Questo è un dibattito sperimentale, perché noi abbiamo una specie di assestamento standard dei nostri stages, come Ventotene ecc., che insistono su sette o otto temi che sono diventati tradizionali nell’esperienza dei federalisti del nord Italia e che possiamo definire post-spinelliani (nel senso che effettivamente si sono posti dei problemi che Spinelli non si era posto). Questo standard mi pare che entri in crisi proprio quando ci si pone il problema non tanto di fare degli stages un po’ formali per militanti già in qualche misura avvicinati dal MFE, che quindi hanno già fatto una certa esperienza, ma quando invece lo si esamina come lo schema, l’orientamento, l’insieme di acquisizioni culturali per entrare in contatto con un giovane, ad esempio un sedicenne.
Questo puntualizza molto la cosa. La persona di quindici, sedici anni, che è, in ipotesi, che dobbiamo avvicinare, è una persona che sta facendo le scuole medie superiori, va verso l’università e quindi è nel periodo della vita nel quale acquisisce il materiale della sua cultura e si pone il problema di cosa abbiamo noi da dirgli. Noi avremmo qualcosa da dire, qualcosa da proporre, da suggerire, ma siamo di fronte a una persona che sta in un altro contesto, quello della scuola e della vita, che sta acquisendo la sua formazione personale, la sua condizione sociale, la sua formazione politica, la sua formazione metafisica anche, in un modo o nell’altro.
Questo è il punto sul quale dobbiamo discutere e sul quale il programma di Ventotene non risponde, perché il programma di Ventotene fa, in un certo senso, una specie di doppione [con la scuola], sia pure con diversi livelli di estensione: Ventotene sono sette lezioni, la vita scolastica di un giovane fino alle scuole medie superiori sono anni. In sostanza, però, su certe materie, su certe idee, su certi argomenti sui quali, in qualche misura, è intervenuta la scuola o, direttamente, la vita sociale, noi interveniamo con una correzione. Il federalismo, in questo quadro è una specie di coronamento. Se si pensa invece ad un giovane di sedici anni, l’età ideale per affrontare questo problema, proprio perché incomincia [a riflettere sulla società] in quel momento, diventa abbastanza chiaro che noi non possiamo e non dobbiamo fare un doppione della scuola: dobbiamo chiederci come orientare il materiale educativo che la scuola e la vita sociale in crisi forniscono.
Questo punto di vista a me pare preciso e un buon inizio per discutere, un punto sul quale i giovani hanno molto da dire, perché sono loro che stanno facendo l’esperienza dei sedici-diciassette-diciotto anni, sono loro che stanno imparando, in questo clima politico e culturale, che cos’è la storia, che cos’è la politica, che cos’è la morale, la filosofia, che si stanno facendo una formazione culturale. Su questo argomento che riguarda la vita sociale, si riflette quella che è sempre stata una nostra vecchissima posizione […] sulla crisi delle ideologie, che rispetto a venti-trenta anni fa sostanzialmente si ripete tale e quale nella nostra visione. La scuola e per quello che c’entrano, la storia, la vita, i primi impegni politici o morali che un giovane comincia ad assumere verso i sedici anni, fanno fare opzioni tra le ideologie e i pensieri consolidati. Quindi il riferimento in un certo senso, agli orientamenti liberali, democratici, socialisti ecc., è automatico e l’opzione viene fatta automaticamente dalla società perché è istituzionale, è istituita nell’educazione e ha dato vita e forma alla strategia, alla filosofia ecc. Quindi, un giovane che non viene avvicinato da noi non fa l’opzione federalista, perché il sistema sociale e il sistema educativo non contengono questa opzione. Questo si riscontra nei fatti: nel processo normale di formazione di un federalista, generalmente, c’era una ideologia precedente – io, ad esempio, ero liberale di sinistra, Spinelli era marxista – che sotto l’impatto dell’azione politica e del fallimento degli schemi tradizionali d’azione (qui tradizionali vuol dire anche comunisti) si era costretti a rivederli, da liberali, comunisti o che altro. Ad esempio, * * * era un democristiano, adesso si è un po’ allontanato, ma è stato uno che ha fatto una tipica esperienza di questo genere. Siamo diventati federalisti individualmente, sotto l’impatto dello scontro con la società e, naturalmente, con il precedente di Spinelli, senza il quale non ci sarebbe niente.
Voi siete un esperimento curioso. Siete, in generale, parenti, figli o amici di gente che ha fatto questa esperienza nel passato. Il gruppo dirigente pavese, a parte i più giovani, è composto da persone come * * *, * * *, ecc. che in un modo o nell’altro hanno subito questa stessa esperienza, se volete in modo meno netto, perché il federalismo, quando loro hanno incominciato ad agire socialmente, era già un po’ più maturo di quanto non lo fosse con Spinelli quando sono arrivato io. La conseguenza ultima, che è valida ancora oggi, e che conferma la necessità di avere un buono schema culturale di avvicinamento ai giovani, è che uno diventa federalista se entra in contatto con i federalisti.
Il grosso problema, quindi, è quello di mettere in contatto il federalismo con i giovani, nel momento in cui si sta formando il loro orientamento politico e sociale. La società non forma federalisti, ci sono dei federalisti di «recupero». È chiaro però che si tratta di esperienze un po’ eccezionali, che dipendono anche da vite, da casi, da situazioni speciali. Io, per esempio, ho fatto la II Guerra Mondiale sperando di perderla, e questo è uno sconvolgimento molto forte che, per forza, proietta alla ricerca di comportamenti nuovi. Ma questo tipo di esperienza e, in generale, la II Guerra Mondiale come fabbrica di federalisti sono completamente finite. Oggi non si fanno queste stesse esperienze. È un lunghissimo periodo, che ancora durerà molto, di bonaccia, in cui i grandi contrasti non ci sono e quindi anche grandi scelte individuali non ci sono, e possibilità di staccarsi molto dai comportamenti medi sono da costruire culturalmente, oppure non si possono acquisire. Questo è un primo punto. Un secondo punto è il fatto di Pavia, che è molto anomalo. È molto anomalo sul terreno pratico ed è molto anomalo sul terreno teorico: è in pratica una scommessa. È chiaro, come ha detto Pflimlin [Pierre Pflimlin, Presidente del Parlamento Europeo, 1984-87], che se ci fossero tante Italie o tante città dove ha visto in azione i federalisti, l’Europa si farebbe domani mattina. Questo noi lo possiamo dire: se ci fossero non cento, ma trenta Pavia in Europa, distribuite sul territorio degli altri paesi, in particolare in Francia e in Germania, l’Europa si farebbe effettivamente domani.
Questo fatto va insieme con un fatto teorico. È a Pavia che esiste una novità radicale del federalismo, una novità radicale che è annunziata da Spinelli, sostanzialmente, nel Manifesto di Ventotene, ma che in Spinelli è una realtà pragmatica e di volontà che riguarda solo lui: fare politica facendo del federalismo e non facendo un’altra cosa. Spinelli era marxista, ma l’atteggiamento di Spinelli, come tutti voi ricorderete certamente dal Manifesto di Ventotene, è che il federalismo diventa l’orientamento con il quale si fa politica. Tuttavia, l’orientamento con il quale si fa politica nel mondo, ancora oggi, non è mai il federalismo, e di questo bisogna essere consapevoli.
Prendiamo il caso, ad esempio, degli Stati Uniti d’America, che sono la prima federazione nella storia sotto il profilo istituzionale. Sotto il profilo tecnico per noi sono una miniera di studio; studiare Hamilton e la nascita del federalismo è certamente uno dei momenti importanti della formazione di un federalista, ma resta il fatto che in America il federalismo non è un orientamento per il comportamento politico, se non in senso tecnico. Quando un americano ha dei problemi di tipo statuale, o certi problemi di tipo giuridico, o certi problemi di conflitti fra gli Stati o di equilibrio tra il potere centrale e i poteri locali, allora l’americano adotta dei criteri federalisti e questi sono i criteri con i quali risolve tali problemi. Ma quando ha già assunto il suo orientamento politico globale, un americano è liberale, o democratico – socialista no, perché l’America non ha il socialismo nella sua storia e nella sua tradizione –, ma oltre che democratico o repubblicano, o qualche altra cosa, un americano è nazionalista. L’american way of life è in sostanza l’orientamento con il quale un americano agisce.
