Il futuro dell’Unione europea si gioca (anche) sulla politica regolatoria

, di Alessandro Dell’Orto

Il futuro dell'Unione europea si gioca (anche) sulla politica regolatoria
Foto di u_sf2q0n59vt da Pixabay

Il Mercato Unico è la singola cosa su cui l’Unione europea riesce ad avere un impatto davvero rilevante, ma pensare di gestirlo per soli divieti è come cercare di preparare una torta usando una mano sola: è possibile ma inutilmente difficile, e il rischio è di fare un gran pasticcio.

L’Unione europea nasce sull’idea di mercato unico ed è infatti su questo che riesce a fare davvero voce grossa, sia internamente che esternamente. Se sulla politica estera, l’immigrazione, le politiche del lavoro, la difesa, l’energia e molti altri ambiti l’Unione si mostra come il classico “nano politico”, quando si parla di mercato interno l’Unione riesce ad avere, nel bene e nel male, una grande rilevanza.

Le più recenti politiche europee hanno avuto un grosso impatto sia sulle aziende che nascono e si sviluppano all’interno del territorio comunitario sia su quelle che da fuori si inseriscono nel mercato, dalle più piccole fino alle Big tech statunitensi e cinesi.

Basti pensare, rispetto a queste ultime, agli effetti delle norme in tema di protezione dei dati (GDPR in primis) sui social media, i servizi di messaggistica, i servizi di cloud storage e in generale sull’esperienza utente di qualsiasi sito web. Ma anche al più lapalissiano risultato della Direttiva relativa al caricabatterie standardizzato sui dispositivi Apple. Vedremo poi nei prossimi anni quali effetti sortirà il più recente AI Act che andrà a normare e regolare un settore cruciale per lo sviluppo tecnologico mondiale.

Per quanto riguarda gli effetti su chi opera all’interno dell’Unione, si può menzionare il phase out dei motori termici entro il 2030 (anche se non è detto sopravviverà alla prossima legislatura) o le Direttive riguardanti la sicurezza e l’origine dei prodotti alimentari e ancora la nuova Politica Agricola Comune (PAC), con le enormi proteste che ne sono scaturite. Infine si può ricordare il grande dibattito che ci fu sul tetto al prezzo del gas nell’estate-autunno del 2022.

Una politica industriale a metà

Si può dire che la politica industriale abbia due braccia: uno che garantisce o proibisce, e uno che incentiva o disincentiva. Al momento il primo è mosso primariamente dall’Unione e il secondo dagli Stati nazionali.

Esclusi i 385 milioni di Euro della PAC, l’UE ha previsto nel bilancio di lungo termine 2021-2027 una spesa in investimenti strategici nel mercato unico di soli 40 miliardi circa (fondi del Next Generation EU inclusi). Non avendo una vera e propria capacità di spesa centralizzata, finanziata da gettito fiscale e/o emissione di debito, non è possibile per l’Unione prevedere incentivi e disincentivi economici, sussidi, aggravi e sgravi fiscali, investimenti.

Quello che le resta possibile fare, quindi, è obbligare, proibire, concedere, vietare.

Una politica regolatoria fatta di imposizioni e non di incentivi spesso garantisce sicurezza ma non sviluppo. Ad esempio, i cittadini possono dirsi sostanzialmente sicuri in termini di protezione dei loro dati personali ma non di essere motore di un sistema industriale realmente competitivo nel digitale, se non per alcuni casi eccezionali. Chi vuole fare impresa in Unione europea deve interfacciarsi con 27 sistemi e normative fiscali diversi e allo stesso tempo con una serie di impedimenti, regole, norme, limiti generali in cui districarsi e in cui rischiare di inciampare.

Un sistema di incentivi, per un’impresa, è un problema di costi; mentre un sistema di norme e divieti è questione di finire o non finire in un’aula di tribunale. Un divieto può diventare un disincentivo non alla singola pratica dannosa, ma all’intera attività di impresa.

Qualche esempio specifico

Un’analisi di questo tipo è stata fatta di recente nell’articolo “Il Green Deal tra reticenze e interessi contrastanti” di Alessandro Casorella, in cui spiega le criticità nate dall’approccio fortemente normativo del Green Deal rispetto alle politiche industriali messe in atto da Paesi come Indonesia, Cina e USA.

In generale si può argomentare che ci sono molti casi (questo del Green Deal, ma anche il sopracitato phase out dei motori termici) in cui volendo raggiungere obiettivi in termini di sostenibilità e riduzione delle emissioni, ma privi di strumenti fiscali adeguati, si è sacrificata la competitività delle aziende europee e l’attrattività del mercato unico.

Ci sono poi altri casi in cui Direttive e Regolamenti si sono rilevati semplicemente inattuabili. È il caso di alcuni aspetti del GDPR, il Regolamento europeo sulla protezione dei dati. Le sentenze Schrems I e II hanno stabilito che gli Stati Uniti e le aziende americane non garantiscono livelli di protezione dei dati e di tutela dei diritti fondamentali adeguati alle attuali norme europee. Ciononostante, a quattro anni da Schrems II, i servizi digitali più utilizzati in UE restano quelli dei colossi statunitensi.

Questo, di nuovo, perché l’Unione europea non è in grado di mettere in atto una vera politica industriale che incentivi lo sviluppo di aziende autoctone che possano operare in conformità a tali regole. Ed è di nuovo questa forte regolamentazione a disincentivare lo sviluppo di nuovi servizi, proprio perché è complicatissimo rispettarla. Il risultato è un congelamento allo status quo degli ultimi decenni.

Una sfida cruciale

Il Mercato Unico è la singola cosa su cui l’Unione europea riesce ad avere un impatto davvero rilevante. Se vogliamo che si crei consenso nei confronti di un aumento di competenze da parte dell’UE bisogna che la sua politica riesca ad essere efficace nelle sue attuali competenze principali. Farlo “con un braccio solo” rende tutto molto più complicato.

Dovesse fallire anche in quell’unico campo in cui può fare la differenza sarebbe difficile per l’Unione giustificare un aumento di competenze. Sarebbe probabilmente auspicabile, per la prossima legislatura, un cambio di rotta. Non negli obiettivi (la transizione ecologica, la tutela dei diritti, la sicurezza dei servizi digitali) ma nell’approccio, in modo che il raggiungimento di questi ultimi non ostacoli chi vuole operare e crescere all’interno del mercato europeo.

Per questo è fondamentale parlare ancora, dopo 70 anni, di integrazione del Single Market e chiedere a gran voce di affiancare alla politica regolatoria una vera politica industriale e fiscale. Oltre che estenderlo a quei settori (energetico, delle telecomunicazioni, dei servizi finanziari, ecc.) che ancora rimangono distinti su base nazionale.

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