Fine vita in Europa

Dove si deve arrivare

, di Daniele Panella, Davide Emanuele Iannace

Fine vita in Europa

Cosa vuol dire vivere e cosa vuol dire morire? Una delle domande che difficilmente avranno mai una risposta, a cui contemporaneamente molti, tra filosofi e pensatori di ogni scuola di pensiero e professione hanno provato a trovare una soluzione finale. Si è provato a definire l’una e l’altra, si è provato a comprenderne la relazione, la differenza, il loro essere continuativi di una medesima esperienza unica, inizio e fine, Alpha e Omega dell’esistenza.

Non andremo dilungandoci, ma che vita e morte, la loro relazione con la nostra contemporanea cultura dell’individuo-Ozymandias, tentato alla vita eterna e all’ergersi al di là della vita stessa, siano un problema che merita discussione è certamente vero. Tanto più vero quando quella è che non tanto semplice filosofia, sociologia o psicologia, diventa oggetto del giudizio della Legge. Parliamo, in particolare, del delicato caso del “fine vita”, del momento preciso in cui qualcuno si reputa non nella condizione di poter continuare a vivere degnamente.

Partiamo da un esempio, perché è quello che ci permetterà di entrare nel merito del discorso che qui vogliamo affrontare. La vicenda inizia sfortunatamente con l’incidente stradale che ha visto coinvolto Fabiano Antoniani, in arte DJ Fabo, a seguito del quale è rimasto tetraplegico e dunque immobilizzato dal collo in giù. Nel 2017, attraverso l’aiuto di Marco Cappato, DJ Fabo si è recato in Svizzera presso la clinica Dignitas nel tentativo (riuscito) di porre fine alle proprie sofferenze. Marco Cappato si è auto denunciato dando vita all’iter processuale che ha condotto alla pronuncia della Corte costituzionale, depositata il 25 settembre di quest’anno. Nel comunicato si legge che «la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del Codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (1).

Un iter lungo che in un primo momento, al termine delle indagini preliminari, aveva visto la richiesta di archiviazione da parte della Procura al G.I.P. che però ha ritenuto di doverla rigettare ed ordinare l’imputazione per Marco Cappato. Nelle more del giudizio viene sollecitata la valutazione circa la legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. e che verrà proposta in via incidentale dalla stessa Corte D’Assise di Milano, sfociata prima nell’ordinanza del 24 ottobre 2018 e poi nella successiva sentenza (da pubblicare) a seguito dell’udienza pubblica del 24 settembre 2019. Più in particolare, il giudizio di costituzionalità viene posto laddove l’art. 580 esclude una differenza nella partecipazione tra istigazione ed aiuto ovvero «a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo» ed inoltre nella parte in cui assimila le condotte di istigazione e di aiuto sotto un profilo sanzionatorio subordinandole ad una pena di egual misura, per un presunto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 Cost.

Nell’ordinanza la Corte ha da un lato “salvato” l’art. 580, rubricato “istigazione e aiuto al suicidio, disponendo che un’incriminazione per tale condotta non è incompatibile con il nostro sistema in quanto norma tendente alla protezione del cittadino da «decisioni in suo danno» (2). D’altra parte, la Corte non ha potuto ignorare la frizione dell’art. 580 con i principi costituzionali nella parte in cui ignora il rispetto dell’autodeterminazione del paziente, costituzionalmente garantita, nella scelta delle cure «comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze» (3). Tuttavia, la Corte ha innanzitutto differito l’udienza decisoria al 24 settembre 2019 ed ha ritenuto di non poter estromettere dall’ordinamento l’art. 580 e farsi carico di un vuoto di tutela di cui solo il legislatore può occuparsi, invitandolo ad intervenire. Tuttavia, tra poltrone ed intrighi che ricordano vagamente House of Cards, il legislatore non è intervenuto. Quindi non resta che attendere la decisione della Corte costituzionale.

Partiamo quindi dall’Italia per portare avanti la discussione su un tema che può diventare particolarmente rilevante anche per l’Unione Europea. Innanzitutto, perché come è noto, DJ Fabo non è morto in Italia, ma in Svizzera, all’interno della struttura Dignitas, non una clinica vera e propria. «Non ci sono infatti medici o personale infermieristico. Non c’è un pronto soccorso, non è una struttura per ospitare dei degenti per giorni o settimane, e men che meno per ricevere trattamenti sanitari di alcun tipo. Sono in contatto con dei medici, ma sono indipendenti dall’organizzazione» (4). La struttura pratica il suicidio assistito o accompagnato attraverso la somministrazione di un farmaco, il Pentobarbital, che l’individuo stesso assumerà e che nel caso di DJ Fabo è avvenuto attraverso l’auto-iniezione.