Quindi, al di fuori del nostro gruppo, di questa esperienza che tutto sommato è pavese (benché in questo senso Pavia voglia dire, per esempio, anche Cagliari, Torino, Milano ecc.), il centro nel quale ci sono state una continuità di elaborazione e una continuità di impegno dei dirigenti è Pavia; fuori da Pavia, dicevamo, noi troviamo il federalismo antico. Si possono poi trovare delle varianti. Vedrete tra poco l’articolo che * * * farà per la Rivista [Il Federalista]. Grosso modo, noi abbiamo discusso a lungo e abbiamo trovato quattro varianti, che si possono poi tranquillamente ridurre a due: una è mitologica, risale a Proudhon, e si è espressa con Marc [Alexandre Marc], si manifesta nel campo della cosiddetta filosofia. Proudhon non si sa che cosa sia, non è professionale, è un autodidatta, però, tutto sommato, se si vuole cacciarlo in una casella, bisogna dire che è filosofo, forse negativamente e non positivamente, perché non è economista, né sociologo, né politologo. Marc, poi, ha deliberatamente costruito il federalismo come una filosofia. Questo federalismo integrale, per alcuni versi, si presenta come un federalismo applicato a tutti i livelli nella scala delle istituzioni, nei comuni, nelle regioni e così via, e, per noi, non c’è niente da eccepire. La cosa qui è un po’ più confusa non solo come livello politico, ma anche come livello economico e sociale: qui comincia il pastrocchio perché, se è il federalismo a dare le risposte ai problemi economici, vuol dire che la scienza economica non c’entra niente. Qui comincia il conflitto di Marc con la cultura. Questo federalismo, che ha questa integralità, ha poi anche un approccio integrale, cioè una forma integrale, che è filosofica. Infatti, Marc ha scritto delle eminenti sciocchezze, proprio a livello tecnico, che lo hanno anche screditato in diversi ambienti, sulla dialettica, con la pretesa della dialettica che resta aperta: queste erano opinioni da dilettante di Proudhon sulla dialettica, alla quale lui sostituiva la cosiddetta bilancia, i due piani che pesano ugualmente, e non c’è mai una sintesi, insomma delle autentiche sciocchezze. Comunque, la prospettiva, in questo caso, è che, praticamente, in tanto tempo che è passato, Marc non ha fatto un federalista. Il confronto, che lui non sa fare, tra la sua opzione e la nostra è spaventoso. Lui ha messo in piedi, con l’appoggio dei governi e quindi con un sacco di quattrini, una grossa macchina internazionale, con un’enorme quantità di stages e ha fatto attività per più di 20-30 anni in questo contesto, con questa ispirazione: il federalismo come filosofia. Il risultato è che non c’è un quadro federalista in Francia, non c’è n’è uno nel senso letterale della parola e non ci sono militanti (solo qualche [ingenuo] che si crede un federalista integrale) e del resto la situazione del MFE in Francia è quella che sappiamo.
Quindi c’è il federalismo come mito. Si può spiegarlo culturalmente, ma non è qui il caso. E poi c’è il federalismo come dottrina istituzionale, quello che è il primo cavallo di battaglia di un federalista, perché nell’educazione di un federalista il primo autore è Hamilton e i primi studi da fare sono di carattere nettamente istituzionale. Bisogna capire come può vivere un’organizzazione di tipo federalista, visto che sembra violare i precetti fondamentali della ragion di stato e della sovranità stessa. Il federalismo, apparentemente, è un insieme di governi indipendenti e coordinati, e questo indipendenti e coordinati, alla luce tradizionale, è una contraddizione, e qui c’è appunto il primo gradino di istruzione federalista. Ma è chiaro che, se il federalismo si sviluppa solo a livello istituzionale, non diventa un orientamento globale e non si spostano le priorità.
La fondazione del federalismo come comportamento politico avviene con Spinelli, nella famosa frase del Manifesto di Ventotene dove la priorità è data non dal liberalismo, dalla democrazia o dal socialismo: l’espressione di Spinelli è che non si cambia la situazione introducendo un po’ più di liberalismo, di socialismo ecc., ma constatando l’alternativa a livello internazionale. I due fenomeni sono collegati: è evidente che il federalismo diventa una priorità solo se l’alternativa politica non è più vissuta come un’esperienza liberale, democratica o socialista, fatto che, praticamente, immette chi agisce nel quadro della politica nazionale, e lo tiene lì dentro. La premessa istituzionale è efficace, è reale e concreta solo se l’alternativa politica diventa questa e non altra. E infatti se noi ci chiediamo come mai i partiti sono europeisti, specialmente in Italia (il dibattito tra PCI e SPD sotto questo profilo è interessante: sono entrambi d’accordo che bisogna europeizzare il programma politico e poi sul capitolo istituzionale sono ciechi), se ci si chiede come mai questo accade, come mai c’è coscienza della dimensione europea dei problemi, c’è coscienza della dimensione europea di molte politiche e poi non c’è nemmeno la consapevolezza che senza un governo europeo le politiche europee non si fanno, il mistero è presto svelato. Le alternative sono pensate in termini nazionali. Questa gente ha ancora il mito che bisogna fare un po’ di socialismo in Italia, un po’ di socialismo in Francia, bisogna mandarli tutti al governo e se queste cose vanno insieme nel tempo e i programmi coincidono ci sarà la convergenza a livello europeo. È un argomento puramente mitologico. A livello empirico, quando il socialismo va al governo in un paese, perde nell’altro; quando del resto andassero al governo due socialismi, in Italia e in Francia o in Germania, ciascuno dei due governando diventerebbe prigioniero della ragion di stato [italiana] e l’altro prigioniero della ragion di stato francese o tedesca. Prendiamo qualunque caso grosso di politica, come in questi giorni, l’affare della Siria: la posizione degli inglesi e la posizione degli altri è data dalle ragioni di stato, che non coincidono per definizione, perché l’esistenza di un’organizzazione statale è ipso facto l’esistenza di un particolare interesse, che non è quello dell’altro. In Spinelli c’è questa formulazione del federalismo come comportamento politico proprio perché l’alternativa è concepita in questi termini, già a livello empirico: se uno ha come alternativa un governo nazionale diverso da quello esistente, che è il grosso problema dei socialisti tedeschi o dei comunisti italiani, allora, per forza di cose, vive ai margini di questa esperienza. Il federalismo come comportamento politico nasce, pragmaticamente e volontaristicamente, in Spinelli, che è un grande pragmatico, con lo spostamento dell’alternativa. È lo spostamento dell’alternativa che garantisce la priorità, dato che alternative e priorità, insieme, configurano le caratteristiche di un comportamento politico.
A questo punto avviene un fatto storico preciso. Bobbio, anche se imperfettamente, l’ha colto in quella conferenza che ha fatto per noi a Milano in occasione del trentennale della fondazione del MFE. In questo momento nasce il federalismo come comportamento politico. Prima non c’è, non esiste. Questo è un momento da fissare nella nostra discussione, così come è importante identificare il punto, il luogo sociale, di formazione del programma federalista educativo nei confronti del sedicenne, perché mette bene in evidenza questa differenza tra i materiali della cultura e l’orientamento: i materiali, comunque, li [forniscono] la scuola e la vita, mentre sono gli orientamenti che si possono discutere.
