Dal governo che ha varato il DDL Sicurezza, il governo dei respingimenti, dei centri in Albania che fanno fare un grande giro ai migranti e poi li riportano indietro, riportando indietro anche la loro definizione per far fronte a tutti i problemi burocratici scatenati, il governo del “Dio, Patria, Famiglia” riesce a essere solo “Dio”, patria nei giorni dispari e di famiglia solo se etero, bianca, probabilmente con un numero di figli pari a tre – per chi, almeno, si può permettere un figlio in questa economia.
Questo governo vorrebbe che il 25 aprile fosse sobrio, perché la morte del Papa è un evento di rilievo nazionale e internazionale così degno d’attenzione che bisogna sospendere tutto. Fermare tutto. Almeno, fermare tutto ciò che al governo non piace o che mal sopporta, le cose a cui vanno col naso turato. Sarà un 25 aprile ironico, questo. Muore il Papa – dopo l’incontro con JD Vance in maniera ironicamente coincidenziale. Muore durante un Giubileo. Trump afferma che verrà in Italia, un altro autocrate che viene – ironicamente, proprio intorno il 25 aprile. Una serie di ironiche coincidenze che ci ricordano perché viviamo in tempi interessanti.
E proprio perché sono tempi molto interessanti, questo 25 aprile non può essere sobrio né contenuto. Non potrà essere che canti, che urla, che festeggiamenti per gli 80 anni dalla liberazione. Ottanta anni, un tempo lunghissimo, in cui l’umanità ha fatto cose meravigliose e cose orribili allo stesso modo. E noi italiani anche. Alcune cose, nonostante tutte, in questi ottanta lunghi anni ce le trasciniamo, tra cui alcune diverse tendenze autocratiche che, specie negli anni ’20 di questo secolo ventuno, stanno facendo la loro risalita. Non che fossero mai scomparse del tutto, queste tendenze. Sono come fastidiosi pruriti, che ti rimangono dietro e che continuano a stuzzicarti, a spingere la mano a grattare, sperando vada via in qualche modo.
Ma questi pruriti non se ne andranno con una grattatina, motivo per il quale, il 25 aprile non può essere né sobrio né contenuto, perché ci serve qualcosa che ci ricordi che quel prurito a volte viene sconfitto. E che torna, ma che si può sconfiggere di nuovo. Il 2025 è un anno peculiare. Nella più “grande democrazia liberale del mondo” si è dato il via a sommarie deportazioni di individui sospettati solo per una pelle un po’ più scura, si alzano tariffe accusando il mondo di essere “in debito” con gli Stati Uniti, si minacciano paesi, si ritorna sui propri passi, si fa il venditore inaffidabile di scope elettriche che sai, visto il venditore, non partiranno mai. Non parliamo di Medio Oriente – dove il genocidio continua – o di Africa – dove in Sudan si combatte ancora – o anche in Asia – dove anche in Kashmir si muore di nuovo. Insomma, dove ci si gira ci si gira, sembra che non vi sia parecchia speranza.
E per questo ci serve un roboante 25 aprile. Ci servono gli inni, ci servono le storie, ci serve ricordarci che le cose belle avvengono, quando la politica – intesa come lo spettro di posizioni politiche – decide di mettere insieme persone diverse da loro, dai cattolici ai comunisti passando per ogni singolo tipo di orientamento possibile nel mezzo – per battere il nemico. Nemico non di una parte o dell’altra, ma il nemico del sistema democratico, l’unico sistema per cui vale la pena battersi. Un sistema in cui la parola di chiunque abbia valore uguale e non superiore a quella dell’altro, a dispetto del censo, del genere, del colore della pelle, del suo orientamento religioso, sessuale, del fatto che crede che i Pokemon siano meglio dei Digimon, o che i film di Wes Anderson siano brutti (una eresia questa, ma che bisogna pur accettare nel grande gioco democratico). Il 25 aprile serve come ricordo, come memoria viva e vivida, del fatto che per creare una democrazia ci sia bisogno dell’intervento di tutte le parti in campo, e che solo la somma di queste parti, uguali nel senso di eguali, sia possibile costruire un futuro più giusto per tutti.
