Il nazionalismo viscerale: sopravvivere ad una società che non sa più dialogare e costruire

, di Diletta Alese

Il nazionalismo viscerale: sopravvivere ad una società che non sa più dialogare e costruire

A volte bisogna allontanarsi di un passo dall’analisi del tutto per interrogarci sul nostro percorso, osservando quest’ultimo più di tutto il resto. Si tratta pur sempre di un’analisi ma forse più difficile perché ci riguarda in prima persona e ci obbliga a rimetterci in discussione. È difficile infatti cercare di rimanere dritti, già legni storti, in un contesto che comprime le anime e non lascia loro tempo di esistere. A volte l’urgenza della lotta si traduce in violenza del messaggio e deforma anche coloro che si sono svegliati con quelli che chiamavano “migliori intenti”. Non ci si accorge della brutalità del contesto che ci circonda e della sua forza corruttiva forse fin quando non corrompe anche noi, spegnendo la voglia della lotta o trasformandola in un demone incapace di vedere, sentire, toccare, dialogare, distorcendo i valori e piegandoli al giogo dell’odio.

È una sensazione che spesso porto a casa dai dibattiti, in cui si scontrano impressioni manichee impedendo la creazione di relazioni, ognuno sul trespolo tremebondo delle proprie convinzioni, con il solo obiettivo di seminare proseliti per un giorno, o un secondo, piuttosto che riflessioni di valore per una lunga durata. Riflessioni che potrebbero rimanere irrisolte sul momento ma che, una volta sedimentate, costituirebbero le premesse di un nuovo comportamento politico volto all’interesse e alla crescita comune. È lo stesso meccanismo con cui si confinano nei discorsi e nella prassi alcuni valori, subordinandoli ad altri parametri che li svuotano. La libertà sola, senza universalità; la giustizia sociale, ma solo all’interno di uno Stato; il rispetto dei diritti umani, ma solo per i cittadini del mondo di qua; occupazione, ma solo per gli Italiani. Tutto questo in un contesto in cui i fenomeni e le sfide che ci attendono al di là della porta non conoscono confini o divisioni di sorta. È il futuro di una comunità di destino che non si è ancora (ri)conosciuta ad essere messo in discussione. Quando perdiamo la capacità di dialogo e irrigidiamo le nostre posizioni produciamo lo stesso tipo di distorsioni. Le nostre idee diventano totalizzanti e, pur non essendoci a volte nulla di male (in sé) nel valore che poniamo avanti il nostro naso, lo abbrutiamo elevandolo a mantra universale e perdendo la capacità di calarlo non solo nel contesto globale ma anche nella dialettica politica. Non interpretiamo più il mondo per cambiarlo, attiviamo semplicemente lo scontro. Fa paura realizzare di riprodurre nella nostra quotidianità le stesse aberrazioni di un mondo forgiato sulla guerra, sull’interesse delle piccole e grandi potenze e sull’anarchia alimentata dal nazionalismo. Ci ritroviamo ad essere complici del mostro che stavamo combattendo o che non avevamo capito di dover combattere.

Il contesto politico e sociale in cui viviamo ci sta lacerando, la verità è che stanno vincendo. Il nuovo comportamento nazionalista sta diventando prassi, con Trump, Johnson, Orban, Erdogan, Bolsonaro e l’elenco è ancora lungo, fitto di nomi che producono nuove verità con cui dobbiamo e dovremo fare i conti ogni giorno. Perché l’odio è ormai sdoganato, spesso istituzionalizzato ed è sceso fin nelle viscere della terra, dove si muovono i passi degli ultimi, mischiati a quelli dei primi. La tensione è diventata pane quotidiano e senza bussola, in un’Odissea che non ha parole, abbiamo perso l’indicazione maestra delle grandi narrazioni in un mondo attraversato dai fenomeni più grandi, globalizzati e veloci, senza istituzioni democratiche in grado di rispondervi e senza una resilienza e coscienza sociale (ancora) tale da poterle creare. Lo Stato nazione è morto. Lo Stato nazione vive. Come nella peggiore delle favole, tutte le profezie proclamate, mai silenziosamente ma sempre con tronfia e “assurda” (così ci siamo stupiti) convinzione si sono (auto)avverate. Il presunto conflitto interetnico, il baratro del cambiamento climatico, i nuovi nazionalismi, l’abitudine alla morte e alla miseria, l’aridità della percezione. Allora ripartendo da questo, dobbiamo essere capaci di ribellarci, fermi nelle idee e saggi nelle risposte, capaci nelle azioni e pronti a condividere le nostre risorse. Due parole dovranno accompagnarci in questo 2020: scegliere e resistere. Un’altra dovrà sostenerle: insieme.