Questo dimostra, se non mi sbaglio, cosa significa e come è avvenuta la nascita di un comportamento federalistico e che cos’è, sostanzialmente, tale comportamento. È chiaro che non c’è comportamento federalistico in questo senso pieno della parola né in America, né in Svizzera, perché qui il comportamento è nazionale. Questa è un’osservazione che ritrova cose che abbiamo studiato tanti anni fa e che riguardano appunto il nazionalismo: il fatto che la prima ideologia di ciascuna persona è l’ideologia del tipo di Stato nel quale vive, per il quale opera e nel quale crede. Le ideologie – liberalismo, socialismo e comunismo – sono in subordine all’ideologia dello stato e il comportamento nazionale è il comportamento politico profondo. Ad esempio, prendete un comunista: voi avete una dottrina internazionale – «proletari di tutto il mondo unitevi» –, vedete che le esperienze sono state per molti aspetti astrattamente internazionali, mentre la realtà è che un comunista ha un comportamento nazionale. L’enorme scoperta dei comunisti italiani, sulla quale hanno costruito la loro fortuna, è quella di Togliatti, quando è tornato da Mosca: il nazionalismo. Quando è venuta la crisi della loro esperienza internazionale, dall’Ungheria in poi, la grande scoperta di Togliatti è stata «il pluralismo», ciascun [partito] aveva la sua vita, aveva la propria via nazionale. Lentamente, questa trasformazione pratica dei comunisti acquisiva sempre più i suoi caratteri morali anche in termini teorici nell’esperienza marxiana. Questo mette in crisi il comunismo, come ha messo in crisi il liberalismo e la democrazia, perché queste sono esperienze nate per tutti gli uomini, altrimenti non avrebbero nessun significato e, nel caso dello svolgimento storico, per i loro limiti, per i limiti della situazione storica nella quale sono nati, si trasformano in comportamenti nazionali.
Qui sta l’insidia: il fatto che il comportamento politico fondamentale sia nazionale e venga celato a quegli stessi che lo professano. La grande auto-mistificazione non è tanto quella liberale, democratica o socialista, ma quella nazionale. In concreto, se interroghiamo un liberale, un democratico o un socialista, quello dice di avere come orientamento politico il liberalismo, la democrazia o il socialismo. Persino Malagodi [Giovanni Malagodi 1904-1991] che è abbastanza bravo, è un europeo, ecc., però nello stemma del partito accetta la bandiera italiana, come se si trattasse di fare adesso l’unità d’Italia e non si trattasse, invece di disfarla.
È un dato di fatto del comportamento politico federalista, come è nato, che caratteristiche ha. Quando tutto questo è acquisito, però, bisogna subito fare un’analisi fattuale, perché questo comportamento politico esiste come fatto personale di Spinelli ed ha una certa esistenza a Pavia, nel senso che Pavia ha avuto la fortuna, il caso, che sette-otto persone siano riuscite a lavorare insieme negli anni 1955/60. Sette o otto federalisti a pieno titolo in una città è stato il fenomeno che ha causato questa esplosione. Nelle altre città questo non è accaduto. Per esempio, a Torino erano in due o tre, non erano in sette o otto e questo spiega perché Pavia ha fatto più di Torino. Pavia forse è una città raccolta, o è stato l’ambiente del Ghislieri, voi sapete che, in pratica, questo movimento è nato al Ghislieri. C’era un gruppo di persone che erano già amiche, avevano un orientamento comune, hanno stabilito un contatto con me e, insieme, abbiamo messo in piedi il federalismo come comportamento politico. Questo aspetto deve essere visto anche sotto il profilo teorico. Io ho fatto una scommessa che è stata condivisa anche dai miei amici.
Se vado a riprendere idealmente la mia «Antologia» e penso all’Introduzione, c’è un’osservazione che può essere considerata leggermente ambigua: l’estremismo è una malattia infantile di tutti, se non si radicalizzano un po’ le proprie posizioni, non si nasce. Io dò per scontato, nella mia «Antologia», che esistano i comportamenti federalistici come comportamenti politici, come atteggiamento nei confronti del potere, della storia, ecc. A riprova di questo, [richiamo] semplicemente l’esistenza di fatto dei movimenti federalistici (Europa Union, il MFE francese, ecc.). In verità noi siamo in polemica con questi movimenti perché non sono federalisti. Qui sono i misteri della nascita delle idee. Non c’è da spaventarsi. Se voi andate a vedere la Prima Internazionale comunista, in cui Marx ha agito, è molto più stupida, mediocre e vile dell’UEF, molto di più. L’UEF, per quanto sia da biasimare all’estremo, e per quanto ci sia da dire che non sono federalisti veri e propri al punto di fare del federalismo il loro comportamento politico, ciò nonostante è molto di più come qualità di persone della Prima Internazionale. Si nasce così, in realtà. Però, tra noi, è chiaro che, quando su questi punti avessimo fatto un’analisi sufficiente, anche nei confronti dell’esterno, bisogna dire le cose come stanno. Quando abbiamo iniziato questa analisi eravamo in due o tre, e due o tre, per tentare di dire che esistono, devono radicalizzare le proprie posizioni. Non c’è niente da fare. Quella tesi di Lenin è una tesi sociologica. L’estremismo malattia infantile del comunismo si può generalizzare: l’estremismo è la malattia di qualunque formazione politica o sociale nuova. Quando la cosa è nella testa di uno, uno solo nei confronti di quattro miliardi di uomini, è talmente debole che, se non la rimpolpa un po’ con qualche mito, qualche speranza, con qualche cosa che probabilmente succederà, ma che per il momento è ancora incerta, viene travolto.
La grandezza di Spinelli sta in questo: lui là, a Ventotene, ha fatto questa scelta da solo perché Rossi e Colorni non significano letteralmente niente, sono uomini di cultura che hanno solo capito cosa stava facendo Spinelli. Questo è tipico dei grandi uomini: fanno da soli, proprio da soli, una cosa completamente nuova. De Gaulle il 18 giugno del ’40 è lo stesso caso. Quindi, quando io, nell’introduzione della «Antologia», dicevo che esiste il comportamento federalistico, dicevo una cosa che era vera ed era falsa. Noi, per esempio all’interno del UEF continuiamo a lamentarci che non sono ancora abbastanza federalisti, in particolare in Francia e in Germania e abbiamo fatto una scommessa, che è la ripetizione della scommessa italiana del 1955: potenziare il movimento giovanile, perché lì soltanto esiste la possibilità di migliorare l’UEF, di farla diventare l’organizzazione di un nuovo comportamento politico.
Questo ha rilievo teorico. Il MFE italiano vive e prospera e recluta, Europa Union sopravvive, in Francia qualche cosa da fare c’è. Siamo sempre nel contesto dove ciò che io ho dato come un fatto può diventare realtà, può nascere davvero. Ma che senso ha? Noi possiamo teorizzare il federalismo come io l’ho teorizzato, come un comportamento politico globale, quindi che sta sullo stesso piano del liberalismo, della democrazia e del socialismo, perché in qualche misura questo fatto in parte l’abbiamo vissuto, in parte lo dobbiamo ancora [sviluppare]. Se togliete Pavia e questa costellazione rada che include, come ho detto prima, tutti gli amici che hanno lo stesso orientamento ideale, allora hanno ragione quelli che considerano il federalismo una dottrina istituzionale. Perché, o Pavia è stata, sotto la guida di Spinelli e, continuando la sua azione, la nascita di un fatto politico nuovo, o invece è un fatto strano, una lezione di vita che ha dato certi frutti, certe riflessioni e che è destinata a morire. Se Pavia è l’inizio di qualcosa di nuovo, allora si può teorizzare il federalismo come ideologia, dove la parola ideologia starebbe a significare l’orientamento politico attivo. Allora, anche in senso teorico, il federalismo è qualcosa di più di una semplice dottrina istituzionale che può essere adoperata da un liberale, un democratico ecc. e il federalismo non è obbligato a diventare un mito. La sorte, quindi, di questo modo di vedere il federalismo, che è il solo nel quale il federalismo diventa attivo, perché diventa una priorità e sposta l’alternativa politica, storica e sociale dal terreno nazionale al terreno internazionale, dipende da tutto questo. Se tutto questo invece non succede, allora anche gli obiettivi federalisti non esistono, noi saremmo nelle catacombe, saremmo delle persone che devono ancora capire cosa sono, che cosa devono fare, e che hanno ancora da capire che cosa sia il federalismo. In sostanza, Pavia pone questo quesito: fa nascere l’idea che il federalismo sia un comportamento politico indipendente, da mettere sullo stesso piano dei comportamenti politici che si sono succeduti nel tempo, e deve essere considerato un’ideologia, se è giusto, come io suppongo, usare questa etichetta per designare i comportamenti politici attivi.
