della cittadinanza di residenza, del federalismo degli Stati e delle culture non possono illudersi di poter contrapporre soltanto una loro proposta, per quanto persuasiva e razionale, di nuova statualità. Devono promuovere anche la costruzione di “grandi racconti” che siano in grado di alimentare, dal punto di vista dell’inclusione e del dialogo culturale, l’immaginario e i sentimenti popolari. La convivenza delle differenze, che è sempre difficile e precaria, ha bisogno di un progetto istituzionale, ma non può reggersi soltanto su questo. Ha bisogno anche di “narrazioni” che le diano un senso, che producano immedesimazione, che rendano comunicabili e comprensibili le diverse “esperienze vissute” dei gruppi umani e delle persone. Non si tratta però, a differenza di quanto hanno fatto altre ideologie del passato, di inventare o peggio falsificare nulla. Si tratta solo di raccogliere le testimonianze, i racconti, i “frammenti” di vita che provengono dalle differenze e insieme dalla loro convivenza: vite di migranti, storie e letterature di diaspore, buone pratiche istituzionali inclusive, esperienze di dialogo interculturale e di “ricchezze” che nascono dall’ibridazione delle culture e così via. Tutto un “universo” umano, culturale e politico che, in gran parte dei paesi del mondo, è troppo scarsamente raccontato dai mezzi di comunicazione di massa. Il federalismo degli Stati e delle culture può tentare, insieme ad altri attori, di assumersi questo compito e di sfidare, anche su questo piano oltre che su quello della progettualità istituzionale, i tribalismi etnici, religiosi e politici che minacciano tutte le società del nostro secolo globale.
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