L’Europa che abbiamo conosciuto negli ultimi 60 anni, è finita il 27 giugno 2015.
L’eziologia del suo crollo è un argomento storico, non più politico: sarebbe stato opportuno approfondirla prima che tutto questo succedesse, ma l’Europa della «veduta corta» ha, immancabilmente, perduto l’ennesima occasione.
La decisione del Parlamento greco di indire un referendum sull’offerta dei creditori europei e internazionali segna la prima vera inversione di tendenza in un processo di integrazione dei popoli europei che è iniziato alla fine della seconda guerra mondiale e che aveva sempre segnato un trend positivo: con accelerazioni e decelerazioni, ma pur sempre in direzione della maggiore integrazione.
Per la prima volta, uno Stato membro dell’Unione si trova a votare la sua permanenza dell’Euro e nella stessa Unione. La prospettiva e la direzione, insomma, sono cambiate. Da oggi l’argomento non sarà più quanto accelerare o decelerare verso una maggiore integrazione, ma quanto accelerare o decelerare verso la disgregazione dell’unità europea.
Non che questo sia colpa del popolo greco. Tutt’altro. Tsipras ha assunto l’unica decisione possibile in questo frangente, rimandando ai cittadini una scelta che, se assunta in proprio, avrebbe comportato necessariamente la violazione del mandato elettorale ricevuto: o imporre al popolo greco condizioni ancora più aspre e senza una reale visione sull’uscita dalla crisi nei prossimi anni, oppure trascinarlo fuori dall’Europa, dritto nelle mani di Putin. È ovvio, ed è giusto che un capo di governo non assuma una responsabilità di questo genere. Avrebbe potuto dimettersi, in alternativa, riconoscendo l’impossibilità di portare avanti il proprio mandato elettorale e questo avrebbe generato il caos. La scelta di responsabilità, lui, l’ha fatta.
Il significato del referendum potrà essere solo uno, per via delle conseguenze che porterà: la permanenza o meno della Grecia nell’Euro e nell’Unione europea. Lo hanno ribadito a stretto giro Merkel e Junker, ossia i soggetti che esercitano la leadership degli Stati e dell’Unione.
D’altra parte, se prevarrà il NO, la Grecia non pagherà – prima di tutto – i suoi debiti alla BCE e agli altri Stati membri. Non vi sarebbero quindi più le condizioni perché la Grecia possa sedere ancora nelle istituzioni europee, pena la completa perdita di credibilità degli impegni che uno Stato assume nei confronti dell’Unione. Per quale motivo gli altri Stati dovrebbero continuare a pagare il proprio debito e a rispettare gli impegni dati dall’appartenenza all’UE?
Inoltre, il buco venutosi a creare dai mancati pagamenti, porterà a forti pressioni su Mario Draghi, che sarà accusato di aver sperperato i soldi dei cittadini europei, imprestandoli a un debitore fallito: verosimilmente, dovrà dimettersi. Chi verrà dopo, potrà ancora esercitare quel ruolo coraggioso e, a tratti, «federatore», che negli ultimi anni la BCE aveva assunto? Pressoché impossibile. Anzi, molti passi indietro saranno richiesti all’istituzione che si era esposta per venire incontro alle richieste di aiuto di uno Stato che ha poi deciso di tagliare il debito. Senza contare, ancora, che la Grecia fuori dall’Euro entrerebbe necessariamente sotto l’orbita russa, e la pressione sui confini orientali, già elevata per la questione ucraina, non farebbe che aumentare. E senza contare che il precedente sarebbe ormai stato creato, e la reversibilità dell’adesione all’Euro sarebbe sancita. Con quale credibilità e quale fiducia il resto del mondo guarderebbe alla zona Euro?
Sembrerebbe allora, a prima vista, che un SI possa essere una vittoria per l’Europa. Anche prescindendo dal fatto che questa ipotesi sembra oggi piuttosto improbabile, anche una vittoria del SI non migliorerebbe la situazione. Si metterebbe nero su bianco che la Grecia è un Paese di serie B, a cui può essere chiesto ogni sacrificio in nome delle richieste degli investitori internazionali. Si dichiarerebbe apertamente che l’Europa, di fronte alle difficoltà di un suo Stato a pagare i propri debiti, agisce in totale spregio del principio di solidarietà e di umanità. È forse questa una credibile Unione di Stati? Una famiglia di Stati che si regge sulla minaccia e sull’umiliazione? Un padre che non aiuta il figlio prodigo nel momento della maggiore difficoltà, non può considerarsi un buon padre, e quella in cui vive neppure può considerarsi una famiglia.
La verità è che non si doveva arrivare a questo punto. L’Eurogruppo e la Commissione avrebbero dovuto liquidare l’FMI e farlo uscire dal tavolo delle trattative, pagando quanto dovuto dalla Grecia; avrebbero dovuto dire agli investitori internazionali che il debito greco (il 2% del debito pubblico europeo!) era garantito, e poi risolvere il problema all’interno della casa europea. Ossia, creare un bilancio dell’Eurozona in grado di garantire i debiti verso l’esterno degli Stati dell’area Euro, la cui gestione non poteva che essere legittimata da un maggior ruolo del Parlamento e il ridimensionamento del Consiglio. In altri termini, un bilancio federale sotto la guida di un governo federale democraticamente eletto.
La verità è che un’Europa con un po’ di visione sul futuro, di orgoglio e di spirito di solidarietà, non sarebbe mai dovuta arrivare a una scelta come quella del referendum greco. E, oggi che c’è arrivata, la sconfitta è già consumata, e non si tornerà più indietro.
Tutto il coraggio politico mancato, tutte le spinte euroscettiche prevalse, tutta la rigidità di alcuni governi e la totale mancanza di iniziativa di altri (Italia in primis), sono i veri elementi a cui imputare la colpa del crollo della casa europea; di una dimensione che aveva assicurato il più lungo periodo di pace e benessere all’Europa negli ultimi 2000 anni, del primo vero tentativo di rivoluzione pacifica dei popoli di un intero continente contro gli Stati nazionali che li avevano trascinati nelle tenebre e che, oggi, nuovamente, li condannano alla divisione, al conflitto, all’irrilevanza.
1. su 1 luglio 2015 a 18:11, di Francesco Franco In risposta a: Europa: punto di non ritorno
Secondo me il punto focale dell’articolo che nell’insieme condivido è questo lucidissimo passaggio che cito per intero «L’Eurogruppo e la Commissione avrebbero dovuto liquidare l’FMI e farlo uscire dal tavolo delle trattative, pagando quanto dovuto dalla Grecia; avrebbero dovuto dire agli investitori internazionali che il debito greco (il 2% del debito pubblico europeo!) era garantito, e poi risolvere il problema all’interno della casa europea. Ossia, creare un bilancio dell’Eurozona in grado di garantire i debiti verso l’esterno degli Stati dell’area Euro, la cui gestione non poteva che essere legittimata da un maggior ruolo del Parlamento e il ridimensionamento del Consiglio. In altri termini, un bilancio federale sotto la guida di un governo federale democraticamente eletto.» Non capisco però perché né Tsipras né i gruppi poltitici o i movimenti federalisti abbiano apertamente forulato questo tipo di richiesta o posizione al Consiglio. Mi chiedo se si sia ancora in tempo (prima del voto) di domenica 5 luglio.
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