D’altra parte questo modo di ragionare non è casuale: qui c’è il fatto, e se non ci fosse stato il fatto non ci sarebbe la teoria. Però della natura del fatto non siamo sicuri. A questo punto voi vedete che abbiamo di fronte la problematica di cui vi parlavo prima. La possibilità di far sì che questa esperienza nata a Pavia continui – quindi [esiste] la possibilità di [verificare la verità] di una teoria del federalismo come comportamento politico globale, come propria identificazione politica e sociale – è legata alla possibilità di diffondere e di sviluppare il federalismo. Se si riesce a diffondere e sviluppare il federalismo, allora, evidentemente, questo presupposto della mia costruzione, “i federalisti esistono”, nel senso di comportamenti politici, diventerà sempre più vero e tutte le nostre tesi, anche quelle della pace e dello sviluppo dell’Europa – che potrà avere ritardi nel tempo, perché nessuno può calcolare i tempi della storia – sarebbero da considerare come parametri di crescita. Se invece tutto questo non si potrà sviluppare, se non siamo in grado di sviluppare il federalismo, allora è chiaro che tutto questo è stato sbagliato, è stata una prova nella quale noi siamo stati capaci di registrare un’esperienza, un’esperienza che ha avuto comunque senso, specialmente quella di Spinelli, ma non sarebbe nato un fenomeno nuovo. Noi saremmo ancora in questa situazione in cui abbiamo le grandi ideologie in declino e non la nuova ideologia che nasce. Lo sviluppo del federalismo, per un verso, ha tre dimensioni. È legato evidentemente alla battaglia per l’Europa; è il rapporto che il federalismo instaura con il processo del potere, con il processo storico. Se l’Europa si costituisce in Unione, se si sviluppa lentamente una federazione, ecc., è chiaro che il federalismo come comportamento politico trova una situazione quasi istituzionale. Vediamo il paradigma preciso: se l’Europa nasce, in un primo tempo la scuola e la vita continueranno a produrre solo la scelta tra liberalismo, democrazia e socialismo, ma lentamente affiorerà il federalismo. Avrà delle difficoltà, ma il federalismo diventerà l’ideologia dello stato, quindi l’ideologia meno percepita, che si vive più inconsapevolmente, perché lo stato lo subiamo non lo facciamo. E questa è la misura di come è ancora lontana la democrazia reale. Comunque è certo che, se l’Europa nasce, abbiamo la creazione di un modello, e abbiamo poi una certa vita del federalismo che diventerebbe forza di educazione nei confronti dei giovani, il che significa la formazione della società, perché così come i giovani si formano, così è la società. Se i giovani oggi sono liberali, democratici, socialisti, e poi [sono] praticamente sommersi da un qualunquismo globale, la società di domani sarà una società ancora peggiore di quella in cui stiamo vivendo, una società dimissionaria, senza rilievo etico, senza capacità di impegno nel futuro, vile; vile anche sotto il vecchio profilo dell’indipendenza e della dignità. Questa, quindi, è la prima dimensione dello sviluppo del federalismo, la battaglia per l’Unione Europea.
La seconda dimensione, altrettanto importante, che affiora adesso con questi contatti che abbiamo con qualche americano, è data dall’organizzazione e dalla cultura. Per esempio, dovremmo riuscire a dare un’effettiva portata mondiale alla nostra organizzazione, trasformando in fatto organizzativo, e quindi culturale, l’esistenza dei federalisti, che c’è, perché di federalisti, c’è n’è dappertutto, ce n’è persino in Giappone. Allo stato dei fatti però, è come se non esistessero, perché non ci sono collegamenti tra loro, non c’è una dottrina comune, non c’è la sommatoria delle loro azioni. Noi non possiamo dire «A New York abbiamo fatto questo», perché anche se * * * avesse fatto qualcosa di buono a New York, la mancanza di vincoli organizzativi comuni fa sì che i federalisti americani abbiano fatto qualche cosa, i federalisti italiani qualcosa a loro volta, ma tutto ricade sotto l’etichetta della politica nazionale. Non riusciamo a superare, nella dimensione del fatto, quello che abbiamo superato nella dimensione della teoria. Quindi, c’è questo risvolto, che è di carattere organizzativo. Tenete presente che, in politica, l’organizzazione assorbe quasi tutti i significati della cultura. Noi abbiamo sempre considerato Lenin come uno dei grandi modelli: la rivalutazione del momento organizzativo come grande momento culturale. Il momento dell’organizzazione è il momento nel quale si reclutano le forze. Il momento dell’organizzazione è quello nel quale la cultura diventa vita, diventa azione e quindi non è da considerare in senso burocratico, ma in questo senso storico-sociale. Questa è la seconda dimensione.
Certamente, così come dobbiamo cercare di portare avanti la battaglia per l’Unione – perché questo significa che il federalismo acquisisce lo stato di comportamento politico, di autonomia, dobbiamo considerare che lo stesso vale per l’organizzazione. E’ probabile, e io lo spero, che se riusciremo a costituire i primi elementi dell’organizzazione mondiale dei federalisti, il nostro impatto sulla gioventù sarà molto migliore e il nostro impatto nei confronti del Movimento per la Pace sarà molto più forte. Noi siamo presi in questa contraddizione che dobbiamo far scoppiare. Abbiamo una teoria, una volontà, un ideale, una reazione sentimentale persino, sopranazionale, ma, nei fatti, noi siamo chiusi in questo maledetto confine italiano che non riusciamo mai a superare, proprio perché non riusciamo a piantare le nostre «colonie», le nostre «terre di missione» in Francia e in Germania e quindi siamo sempre al punto di partenza. È dal ’56 che siamo al punto di partenza. Sono trent’anni che abbiamo [fatto] iniziative per sviluppare comportamenti simili ai nostri nei francesi e abbiamo sempre fallito. Siamo stati sfortunati, perché ci sono due o tre persone almeno che sono radicalmente colpevoli di questo fatto, però, quello che non è accaduto, non è accaduto.
La terza dimensione è quella culturale ed è quella più importante. Dobbiamo comunque scontare che, per un lungo periodo di tempo la scuola e la vita faranno solo nascere opzioni tra le grandi ideologie tradizionali e quindi noi saremo in grado di avere un maggior numero di persone che si impegnano, che assumono questo atteggiamento nuovo – il federalismo come comportamento politico – solo se avremo una capacità di reclutare i sedicenni. Questo è tipologico, poi si reclutano anche i diciottenni, i venticinquenni. Questo problema di rapporti tra la cultura che vive già nella società e la cultura che noi proponiamo, ha caratteri generali. A sedici anni il vantaggio è che questo fatto si presenta molto netto. Questo è il senso che ha, in questa sfida storica, la cultura federalista, perché la nostra è una sfida storica: noi cerchiamo di far nascere un comportamento politico nuovo e solo in questo modo ha senso una cultura federalista. A questo punto, noi troviamo, in concreto, il nocciolo del problema che dobbiamo discutere: qual è il programma educativo col quale si può sperare di rafforzare al massimo la nostra capacità di reclutare dei sedicenni (sedicenni in senso tipologico). Questo programma deve chiarire qual è lo spartiacque tra ciò che un individuo apprende dalla scuola e dalla società, e ciò che noi dovremmo fare. La scommessa è che se noi riuscissimo a costruire in modo potente questo schema educativo, tutti diventerebbero federalisti. Naturalmente, se tutti diventassero federalisti, si potrebbe davvero realizzare non solo l’unità europea, ma anche la pace mondiale. Del resto, ad un certo momento, tutti sono diventati liberali.
