Complicato. Sì, complicato è sicuramente un aggettivo che si confà alla situazione che regna sovrana dal 7 ottobre 2023 a Gaza, in quella lingua di terra che si estende per 360 chilometri quadrati. Ma complicato è, al tempo stesso, estremamente riduttivo e al limite dello svilente per gli avvenimenti che si sono susseguiti in quell’angolo di mondo a partire dal 1948.
Bisogna infatti risalire a quasi un secolo addietro per riuscire anche solo vagamente a scandagliare la calotta poliedrica dei problemi civili, culturali, religiosi e politici che la fanno da padroni tra Palestina e Israele, due Stati che a conti fatti non esistono, o meglio non si riconoscono. Nel 1948, infatti, l’ONU crea de facto lo Stato di Israele, con lo scopo di donare una patria a tutti coloro la cui stirpe era appena stata devastata dall’ira inconsulta del nazismo durante la Shoah.
Il termine Shoah, dall’ebraico “tempesta devastante”, è diverso da Olocausto, dal greco “tutto bruciato”, che evoca un sacrificio totale e cruento, come quello animale. Non si è trattato di un semplice sacrificio, né di una mattanza generale e, men che meno, di un sacrificio inevitabile, si è trattato di un genocidio di massa perpetrato dai nazisti e dai loro sconsiderati alleati nei confronti della popolazione europea di fede ebraica. Il tutto ha portato, stimando al minimo, a sei milioni di morti.
Ma la persecuzione della confessione religiosa ebraica risale a molti secoli addietro, circa al 70 d.C. con la cacciata degli ebrei dalla Terra Promessa, da parte dell’imperatore romano Tito, che diede l’avvio alla diaspora ebraica nel centro-Europa e nel mondo in generale. Nel 1948, in gran parte come gesto di scuse in riferimento al macello perpetrato nei loro confronti nel primo ventennio del secolo scorso, si diede vita a uno Stato interamente ebraico, cosa che doveva rappresentare un porto sicuro e da tempo agognato per tutti i sopravvissuti. In realtà, l’idea di una rinascita di uno Stato di fede ebraica nei territori sacri circolava da tempo nei salotti europei del XIX secolo, con l’inasprirsi dell’antisemitismo e soprattutto dopo l’eclatante caso Dreyfus. Tale idea aveva un nome e un fondatore ben precisi: sionismo e Theodor Herlz. La matrice ideologico-politica del sionismo era e tuttora è la ricostruzione in Palestina di un approdo sicuro per gli ebrei.
Tutto ciò si concretizzò il 15 maggio del ’48, ma diede l’avvio a una nuova diaspora; questa volta non di ebrei, ma di svariate centinaia di migliaia di individui, di diversa estrazione religiosa, non solo araba, che da innumerevoli secoli abitavano quei luoghi. Nakba, “cataclisma” in lingua araba, si riferisce all’esodo dei palestinesi in seguito alla proclamazione dello Stato di Israele, per la maggior parte in campi profughi, come quello, forse il principale, di Jenin, sparsi tra Giordania, Striscia di Gaza, Cisgiordania, Siria e Libano. Da quel momento in poi gli ex cittadini si videro negati diversi diritti fondamentali e, in seguito a diversi scontri tra il ’47 e il ‘73, tra cui la famosa Guerra dei 6 Giorni, i non ebrei si trovarono a vivere sotto assedio permanente. Gli arabi furono particolarmente vessati, da qui il germe dell’odio viscerale di gruppi islamisti, tra cui Hamas, nei confronti del neonato Stato e del suo braccio armato, l’Haganah. Dunque, chi prima godeva di certi status e ruoli nella società palestinese, si ritrovò di fatto con nulla in mano, piegato alla volontà israeliana, che gestiva e tuttora gestisce anche l’accesso ai beni più basilari, come l’acqua potabile.
Bisogna ora però fare un distinguo: ebreo non vuol dire israeliano o sionista. Il che si tramuta nel non essere tacciabili di antisemitismo, se si è contrari alle azioni violente portate avanti dallo stato di Israele. Men che meno vuol dire cercare di operare una cancellazione forzata della Shoah, o mancare di rispetto alle vittime della tragedia ebraica e ai loro discendenti. Dunque, non sostenere Israele nelle offensive compiute da un anno a questa parte non significa essere un simpatizzante neofascista. Soprattutto in vista del fatto che gli stessi ebrei, quelli che non hanno ritenuto necessario il trasferimento nella Terra Promessa per adempiere al loro destino (vedasi l’esempio italiano di Gad Lerner, uscito da pochissimo per Feltrinelli con Gaza: Odio e amore per Israele), criticano l’operato di Netanyahu, Presidente del suddetto Stato.
