Il cacao è diventata un tipo di pianta che trova profitto nell’esportazione, in particolare verso i paesi europei, che rappresentano “The European Union is the world’s largest importer of cocoa, accounting for 60% of world imports”, secondo il rapporto ITC del 2020. Allo stesso tempo, la produzione di cacao è estremamente concentrata e si è spostata. Ad oggi, il 70% della produzione globale di queste piantagioni è prodotta in Ghana e Costa d’Avorio. Questo vuol dire che, da un lato, è diventata una delle risorse principali di questi due paesi, ma d’altro lato ha generato un sostanziale impatto ambientale sulla varietà delle colture nei due paesi africani.
La discussione si è riaccese, recentemente, sin dal caso dell’olio di palma e il suo largo uso nell’industria alimentaria – nuovamente, specie in quella dolciaria – anche occidentale. Le piantagioni dedicate si trovavano soprattutto in paesi in via di sviluppo e la preferenza di queste piante ad alta redditività per l’esportazione aveva soppiantato le principali fonti alimentari locali, innescando un ciclo negativo per i paesi in via di sviluppo, che avevano concentrato la loro produzione, togliendo fonti di supporto alimentare per l’agricoltura dedita alla domanda interna e per la pastorizia, laddove presente.
Il cacao non è dissimile, seppur il problema è concentrato principalmente nei paesi produttori principali – ovvero Ghana e Costa d’Avorio. La produzione, a questa concentrazione e consumo, rischia di essere dannosa per l’ambiente dei due paesi, e porta a diversi problemi di natura economica – chi incassa davvero i redditi d’esportazione del cacao? Gli agricoltori o le grandi compagnie? – e di sfruttamento di lavoro minorile. Poiché l’Unione europea è l’importatore principale di cacao, in qualche modo sul tavolo della Commissione anche questo dossier ha trovato spazio, perché probabilmente è proprio nei casi così specifici, quasi minori rispetto al grande piano generale della sfida ambientale, che i proclami come la Convenzione di Parigi e le convenzioni sulla trasparenza e la sostenibilità del modello economico, trovano un risvolto pratico.
I due paesi africani e la Colombia hanno sottoscritto con trentaquattro grandi compagnie la “Cocoa and Forest Initiatives” (CFI), che mira a rendere trasparente e sostenibile la produzione di questo ingrediente essenziale per l’industria dolciaria. L’uso di piante diversificate, la mappatura degli agricoltori di cacao all’interno dei paesi produttori, sono alcuni degli obiettivi portati sul campo da parte di gruppi come Unilever, responsabili di produzione, trattamento e trasferimento del cacao da una parte all’altra dell’oceano.
Basta? La Commissione europea ha disposto due meeting, due tavoli di confronto sul tema, il primo a ottobre 2020 e il secondo questo mese, luglio 2021. Ad autunno 2021 è prevista una sessione plenaria ad hoc dei due tavoli, per discutere le proposte che verranno fuori e che dovrebbero convergere sulle tematiche di contenimento dello sfruttamento del lavoro minorile nella produzione di cacao, nella diffusione di pratiche scorrette nelle piantagioni, la mappatura, la diffusione di nuove pratiche sostenibili tanto in Europa che nei paesi produttori. Il tutto, secondo il progetto della Commissione, sotto l’egida del Green Deal, che svolge in questo caso il ruolo di framework di riferimento.
Siamo dinanzi uno sforzo, quindi, che tramite un mirato intervento tenta di ristabilire l’equilibrio in un sistema di produzione che, nonostante tutto, appare ad oggi tendenzialmente insostenibile tanto dal punto di vista ambientale che da quello economico.
Riflessioni come quelle condotte sul mondo del cacao e sulla sua filiera produttiva saranno sempre più necessari, col tempo, anche su alte filiere produttrici, in particolare quelle di frutta esotica. Sempre più paesi, in particolare in via di sviluppo, preferiscono sfruttare il terreno agricolo per produrre frutta – ma non solo – che può essere venduta facilmente nel mercato internazionale ma che ha gravi ripercussioni sulla struttura socioeconomica locale e ambientale. Consumano acqua, tolgono spazio per le agricolture di sussistenza locali, soppiantano la vegetazione locale con altra modificata ad hoc per essere più profittevole.
Il cambiamento a pratiche di agricoltura sostenibile, che abbiano impatti positivi sulla popolazione locale, è possibile grazie a un intervento che sia tanto localizzato sui paesi produttori – come ha fatto la World Bankfinanziando con 75 milioni la Repubblica democratica del Congo per sostenere gli agricoltori locali, ma anche nei paesi consumatori, come quelli europei. Lavori come quelli svolti dalla Commissione aiutano a creare una filiera più equa, ma devono essere sostenuti nel tempo perché tale cambiamento si realizzi in maniera graduale – altrimenti, rischierebbe di essere economicamente insostenibile tanto per l’apparato industriale europeo che per gli stessi agricoltori in Costa d’Avorio – e soprattutto in maniera giusta.
Non è possibile, infatti, ragionare su questi possibili cambiamenti della produzione agroalimentare senza tenere saldamente in mente la necessità di realizzare una transizione giusta, per tutti, come anche i Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite stressano nei diversi punti della loro agenda. La possibilità di raggiungere i diversi obiettivi è assolutamente, ancora, alla portata. Richiede un impegno costante, anche apparentemente piccolo come un intervento nel mercato del cacao, che pure in questo caso apparirebbe come una goccia in un mare di problemi che l’alleanza per il clima, le ONG dedicate e gli stati devono affrontare. Però, impegni come quelli presi dalla Commissione Europea sono una prima, buona direzione per affrontare uno ad uno tutte le sacche di insostenibilità che centinaia e centinaia di filiere produttive contemporanee rappresentano e che, se vogliamo garantire un futuro, innanzitutto la sua esistenza, e poi la sua equità e sostenibile, vanno affrontate.
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