La morte, possiamo dire, non aspetta né rispetta i confini, non li accetta e non li può accettare. Di certo non lo fanno le sofferenze umane. Chi soffre, come ha sofferto DJ Fabo, possiamo dire che “se ne frega” di qualsivoglia confine. In particolare, quando i confini di per sé non esistono e le legislazioni vigenti sono molto varie tra di loro. Alcuni paesi come il Belgio, ad esempio, ma così anche l’Olanda, hanno già delle chiare regole per l’eutanasia. Nel caso del primo, con una legge specifica del 2002 con la quale «si è voluto rispettare il pluralismo etico della società belga e l’autonomia degli individui nel rispondere alle domande sulla fine della vita, riconoscendo la sovranità dell’uomo sulla sua vita» (5). Il Belgio ha dato una specifica definizione di eutanasia e ne ha disciplinato le modalità e le condizioni per accedere a tale trattamento, esonerando a sua volta il medico (che ricordiamo, deve rispettare il Giuramento di Ippocrate) se queste vengono totalmente adempiute (Art.3). Da questo sorgono svariati obblighi e doveri per il medico, come ad esempio assicurarsi che la sofferenza psicofisica sia reale e consultare ivi un altro medico per avere un secondo parere sulle condizioni del soggetto (Art. 3, par. 2 n.1, 2 e 3). Allo stesso tempo se il paziente non è in stato terminale, c’è bisogno che vi sia una consulta di un medico o uno psichiatra per accertarsi della condizione di effettiva sofferenza (Art. 3 par. 3 n. 1). Vi è anche una tempistica prestabilita, ovvero un mese, tra il momento della presentazione dell’istanza e la sua messa in opera (Paragrafo 3 della medesima legge), istanza che è revocabile dal paziente in qualsiasi momento. Inoltre, si dà una regolamentazione e rilevanza giuridica alle “dichiarazioni anticipate”, da noi “bio-testamento”, dove il paziente, quando ritiene che in futuro non sarà in grado di esprimere la propria volontà, può, attraverso una dichiarazione scritta e sottoscritta, richiedere che il medico esegua l’eutanasia dopo aver valutato l’irreversibilità della malattia o dello stato di incoscienza del paziente (Art. 4 par. 1 e seguenti).

Non un facile incentivo alla morte, né la nascita del cosiddetto “turismo della morte”, come è stato da qualcuno definito. Parliamo piuttosto di una esemplare applicazione dei principi base dell’uomo, tra cui vi è quello del poter smettere di vivere, nel momento in cui si reputa la vita non più vita ma semplice sopravvivenza.

La morte, come ben sappiamo, non è sempre vista come una fine o una punizione. La religione, che pur si schianta contro l’eutanasia con tanta violenza, non ha mai avuto problemi nel definire “Santi e martiri” coloro che, volontariamente, andavano sacrificando la propria vita in nome della Fede e dell’Evangelizzazione dell’altro, volontaria o meno che fosse. I terroristi suicidi islamici non sono per nulla diversi. Né tanto meno erano mal visti i kamikaze giapponesi, non almeno dalla loro stessa popolazione. Questo perché il loro suicidio volontario si andava inserendo all’interno di un sistema di norme socioculturali che lo potevano giustificare.

Émile Durkheim, grande sociologo francese di inizio secolo, ha sapientemente scritto di queste pratiche ne “Il Suicidio”, una delle opere prime della sociologia europea e francese. Lo studioso ha messo in rilievo diversi modelli di suicidio: il suicidio anomico, egoistico, altruistico e quello fatalista.

Ogni tipo di suicidio, per Durkheim, più che cause psicologiche ha profonde radici culturali e sociali. Così il suicidio anomico è l’atto compiuto in un momento in cui il tessuto sociale mostra delle gravi crepe dovute ad uno sviluppo in forma anarchica o al di fuori della regolazione dovuta alla divisione di ruoli e lavoro; il suicidio altruistico diventa l’atto compiuto per rispettare delle forme culturali di azione, in cui il suicidio viene quindi visto come un atto di estremo coraggio per la propria società, come il kamikaze giapponese; egoistico, compiuto dagli individui slegati dalla società, o che si reputano tali, convinti di vivere in una sorta di isolamento non voluto.