Con quanto sopra, non si vuole di certo perdonare Hamas, o il fondamentalismo di matrice islamica, perché è stato loro il raid, il 7 ottobre 2023, esattamente un anno fa, a dare inizio a questo nuovo capitolo delle guerre israeliano-palestinesi. Hamas ha colpito duramente il popolo ebraico, in modo laido e sconcertante per qualsiasi essere con una moralità di qualsivoglia tipo. Hamas, che in arabo significa “zelo, resistenza” e che è la sigla araba per Movimento Islamico di Resistenza, un anno fa ha attaccato a sorpresa il territorio di Israele, macchiandosi fin da subito del sangue di quasi due migliaia di vite umane, tra cui donne, bambini e anziani, e portando svariate centinaia di ostaggi, civili e militari, all’interno dei loro avamposti nella Striscia di Gaza.
Il problema è stata la risposta che i politici di Israele, soprattutto il Presidente Benjamin “Bibi” Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant, hanno inviato: un’ondata di droni dotati o meno di supporti missilistici si è abbattuta, insieme alle forze aeree e di terra, sulla sottile linea di terreno che è Gaza. Le due controparti, Hamas e Israele, stanno attualmente ancora operando con tattiche particolarmente anti-etiche, devastando scientemente ospedali, scuole e campi di rifugiati, entrambi utilizzanti la scusa di sapere della presenza di cellule nemiche infiltrate in suddetti luoghi.
Il nodo fondamentale della situazione è che entrambe le fazioni politico-militari stanno giocando con migliaia e migliaia di vite umane. È, tuttavia, da segnalare come i gazawi, ossia i residenti a Gaza, siano da svariate decine di anni votati a una vita sotto l’occupazione straniera e dove fin da bambini essi si vedono destinati a una vita da militanti e, in fine, martiri, come ricorda Valerio Nicolosi per Rizzoli in C’era una volta Gaza: vita e morte del popolo palestinese. Attenzione, tuttavia, a non travisare la suddetta affermazione, in quanto non si deve intendere che il popolo gazawita sia votato a una cruda violenza dettata dal fondamentalismo religioso. Men che meno, bisogna leggere la frase come un’affermazione della vocazione in toto dei gazawiti a missioni suicide in nome della sharia, o guerra santa. In questo contesto la militanza si presenta come guerriglia di opposizione gazawita all’occupante israeliano, e non ebreo. Sarebbe buon costume capire come qui e ora non si tratti di due schieramenti religiosi contrapposti, di cui uno nemico e, quindi, da giustiziare a priori, e uno amico e martire storico in cerca ancora di una vendetta giustificata. Nella situazione attuale sono in gioco, in primo luogo, vite: vite di gente comune, di famiglie normali, di persone simili in tutto e per tutto a noi, esseri umani. E questo sta accadendo su entrambi i fronti, sia quello di Hamas, sia quello di Israele. La problematica più grave e che viene spesse volte tralasciata, o messa in secondo piano, è che le succitate vite, di per sé non nemiche per partito preso, ma concittadine, stanno venendo messe alla gogna dalle politiche isteriche e bizzose dei capi politici, che nessun riguardo hanno per il benessere della popolazione che dovrebbero guidare e tutelare.
Nello stesso momento in cui questo articolo prende forma, l’Iran, stato islamico sciita dal colpo di stato di Khomeini nel ’79, ha sferrato un attacco missilistico contro Israele, schierandosi di fatto con Hamas, il quale si è presto complimentato con l’alleato per l’azione. A dispetto dell’uccisione del capo del ramo libanese dell’organizzazione fondamentalista, Fateh Sherif Abu el-Aminel, che avrebbe potuto rappresentare un motivo di tregua tra le parti, si prospetta una papabile risposta al fuoco da parte dello stato ebraico e dunque una continuazione cruenta della battaglia.
È necessario valutare le condotte antiumanitarie di qualsivoglia partito, analizzando le azioni nel contesto odierno, senza caricarle del pesante contesto storico che si portano dietro le fazioni. Bisogna condannare per crimini contro l’umanità, cosa che è stata richiesta il maggio scorso, sia l’estremismo islamico di Hamas sia l’estremismo di destra di Netanyahu. Ciò che non bisogna fare, al contrario, è crocifiggere socialmente i gazawi, poiché non coincidono con Hamas né con il suo programma politico; ma al contempo è fondamentale non tacciare di antisemitismo chiunque e qualunque stato si mostri contrario alle azioni di Israele, proprio perché si sta giudicando la condotta estera e militare di un paese e non del popolo ebraico. Essere gazawiti non vuol dire essere kamikaze violentatori e sanguinari, così come essere antisionista e contro l’operato di Israele non coincide con l’essere naziskin antisemiti. Ma la questione è ben lungi dall’essere risolta.
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