È difficile immaginare un caso più eclatante che possa rappresentare il fallimento su tutta la linea delle politiche europee nel campo dell’immigrazione che quello degli ormai ex-residenti del campo di Moria, destinato agli aspiranti rifugiati e situato a Lesbos, isola greca separata solo da poche miglia dalla Turchia.
Il campo di Moria è arrivato al centro dell’attenzione mediatica quando, la notte tra l’8 e il 9 settembre, è stato distrutto da un incendio doloso per il quale sono al momento accusati alcuni degli allora residenti. A far scattare la miccia sarebbe stata la decisione delle autorità locali di chiudere in quarantena tutte le più di dodicimila persone del campo, in seguito alla scoperta di un focolaio di Covid-19.
La problematicità di Moria tuttavia risale a ben prima della pandemia. Già nello scorso inverno infatti, varie inchieste giornalistiche e appelli di associazioni umanitarie avevano provato a richiamare l’attenzione sulle condizioni del campo, pensato per ospitare circa tremila persone, ma che di fatto aveva quattro volte quel numero di residenti, con tutte le problematiche che la cosa poteva comportare.
Nonostante gli svariati appelli e i mesi passati nessuno, né l’amministrazione locale, né il governo greco, né tantomeno le autorità europee, han pensato di fare qualcosa per evitare che si raggiungesse quest’inevitabile disastrosa conclusione.
Anzi, al momento in cui l’articolo viene scritto, parrebbe che non si abbia l’intenzione di fare alcunché anche dopo che la situazione è scoppiata e i residenti del campo di Moria sono stati quasi tutti trasferiti in sistemazioni provvisorie. L’eccezione pare essere solo la Germania, che ha approvato il trasferimento di un migliaio di rifugiati all’interno dei propri confini.
La distinzione tra rifugiati e residenti è importante sia per capire le ragioni dietro al sovraffollamento del campo, sia per introdurre quello che è il primo, enorme fallimento dell’Unione Europea riguardante la politica migratoria e il trattamento di coloro che attraversano i confini dell’UE stessa.
Infatti, il campo di Moria da tempo ospitava solo una percentuale estremamente limitata di persone provenienti dalla Siria. Il motivo è che a più del 90% di coloro che provenivano dal paese levantino veniva riconosciuto lo status di rifugiato, il ché implicava che avevano accesso alle protezioni e diritti che le convenzioni internazionali stabiliscono.
Al contrario, per tutti gli altri immigrati il percorso per l’attribuzione dello status di profughi si rivela molto più complesso e tortuoso, così che il collo di bottiglia burocratico ha finito per creare situazioni indecorose e pericolose come quelle di Moria.
È difficile non imputare le colpe di questo ingorgo burocratico all’Unione, che ad anni di distanza dal picco della crisi siriana non ha ancora stabilito procedure univoche e semplici che evitino tali blocchi che invece persistono tuttora.
Il secondo fallimento dell’UE è invece di carattere più politico e, nello specifico, nella “politica estera interna”, ovvero nella capacità di stabilire una linea politica uniforme nelle relazioni internazionali tra i paesi che sono parte dell’Unione stessa.
Questa mancata unione d’intenti è spesso riportata come uno dei più grandi, se non il più grande, difetto dell’attuale stato dell’Europa e il più grande ostacolo per coloro che auspicano una più intensa collaborazione tra le nazioni del Vecchio Continente.
Si è parlato e si continua a parlare molto dei bisticci tra i paesi “di confine”, come Grecia e Italia e quelli che confinano con i confinanti, come Francia o Austria, che hanno in passato scelto di chiudere le frontiere.
La situazione del campo di Moria però è la naturale conseguenza di questa mancanza di approccio unitario a livello europeo e la visione ancora estremamente nazionalistica di quasi tutti gli stati membri, in un periodo in cui l’ambiente politico è più che mai, almeno dal secondo Dopoguerra, prossimo alle visioni dell’estrema destra.
In questa visione nazionalista vi è un fallimento a livello umano dell’Unione Europea, l’economia più grande al mondo, mai così attaccata alle proprie posizioni, alle proprie distinzioni tra “noi europei cristiani” e “loro sporchi musulmani”, che semplicemente si rifiuta di aiutare chi giunge ai propri confini nonostante sarebbe la cosa più eticamente corretta da fare.
Così abbiamo dichiarazioni disgustose, come quella del Cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che sostiene che aiutare gli ex-residenti del campo di Moria significherebbe “dare false speranze” e, sostanzialmente, incentivi alle persone a migrare. Evidentemente, secondo Kurz, queste persone giungerebbero in Europa perché avrebbero letto un articolo su dei bambini ospitati a Vienna e non perché i propri paesi sono in condizioni di costante instabilità; dove fame e violenze sono all’ordine del giorno.
È su queste questioni che l’Europa mostra la sua faccia peggiore: quella di una massa informe di paesi litigiosi, nazionalisti e razzisti. Quanto accaduto a Moria rischia di continuare a succedere nei prossimi anni, in misure più grandi e più piccole, ché i problemi qui presentati sembrano essere più che mai inaffrontabili da un’Unione Europea che affonda nelle sabbie mobili gemelle di burocrazia ed estrema destra.
A farne le spese non sono solo, come sempre, i più deboli, quelli alla ricerca di pace e accoglienza, ma anche tutti i cittadini europei, complici più o meno diretti di aver scelto la disumanità.
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