Vi è infine un suicidio di tipo fatalista, a cui lo studioso dedica poche righe, in cui cita gli individui che si vedono dinanzi un avvenire chiuso e prestabilito. Vi dedica pochissimo spazio, motivo per il quale questo viene spesso tralasciato dagli studi di sociologia. Abbiamo ovviamente qui riassunto l’opera del francese, che si è introdotta qui per innanzitutto mostrare come è un tema che ha già avuto studi e attenzioni nel passato, che quindi non è un problema solo del fine XX e inizio XXI secolo.

Inoltre, per porre l’accento su una diversa ottica possibile sul fenomeno, quella sociale. Ovvero, non reputare il suicidio come un atto meramente e puramente individuale, frutto di menti spesso giudicare come ossessive, impulsive, folli, ma anche come il frutto dei tessuti sociali e culturali degli ambienti in cui gli individui si ritrovano a vivere.

Suicidio e fine vita sono quindi due temi diversi, ma simili, che corrono su binari paralleli. E perché questo dovrebbe interessare l’Europa, in fin dei conti? Perché il suicidio, e anche il fine vita, sono problemi sociali complicati che meritano delle risposte adatte che non possono essere date da sistemi antiquati legati alle tradizioni religiose del passato. Potremmo spendere ore ed ore a scrivere dei motivi per i quali la gente decide di togliersi la vita. Crisi personali e sociali, economiche e storiche, si intrecciano tra i motivi per i quali una persona può decidere di porre fino alla sua esistenza, spesso in maniera silenziosa, in altri casi (come in quelli di cui decide di suicidarsi lanciandosi contro un treno o un bus), meno. Non si può e non si deve giudicare nessuno di questi casi e non si vuole mettere in discussione il principio per cui l’Individuo, nella sua forma più totale, nel suo corpo, nella sua anima, nel suo spirito e nei suoi diritti, è sacro e inviolabile. Proprio per questo motivo, non si può accettare nessuna limitazione della sua libertà a rinunciare a ciò.

La tecnica e la medicina moderna hanno fortunatamente allungato le aspettative di vita per molti, permettendo di superare e sopravvivere a ciò che un tempo avrebbe normalmente ucciso un essere umano in qualsiasi condizione. Alcune volte, ciò vuol dire riuscire a sopravvivere, non a vivere.

La legislazione belga è molto avanti, sia nel definire la possibilità di scegliere l’eutanasia che tutti i suoi contrappesi perché non venga applicata. Una legislazione da cui prendere inspirazione e tracciare una strada unica che sia europea. L’Europa si è fatta spesso garante dei diritti inalienabili dell’uomo, non può non essere anche la maestra per questo diritto all’oblio e anche alla morte, laddove la scelta sia propria, sicura e decisa.

Come Durkheim ha notato, molte radici del suicidio si nascondono all’interno di drammi e problemi sociali, che possono essere affrontati solo dalla collettività. Non possiamo discutere di questo, adesso. Possiamo però ammettere che, laddove gli stati falliscano nel riconoscere il diritto degli esseri umani al decidere per sé stessi, lì vada combattuta una lotta senza quartiere per vedersi difeso questo diritto inalienabile.

L’Europa, prendendo da alcuni stati particolarmente avanzati in tal senso, come il Belgio e l’Olanda, può diventare davvero protettrice di basilari principi che vengono continuamente messi in discussione a causa di morali antiche e retrograde, antecedenti alla nascita della civiltà europea e delle scienze contemporanee. Dinanzi l’avanzare di tecniche sempre più avanzate, di libertà personali sempre più grandi, diventa necessario che anche la legge vi si adegui.


1. Comunicato Stampa della Corte costituzionale del 25 settembre 2019, https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20190925200514.pdf.

2. Ord. Corte D’Assise di Milano, N. 43 del 14 febbraio 2018.

3. M.B. MAGRO, The last dance. Riflessioni a margine del c.d. caso Cappato, in Riv. Diritto Penale Contemporaneo, 2019, cit., pag. 21.

4. Ludovisi D., Come funziona il suicidio assistito in Svizzera, in Wired.it, 28 febbraio 2017, https://www.wired.it/attualita/politica/2017/02/28/suicidio-assistito-svizzera/.

5. Cuman G., Il fine vita tra Belgio e Italia, in Eutanasia Legale il 26 luglio 2016, https://www.eutanasialegale.it/articolo/il-fine-vita-tra-belgio-e-italia/.

Fonte immagine: Flickr.

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