Le cose storiche presentano una notevole confusione rispetto alle tipologie. Parlando di temi storici noi cerchiamo di costruire tipologie e i fatti poi sono un po’ diversi. Però, l’anima dei fatti che si può includere in una tipologia è questa: abbiamo la rivoluzione francese e abbiamo un tipico comportamento politico. Non è un caso che la rivoluzione francese sia lodata da Kant, sia lodata da Hegel: finisce con l’avere un raggio d’azione enorme e trasforma il modo di pensare politico e morale della gente. In fondo la filosofia moderna nasce con la rivoluzione francese, perché Hegel è il suo figlio diretto, non c’è ombra di dubbio su questo. Quindi, non è che dicendo “tutti diventano federalisti” noi diciamo una cosa impossibile. Ad un certo momento, se tutte queste azioni combinate, queste tre dimensioni – la lotta per l’Europa, un’organizzazione politica federalista mondiale e uno schema educativo federalistico efficace – operano storicamente, quando i fatti si manifesteranno e assumeranno questo carattere, tutti saranno federalisti.
Sotto questo profilo, Pavia si presenta come un laboratorio, un laboratorio molto avanzato. A Pavia ha preso una forma culturale e organizzativa l’intuizione di Spinelli. Spinelli l’ha affermata, l’ha introdotta nel mondo, con la sua enorme volontà, con la sua natura di uomo cosmico-storico. Noi abbiamo cercato di costruirla non come atteggiamento di una sola persona grande, ma come atteggiamento di tutte le persone, quindi come un comportamento politico. Allora, abbiamo messo in cantiere la teoria del federalismo come ideologia, come orientamento del proprio comportamento politico, ecc. Questo è una scommessa, perché finché resta un fatto pavese è chiaro che non è ancora se stesso. Deve esserci dappertutto perché sia un comportamento politico. Però, visto che è qui che questo fenomeno si è prodotto, è qui che questa cosa può essere tentata. Perciò, qui a Pavia, dovremmo tentare di dare un significato doppio alle riunioni federalistiche di formazione. Per un verso avranno i loro contenuti, come ogni stage, per l’altro, dovranno essere un modello sperimentale. Dobbiamo cercare di trovare uno schema tipo che riesca ad identificare qual è il punto di contatto tra quel tanto di federalismo che abbiamo costruito, che a Pavia ha questo carattere tipico, e la formazione politica, sociale, morale di un giovane. Questo è, io credo, il vero carattere che dovrebbero avere le riunioni.
A questo proposito, mi sono fatto alcune idee solo da quindici giorni, discutendo una sera qui in sede, sul programma più giusto per le riunioni del martedì. D’altronde questo è un problema che si è sempre posto: scegliere i temi più appropriati. Una prima idea era che dobbiamo scegliere dei temi portanti, dei fatti storici un po’ esemplari, per esempio la rivoluzione francese, la rivoluzione sovietica, la rivoluzione americana, per dirne alcuni, cioè fatti in cui sia in qualche modo incorporato un tasso alto di teoria, perché sono state delle trasformazioni che hanno cambiato il modo di ragionare della gente. Allora noi affrontiamo questi temi con i giovani – io penso sempre al sedicenne, e magari invece voi ne avete tutti di più, quindi prendetelo in senso tipologico – che stanno formandosi adesso una mentalità politica e sociale sulla base dell’educazione che ricevono a scuola e che è completamente dominata dalle ideologie tradizionali. Questa cosa magari non appare chiaramente perché le ideologie tradizionali sono in crisi, ma nella misura in cui qualche concetto entra dentro, e qualche concetto entra dentro per forza, si tratta sempre dei concetti del vecchio patrimonio culturale, quindi delle ideologie tradizionali e dell’ideologia nazionale. Se poi tutto questo dà luogo a quel disastro cui dà luogo, è precisamente perché queste ideologie sono in crisi, ed essendo in crisi non producono nell’animo del giovane un pensiero forte, e anche le sollecitazioni etiche sono deboli. Debolezza che nasce dalla debolezza di questa cultura, che è la cultura di un tempo finito.
È quello che io chiamo l’edificio maestoso, e apparentemente importante, ma che in realtà è [eroso alle fondamenta]. Sotto c’è la talpa che ha scavato, le fondamenta sono marce e questo grandioso edificio sta per crollare. È un edificio grandioso perché è la somma di tutta la storia del passato e, obiettivamente, non si può essere superficiali e semplicistici nella critica delle ideologie. Il liberalismo, la democrazia, il socialismo e il nazionalismo, tutti insieme sono lo stato moderno, la storia moderna, e quindi sono questo grandioso edificio. Nel contempo, però, questo noi lo vediamo, sta indebolendosi giorno dopo giorno. Il lavoro, come sempre, la storia lo fa di nascosto, in un certo senso, perché sono le élites che preparano i tempi nuovi. Hegel ha questa immagine molto bella, che Marx gli ha rubato, perché l’ha adoperata più di una volta ed è una bellissima rappresentazione della storia. La storia è concepita come rivoluzione: la talpa lavora nel sottosuolo, erode le fondamenta, mentre la gente è ancora legata alle cose che ci sono, quindi a questi maestosi edifici. Le nostre ideologie dovrebbero essere viste un po’ così. Perché non bisogna neanche assumere l’atteggiamento del facile disprezzo, che del resto viene assunto da quelli che hanno fatto una critica superficiale e hanno trasformato la crisi delle ideologie nella crisi dell’ideologia. Sono soprattutto i marxisti, che hanno buttato via tutto e ora si trovano con niente in mano. Questo è il mondo che ci hanno lasciato in eredità quelli che sono morti e che l’hanno costruito, che è comunque un mondo straordinario: il mondo che ci consente di agire. Togliamo la rivoluzione francese, la rivoluzione americana, la rivoluzione sovietica e arriviamo al dispotismo illuminato. Se non siamo più al dispotismo illuminato, se ci possiamo proporre un’azione politica come un’azione libera e volontaria, come un’azione creatrice nella quale l’uomo costruisce la società in cui vuole vivere, questo lo possiamo fare perché la rivoluzione francese è passata ed ha cambiato l’ordine dei fatti e l’ordine del pensiero. In fondo, c’è la possibilità di attribuire a Hegel questa grande filosofia della libertà, come una riflessione sulla rivoluzione francese. Questo dà la misura di come chi continua a parlare di crisi delle ideologie butta via tutto e in realtà non riesce a comprendere niente.
Tuttavia, in ogni caso, la scuola subisce le ideologie del passato che non sono vissute, non sono rese nuovamente vitali come accade a noi. È curioso come noi siamo in grado di parlare bene delle ideologie del passato, senza avere queste lacerazioni storiche: da una parte la rivoluzione francese è importante, dall’altra la democrazia non [è altrettanto evocativa], ma noi sappiamo inserirla in un contesto storico nel quale si può sviluppare, ecc. Era vera quella vecchia intuizione, poi diventata solo un meccanismo formale, che la democrazia sviluppa il liberalismo e il socialismo sviluppa la democrazia. È una giusta intuizione, anche se ad un certo momento si è guastata perché non si riesce a vedere che sarà il federalismo che riuscirà a sviluppare questi tre momenti.