Non è una democrazia perfetta, quella che dobbiamo difendere oggi. Le brutalità della polizia continuano, a dispetto dei tentativi di regolazione. Si fa sentire una povertà diffusa, perfino tra la classe media – e dinanzi anche un aumento della disparità di reddito che non rallenta. Si fa sentire la crisi climatica, si fa sentire la crisi culturale di un paese apatico che sta perdendo componenti. Ma si fa sentire anche l’esatto opposto. Si fan sentire i bisogni dei cittadini che esplodono energicamente in richieste come quelle per il referendum sulla cittadinanza del prossimo giugno. Si fan sentire nelle proteste di piazza, si fan sentire nelle proteste nelle università, nel chiedere sicurezza per le donne e le ragazze, per ogni lotta fatta per ogni diritto percepito come mancato.
Una democrazia imperfetta, ma pur sempre una democrazia. La nostra. Un qualcosa che si può, e si deve, aggiustare con cura, per rimettere in servizio sia gli anticorpi alle tendenze autocratiche, sia i meccanismi necessari ad assicurare un futuro giusto e sicuro per tutta la cittadinanza, e non solo. Per tutta la popolazione, cittadina o meno che sia. E non solo in Italia.
L’Europa è, al contempo, problematica e problematicamente sotto attacco. L’AfD in Germania e le sue idiosincrasie naziste sono uno dei tanti casi. L’Ungheria di Viktor Orbán ne è un altro di caso. Siamo l’Europa in cui, con un preavviso di ben dieci anni, riscoppia una guerra di invasione – quella russa, giusto per specificare – contro un paese terzo – l’Ucraina – per motivi dal sapore ottocentesco. Siamo un’Europa così disperata che ha dovuto ricorrere ai fondi di coesione per riarmarsi. Una strategia che sa di disperazione, necessaria, ma pur sempre di disperazione.
Ma la democrazia non si costruisce solo tramite la disperazione. Questa può essere un motore potente, ma per la democrazia c’è bisogno di visione, c’è bisogno di voler vedere un po’ più in là nel futuro. Questa è la differenza con le autocrazie. Le autocrazie mirano a preservarsi e a sopravvivere – anche quando fingono di avere piani a 5, 10 anni. Sono i piani per l’autocrate e dell’autocrate. Le democrazie, per sopravvivere, devono necessariamente pensare al futuro. Da quando la democrazia ha smesso di pensare al futuro e ha pensato solo al presente prossimo, ai cinque minuti un po’ più in là, la democrazia ha iniziato a perdere colpi.
Il 25 aprile è un memoriale di questo, di pensare al futuro anche quando il presente non è esattamente d’aiuto. Sia per l’Italia che per l’Europa è necessaria una rinfrescata alla memoria, la costruzione di un piano che sia davvero per un futuro democratico. Lo fa affondando a pieno nei suoi principi liberali e sociali, di uguaglianza, di lotta per i diritti di tutti e tutte, per la costruzione di un mondo più sicuro per ogni popolazione – non solo per quelle con cui commerciamo armi e tecnologie. Lo fa affidandosi ai giovani e costruendo le basi per garantire ai giovani un mondo. Quindi si, anche per le politiche green, per il nucleare, per la ricerca. Per tutto quello che serve a rendere il mondo un posto migliore.
L’Europa e l’Italia ne hanno la possibilità, quando smettono di ascoltare i demagoghi e smettono di mettere la testa sotto la sabbia sperando che la tempesta passi senza conseguenze. Possono realizzare queste possibilità osservando e guardando le storture del mondo, e poi occupandosene, davvero. Prendendo una posizione, anche antipatica, anche antieconomica, anche sbagliando, ma prendendo una posizione, provandoci, fallendo e riprovando ancora. Esattamente come i padri e le madri dell’Italia, fino al ’45, fecero. Sbagliarono, impararono, migliorarono, ci riprovarono.
Il 25 aprile è la festa di tutto ciò, e per questo non sarà né sobria né contenuta, perché mai come ad ottant’anni dalla fine della resistenza, ci serve la voglia e lo spirito combattivo dei partigiani, il desiderio di prendere in mano il futuro e la forza di volontà di esprimerci, di combattere, di discutere, di migliorare. Ed è giusto concludere con una frase, un modo di ricordarci sempre che lato scegliere, che sia in Medio Oriente o che sia in Russia, che sia con gli Stati Uniti ma che sia, anche, qui nel cuore d’Europa: se tra un impero offeso e un popolo invaso si sceglie l’impero offeso, la scelta è chiara e non è la libertà.
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