Comunque sia, la scuola riflette ancora e subisce questa ideologia e quindi, a mio parere, produce questo effetto: la scuola e la vita – perché la scuola non può essere dissociata dalla vita, dato che uno sta a scuola tutte quelle ore, poi va fuori, discute con gli amici, fa le prime azioni politiche, ha le prime reazioni di carattere sociale, continua e sviluppa certe esperienze morali che aveva già avviato prima, o metafisiche, o religiose – forniscono tutti i materiali della nostra cultura. In questo senso, sarebbe del tutto utopico che noi potessimo metterci al posto della scuola e della vita, che sono una specie di totalità che nessuno di noi può oltrepassare, in quanto la scuola e la vita sono la dimensione culturale della nostra personalità. Il punto di distinzione, però, è questo: lo stesso materiale culturale, la storia moderna, la storia della filosofia, la storia delle idee politiche, che non c’è nella nostra scuola media – e questo è significativo – delle idee economiche, delle idee sociali, tutto questo materiale assume un significato completamente diverso a seconda dell’orientamento nel quale noi lo collochiamo. Io ho fatto qualche esempio su Hegel e sulla rivoluzione francese. Ma, per la rivoluzione francese o anche per la rivoluzione sovietica, se volete, per noi vecchi federalisti, è tradizionale assumere un atteggiamento che, essendo noi democratici, stupisce molto i democratici: ad esempio quello di considerare positiva la rivoluzione sovietica. Noi siamo in grado di considerare positiva la rivoluzione sovietica più di quanto siano in grado di farlo, oggi, Pajetta o Natta e via dicendo, perché noi sappiamo distinguere, abbiamo certe idee dello sviluppo storico, abbiamo una certa idea che per il momento è una scommessa, come ho detto, una pura ipotesi, che la storia stia avvicinandosi allo stadio federalistico. Noi siamo in grado di vedere questi elementi storici del passato nella continuità, che è il passato, il presente, il futuro, mentre nelle ideologie tradizionali, tagliando il futuro, tutto ciò cessa di avere un senso netto. Noi sappiamo distinguere abbastanza bene la rivoluzione sovietica come fenomeno culturale enorme, che ha comunque introdotto nella storia del mondo un dato che non si può più cancellare (i valori sociali dell’individuo, i problemi dell’uguaglianza sociale), e la possiamo distinguere tranquillamente, come si dovrebbe in astratto fare, dallo stato sovietico, così come tutti fanno per la rivoluzione francese. È normale parlare bene della rivoluzione francese, tutti in qualche modo sono costretti a dire – Montanelli non ci riuscirebbe, però è un animale particolare – che c’è un profondo legame tra liberalismo, democrazia e rivoluzione francese, anche se poi è arrivato Napoleone, anche se poi è tornata la monarchia. Ma la libertà, in sostanza, è entrata nel mondo in una maniera indistruttibile con la rivoluzione francese, che si distingue molto nettamente dalle conseguenze statali, che sono venute come conseguenze pratiche e non culturali. Lo stesso si deve dire, io credo, della rivoluzione sovietica.
Ora, però, considerate la rivoluzione francese e considerate la rivoluzione sovietica: sono due esempi. Questi, in quanto tali, come informazione, potremmo dire, sono il materiale culturale che viene fornito dalla scuola e dalla vita. La scuola e la vita fanno sì che ciascuno di noi, poco o tanto, sappia cos’è la rivoluzione sovietica e cos’è la rivoluzione francese. Quindi, fa delle analisi, quando ragiona, quando pensa, quando dà giudizi politici. Questi giudizi politici vengono dati in funzione di un proprio patrimonio culturale che ha come elementi strutturali questo materiale, queste informazioni. Ma prendiamo adesso gli orientamenti. Abbiamo, per un verso, l’informazione, chiamiamola così (i fatti della rivoluzione francese, i fatti dalla rivoluzione sovietica, i fatti di qualunque altro avvenimento di questo genere), per l’altro, abbiamo l’orientamento nel quale noi li recepiamo e nel quale noi li gestiamo. Se noi abbiamo un orientamento federalistico, per esempio, la rivoluzione francese acquista un certo significato e la rivoluzione sovietica acquista un certo significato. Se noi invece ci collochiamo in un altro contesto – essere un liberale, un democratico o un socialista, in crisi, poverini – senza la fiducia nel futuro, o addirittura nello sconforto della crisi delle ideologie, quindi della scomparsa dell’orientamento politico attivo, avete le contraddizioni che vedete nella società e nella cultura: la rivoluzione sovietica è un mistero, letteralmente, perché per un verso è questa cosa trionfante e gloriosa nella quale è stato scritto un grande capitolo della storia umana – il pensiero di Marx, il sacrificio di un’enorme quantità di persone che hanno lottato per la causa dell’emancipazione del lavoro – poi arriva Stalin, arriva questo mostruoso stato, che è uno degli stati più dispotici della storia umana, e allora se uno è liberale, democratico, socialista o addirittura un pragmatico che rifiuta le ideologie, non è in grado di mediare, perché, se non vede lo sviluppo storico, se non colloca tutto questo nello sviluppo storico, si tratta semplicemente di una contraddizione. L’ultimo atto è che questa concezione della storia viene rimossa nella cultura di ciascuno e quindi genera complessi, perché rimossa non vuole dire distrutta, vuol dire che resta e agisce inconsapevolmente. Viene rimosso un grande capitolo della storia che è la storia del socialismo, che è Marx, che è tutto quello che gli uomini hanno fatto nel secolo scorso e in parte nel nostro, che è emancipare gli uomini. È un compito che si può chiamare addirittura liberale e, del resto, non è un caso che Marx fosse un liberale, perché se non fosse stato liberale non avrebbe potuto pensare in termini di libertà per tutti gli uomini. Ed è [solo] nel pensare la libertà in termini di libertà per tutti gli uomini che si è scatenata questa grande cosa della storia, che è la storia del socialismo. Tutto questo finisce con l’essere rimosso e voi vedete, attraverso questo esempio, che si autodistrugge il patrimonio della nostra civiltà, come sta morendo la nostra civiltà (del resto tutta la parte nazionale è una morte). Noi stiamo distruggendo gli stimoli vitali.
Ecco, la distinzione che mi pare ideale per un programma educativo dei giovani. È qui, tra orientamenti e materiali di informazione, che un individuo assume prevalentemente dalla vita e dalla scuola, dai sedici anni in poi, [una cultura]. Questa esperienza ad un certo momento si chiude e uno si fissa in un atteggiamento liberale, democratico, socialista, e nazionalista inconsapevole, senza che sia avvenuto un processo di acquisizione critica di questo sapere, proprio perché questi pensieri non hanno più lo sviluppo futuro e non avendo più lo sviluppo futuro depauperano lo stesso patrimonio e si conservano i miti. Se voi osservate la scena politica, lo constatate immediatamente. Prendete la discussione politica tra un ventenne e un sessantenne, per esempio: è rissa, non è dialogo, non c’è quella cosa di cui parla Weil [Eric Weil, filosofo]. Solo se c’è una coincidenza di impegno personale e di sviluppo storico può esserci dialogo; altrimenti è una specie di rissa, perché si è acquisita una maniera acritica di pensare politicamente, che si è cristallizzata in una formula, e così avete il liberale dogmatico e i socialisti come possono essere i russi, che nessuno sa che razza di socialisti siano, dal punto di vista individuale (il socialismo in Russia è diventato rituale).
Quindi, il punto preciso sarebbe questo. Noi vogliamo avere un programma educativo di tipo federalistico, un approccio per sviluppare il federalismo nei giovani, perché questa è la via per preparare al federalismo attivo. Se noi distinguiamo l’enorme materiale informativo, che non siamo noi a poter dare, e l’orientamento nel quale questo materiale informativo viene assunto, noi abbiamo, io credo, il punto di applicazione. Il programma educativo federalistico dovrebbe essere questo: la scuola e la vita forniscono tutti i materiali informativi; persino il linguaggio comune; si discute all’infinito su questo tema e in un secondo tempo si può approfondire l’analisi. Però tutto questo enorme materiale informativo, che è persino presente nel linguaggio, che costituisce il patrimonio culturale di ciascuno di noi, più o meno critico, più o meno consapevole e via dicendo, assume significati completamente diversi a seconda degli orientamenti attivi nei quali è inscritto. Per esempio, come ho già detto, la rivoluzione francese e la rivoluzione sovietica, viste da un federalista, che non pensa in termini di crisi dell’ideologia, ma che pensa in termini di un trapasso naturale da un’ideologia ad un’altra; a seconda dello sviluppo storico, assume un significato completamente diverso. Quindi, lo stesso materiale informativo è stimolo all’azione, è stimolo a un’ulteriore tappa dell’ emancipazione umana, è stimolo verso la costruzione della pace, oppure è rassegnazione, è quella cosa che vedete oggi negli intellettuali di sinistra, che è veramente vergognosa. Il tipo più esemplare è Cacciari, che è passato dal marxismo a studiare gli angeli.
Noi abbiamo, da una parte, il materiale informativo, sul quale non dobbiamo incidere (sarebbe un’alternativa assurda, la fatica di Sisifo; noi usciremmo da noi stessi). La storia, la scuola e la società sono comunque le stesse, si trasformeranno nel tempo. Ma, prima che diventino veramente attive e sappiano accoppiare alla trasmissione del materiale informativo anche un minimo di soffio vitale, dovranno intervenire fenomeni politici e storici nuovi. Per il momento, noi abbiamo la decadenza. Qual è il modo di inserire questi orientamenti attivi in questo materiale informativo che, comunque, ciascuno di noi assume? Per dare un’idea di questo materiale informativo, il solo e semplice materiale informativo che veniva dalla scuola e dalla vita trent’anni fa produceva molti impegni politici e i movimenti giovanili dei partiti erano tutti molto attivi. Il dibattito, per esempio, tra noi, che eravamo una piccola forza iniziale e i liberali, i socialisti, i repubblicani e i comunisti, era molto attivo. Se si faceva un incontro di giovani, si vedevano moltissime persone, e molti giovani discutevano tra di loro. Adesso, invece, quasi niente, perché lo stesso materiale informativo che viene assunto in un orientamento che era un po’ attivo trent’anni fa, adesso è completamente morto, spegne piuttosto che stimolare. Quindi ho l’impressione che il programma educativo dovrebbe affrontare questo punto e, per concludere rapidamente, la mia impressione è che questo orientamento attivo, in ultima istanza sia il federalismo, se è vero che la cultura diventa qualcosa di vivente quando diventa un criterio del mio comportamento. Fino a che la mia cultura, che in prima istanza è un materiale informativo che recepisco dalla vita, dal linguaggio, dalla scuola, fino a che questa cultura non diventa un criterio del mio comportamento, questa cultura non diventa attiva.
Questi orientamenti sono in sostanza i criteri del comportamento [federalista]. Noi assumiamo, tipologicamente, schematicamente, che quello che rende attiva una cultura siano le ideologie. Io credo che sulla parola ideologia si debba insistere, anche se non piace. Può essere sostituita, in ogni caso, con il pensiero politico militante, il pensiero politico attivo, il pensiero politico dal quale scaturiscono i giudizi di qualunque persona nei confronti del processo del potere. Se non avviene questa congiunzione, patrimonio culturale e orientamenti attivi nella vita, allora la cultura diventa rituale, si conoscono delle parole ma non si conoscono delle cose. In estrema istanza, e a livello più sviluppato e tipico, questo orientamento attivo è l’ideologia. Oppure il pensiero politico attivo, che è la stessa cosa, secondo, me, nella nostra scommessa nella nostra ipotesi, è il federalismo. Il federalismo è un punto d’arrivo.
È il punto di arrivo di un’esperienza che i giovani stanno facendo, che gli uomini stanno facendo, che noi stessi stiamo facendo. Più lo sappiamo [tanto meglio]. Perché, quando prendiamo il federalismo che abbiamo sviluppato e diciamo: “è vero”, noi siamo fuori gioco. Non è vero, è a Pavia, è un po’ a Torino, e qui e là, insomma, ma per esempio in Francia non c’è. Non è ancora un nuovo comportamento politico. Quindi, questo federalismo come ideologia, come criterio del proprio comportamento e perciò come criterio dell’utilizzazione del proprio materiale culturale e come criterio persino linguistico, questo federalismo è un punto d’arrivo, un’esperienza che si sta facendo. In particolare, è un punto di arrivo lontanissimo per i giovani che oggi stanno cominciando. Il giovane che va a scuola, a sedici anni, trova, come dicevo, il liberalismo, la democrazia, il socialismo, il nazionalismo e il pacifismo. Non trova altro. Se noi vogliamo un contatto profondo con questi giovani e vogliamo avere un programma di educazione federalistica, noi dobbiamo sapere che il federalismo comincerà a funzionare alla fine di questa esperienza di ogni singolo giovane, non all’inizio. Uno degli errori che facciamo sovente, e che ci possono insuperbire a torto, è, per esempio, che noi abbiamo una visione abbastanza pulita del processo europeo e allora ci mettiamo in uno stato d’animo di superiorità rispetto a tutti gli altri che sbagliano. Questo non è affatto giusto, perché il nostro giudizio sarà giusto se il federalismo diventerà una forza. Quindi, noi non possiamo usare schematicamente il federalismo come il criterio per unificare il materiale di informazione culturale che ciascuno acquisisce dalla vita.
La conclusione che io vorrei trarre è che noi dovremmo identificare gli schemi dei comportamenti più importanti della vita sociale. Dobbiamo intanto distinguere radicalmente la metafisica e la religione dalla visione politica-storica-sociale. La metafisica e la religione hanno come sfondo l’intera storia dell’umanità e quindi hanno dei legami con la storia molto diversi da quelli della politica. Prendete, per esempio, Einaudi, che è un tipico liberale e un tipico federalista: era cattolico. Quindi uno può essere cattolico e liberale, come può essere cattolico e fascista, ecc. Questo vale per qualunque esempio che si possa fare: le due cose non stanno sullo stesso piano. La stessa fede metafisica può proiettarsi verso diverse esperienze politiche e diverse esperienze politiche possono proiettarsi verso la stessa esperienza metafisica. Questo elemento della metafisica e della religione e quindi della filosofia ultima, non ha una relazione immediata con il federalismo perché non ha una relazione immediata con le battaglie che gli uomini devono comunque fare oggi per affrontare la situazione storica nella quale vivono. In qualche misura, la religione e la metafisica rispondono al problema del destino globale dell’uomo, non al problema del destino dell’uomo in questi cento anni. Per esempio, se ci occupiamo del pericolo atomico, questa è una cosa che viviamo, come uomini, in questa fase della storia e può essere che lo risolviamo oppure no. Se lo risolviamo, l’umanità vivrà e, se l’umanità vivrà, avrà di nuovo il problema metafisico del senso ultimo della vita, che non si risolve costruendo la pace. La pace è un fenomeno enorme, sarebbe il governo mondiale, ma è chiaro che una volta fatta la pace io muoio, mia madre è morta, mio padre è morto, e il senso della nostra vita sarà ancora e sempre da cercare. Bisogna quindi abbandonare il terreno della metafisica e della religione, che non è specifico dell’esperienza politica e bisogna identificare invece gli schemi dei comportamenti politico-sociali più importanti. Forse, la via giusta per avere un programma educativo dei giovani è proprio questa: fornire e discutere tali schemi. Non si può cominciare dal federalismo, bisogna arrivarci come punto finale.
Io penso che, invece di fare le conferenze tradizionali sul materialismo storico, sullo stato di diritto ecc., potremmo fare delle conferenze, delle riunioni, delle discussioni, intorno al concetto di comportamento politico, di comportamento economico, di comportamento giuridico. In fondo, prendiamo tutta la cultura che abbiamo nella testa come informazione: nel momento di tradursi in vita, in tecnologia, in operare, in ragion pratica, in vita morale, tutta questa cultura diventa comunque un comportamento politico, un comportamento economico, un comportamento giuridico. Quindi, è probabile che se noi cerchiamo di discutere con i giovani che cos’è il comportamento politico, che cos’è il comportamento economico, che cos’è il comportamento giuridico, allora quel materiale informativo, che arriva nel cuore del giovane ma tende a sterilizzarsi perché c’è la crisi delle ideologie, perché c’è la crisi dell’impegno politico, trova un punto di contatto con la realtà. Allora, per esempio, la rivoluzione francese e la rivoluzione sovietica non sono lì come parole, ma sono traducibili in comportamenti umani, perché sono un comportamento.
Penso quindi che ci voglia un programma di incontri con i giovani, focalizzati su alcuni punti (che forse non sono ancora del tutto coerenti, visto che la cosa è in corso di sviluppo e discussione). La politica è questo mistero. Quando, per esempio, siamo di fronte a Machiavelli tutte le persone audaci e intelligenti dicono che ha capito cos’è la politica. Quando siamo di fronte a un comportamento machiavellico tutte le persone dicono: «Quello è il demonio, io mi comporto in un modo del tutto diverso. Io non c’entro niente, non sono né un fraudolento né un violento e quindi con Machiavelli non c’entro niente». Questa difficoltà se l’è trovata di fronte persino Hegel, tanto che ha giustificato Machiavelli con l’unità italiana. Quindi, che cosa sia il comportamento politico in realtà la cultura non l’ha ancora stabilito. Allo stesso modo, non è che si sappia con chiarezza che cos’è il comportamento economico. La discussione è aperta. Generalmente, la scienza economica porta sull’economia come la scienza politica porta sulla politica. Ma portare sulla politica o portare sull’economia rischia di produrre un’ipotesi, di costruire un castello di carta con le parole. La realtà sono i comportamenti politici, i comportamenti economici, i comportamenti giuridici.
Questi sono i primi elementi da fornire. Questi schemi non esistono ancora, perché non esistono nella cultura e questa è la prova di come la cultura non sia più capace di legarsi alla vita. Non si lega più attraverso il mito come nel passato perché le ideologie sono in crisi e non si lega più empiricamente, vorrei dire scientificamente, perché non esiste lo schema del comportamento. Se quando mi comporto politicamente non so che cos’è un comportamento politico, è chiaro che la mia azione politica avviene nel buio. Se noi cerchiamo di elaborare nella discussione con i giovani l’idea del comportamento politico, economico e giuridico quel materiale di informazione che entra nella testa di un giovane di sedici anni si iscrive direttamente nella spiegazione della condotta che lui stesso terrà, e stabilisce un rapporto con l’azione.
Penso poi che, in un’ideale programma di educazione federalistica, lo sviluppo di questi tre elementi, che sono complementari, potrebbe andare lungo una direzione più specifica. In un certo senso, questo richiederebbe una discussione tecnica, ed eventualmente la faremo. Quando noi fissiamo le categorie, la definizione, anzi, per meglio dire, la tipologia del comportamento politico, economico e giuridico, noi siamo sul terreno delle disposizioni costanti ad agire in un certo modo che sono presenti nell’umanità. Gli uomini sono relativamente liberi e casuali, però in ogni caso hanno dei comportamenti politici, hanno dei comportamenti economici, hanno dei comportamenti giuridici. Questi comportamenti presentano certe regolarità, quindi sono pre-costituiti e, in un certo senso, non sono liberi, ma sono determinati: in ogni caso ci comporteremo politicamente. Questa è la determinazione che esiste. Quindi, questo può essere iscritto in quella zona della realtà storica da esplorare e da sviluppare teoricamente nella quale noi siamo in grado di giudicare, di conoscere e di agire secondo ragione, in qualche misura, perché abbiamo una qualche capacità di conoscere, o di riconoscere anche istintivamente, le disposizioni costanti dell’agire. Noi ci incontriamo qui, ci vediamo, ci salutiamo perché ciascuno di noi si aspetta da ciascun altro che certe disposizioni costanti di azione siano attivate. A livello della vita comune, questo non ci riguarda; riguarda psicologi, ecc. A livello di comportamento politico, del giudizio politico ecc., invece, ci sono delle disposizioni costanti ad agire che dobbiamo esplorare per stabilire quali siano, tra queste disposizione costanti, ad agire nell’umanità. Queste costanti dovrebbero probabilmente essere contenute nella sociologia ma non lo sono, perché queste scienze non sono ancora consapevoli di sé, di cosa è fatta la nostra vita. In questo contesto noi dobbiamo studiare la politica, l’economia e il diritto. Non avremo mai noi, oggi a Pavia, e nemmeno tra dieci anni nel mondo, una perfetta formulazione di che cosa è un comportamento politico, che cos’è un comportamento economico, un comportamento giuridico. Ma possiamo portarci su quel terreno, sapere che si tratta di costruire questi modi di pensare, avere un certo grado di sviluppo di questi modi di pensare. Questo non è un terreno dogmatico dove ci si cristallizza. È un terreno di scoperta dove le esperienze che si fanno migliorano i concetti che si hanno nella testa.
Si potrebbe, in seguito, passare al livello dei problemi che non hanno più questa caratteristica delle disposizioni costanti ad agire e che riguardano certi spaccati della storia e certe epoche storiche. Qui vedrei la ragion si stato e il materialismo storico in queste varianti che noi abbiamo un po’ studiato e che includono profondamente la filosofia della storia di Kant. Quando si entrasse più analiticamente [su questo terreno], forse converrebbe pensare a tre teste di capitolo: la ragion di stato, il materialismo storico e la filosofia di Kant. Queste non sono più disposizioni costanti dell’agire degli uomini, ma sono piuttosto disposizioni che gli uomini hanno assunto in certi momenti dello sviluppo storico. La ragion di stato è una disposizione umana che comincia a diventare attiva e [riconosciuta] con lo stato moderno, con la sovranità assoluta. Il materialismo storico diventa chiaro con la rivoluzione industriale, tant’è vero che anche Marx ha universalizzato degli elementi che erano tipici della rivoluzione industriale. Quando dice che la storia è la storia di lotta di classe, il tardissimo Engels se ne accorge, dice una sciocchezza, perché non è vero. Quando gli uomini erano nella fase della caccia e della pesca non erano divisi in classi e la storia non era affatto lotta di classe. Questo per notare che il materialismo storico è legato a un certo grado di sviluppo della storia e quindi non sono più le disposizioni costanti ad agire, ma certe disposizioni cruciali e strategiche della nostra epoca (lo stato moderno, quindi l’autonomia della politica). Prima che ci fosse lo stato moderno lo stato obbediva alla religione, almeno a livello della coscienza. La politica diventa autonoma con la sovranità assoluta, con lo stato assolutistico e via dicendo. Qui entriamo [nel merito] delle tipologie e dei criteri di comportamento che sono l’antecedente del federalismo. Dopodiché si può parlare delle ideologie e del federalismo.
Se tutti questi elementi sono acquisiti, e sono acquisizioni di orientamento, sono schemi che vengono riempiti dall’informazione culturale che uno riceve, allora, a questo punto, in questa graduatoria di temi, dovrebbe venire il federalismo. Questo ciclo di conversazioni, questo ciclo educativo, che poi si può naturalmente ripetere e approfondire, è in realizzato diventa questo: per un verso è un programma educativo per i giovani, per l’altro è il programma educativo di ciascuno di noi.
Credo, infine, che dobbiamo anche affrontare i temi dell’ecologia e della pace, perché non c’è educazione ad agire, non c’è in generale educazione, senza che un punto di vista nuovo riesca a stabilire il terreno su cui dialoga con gli altri. [Nel passato], per esempio, era più facile, in un certo senso, perché le ideologie tradizionali non erano in crisi, noi avevamo degli schemi che consentivano ai giovani che venivano con noi di discutere con i liberali, con i socialisti e con i democratici. Questo faceva sì che il tipo di educazione del federalista fosse un tipo di educazione [aperto] a un certo tipo di dialogo, non un solipsismo, una specie di monismo, dal quale nasce una superbia, un senso di superiorità e poi la morte. Oggi, questo terreno di dialogo con gli altri, che è indispensabile perché la cultura si conclude nel dialogo, questo terreno di confronto con gli altri chiaramente coincide coll’ecologia e la pace. Non è un caso che passiamo da un dialogo che è imperniato sul confronto ideologico, a un dialogo che si manifesta su un terreno concreto, perché le ideologie non dicono niente e le grandi sfide del mondo passano effettivamente attraverso l’ecologia e la pace. L’ecologia è rudimentale, l’ecologismo come si fa oggi è di una stupidità incommensurabile, ma così era il socialismo prima di Marx e non c’è niente di sorprendente in questo. Il pacifismo è altrettanto stupido, però è su questo terreno che l’umanità ha un avvenire.
Ho l’impressione che, riuscendo a fare un programma di questo genere si dovrebbe acquisire la capacità di imprimere un orientamento attivo al materiale informativo che comunque uno riceve dalla vita, e stabilire il terreno del dialogo con gli altri. Penso che questo possa essere uno schema di educazione federalistica che, grosso modo, se sperimentato a Pavia, può diventare il modello, lo schematismo, nel senso kantiano quasi, del nostro rapporto con la cultura, con la formazione.
Pavia, 4 novembre 1986
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