L’analisi di questo contesto a volte spinge i più infimi o i più prepotenti un gradino più in alto e uccide la spinta con cui si è diventati curiosi, soffoca la voglia di interpretare per trasformare, traendo nell’inganno di “chi sa” senza più saper guardare. Così il mondo rimane diviso tra quelli che producono odio, quelli che lo subiscono e quelli che sanno solo nominarlo. Nel mezzo, l’energia irrisolta di migliaia di ribelli che ancora non si sono incontrati. La stanchezza della lotta contro i giganti, che non sono mai stati mulini, della forza bruta che ci viene incontro, è distruttiva. È il peggiore dei moniti orwelliani a svegliarci ogni mattina schioccando i suoi rintocchi. Sono necessarie nuove risorse e nuovi strumenti e un nuovo senso di comunità, dalla persona al collettivo, dal collettivo alla persona in un ciclo positivo, uno scambio nuovo che ci renda capaci di lottare senza finire per sfinirci. È finito invece l’anno e diventa tempo di intenti. È la banalità delle convenzioni che a volte risveglia dei vecchi ingranaggi nascosti tra il flusso dei presenti a cui questo tempo ci costringe. Costruiamo insieme un mondo migliore, il migliore dei mondi possibili. Le basi esistono e fermentano nella società civile, tra le università, nei movimenti, tra le strade ancora slegate da qualsiasi simbolo se non quello dei valori, tra i cortei femministi e i Fridays For Future. Uniamo i punti e leghiamoci. Risvegliamoci dal torpore e dal grigio in cui hanno costretto a confinarci. Strappiamoci di dosso i vestiti della complicità che ci ritroviamo cuciti su misura. Rimanere giusti non è facile, ma resistere è un dovere, riconoscendo il fallimento delle storie, nostre e universali e ripartendo da quello, con la pazienza di formiche leali che sanno riconoscere il valore dei granelli di sabbia.

Le energie migliori dove sono? Dai federalisti, agli attivisti per i diritti, ai giovani per le strade, ai movimenti femministi, a quelli ambientalisti, ai dottorandi nelle università, agli studenti e alle studentesse nei licei, a tutte le persone impegnate nel sociale, ai saggi che sanno sostenerli, a coloro che non delegano alla sola nuova generazione il dovere di cambiare il loro futuro, a quelli che ancora credono di poter costruire un mondo degno di una storia nuova, che è radicata nella memoria e sa riconoscersi anche dopo mille anni, scavando nelle fratture del tempo e nel dolore che, come uomini, abbiamo provocato. Una memoria che è scelta, una resistenza che si fa memoria.

Allora non lasciamoci corrompere, investiamo ogni minuto ed ogni energia nella costruzione di questa nuova lotta. Dovremo mettere in discussione il modo con cui ci confrontiamo, presi dall’urgenza di trasmettere qualcosa. Dovremo mettere in discussione le priorità che avevamo assegnato alla nostra stessa vita. Dovremo ascoltare i nostri maestri e le nostre maestre, senza ridurli a feticci impolverati, col coraggio di provare ad insegnare qualcosa di nuovo al nostro tempo. Sarà un’operazione dolorosa, significa estirpare il nazionalismo viscerale che sedimenta dentro di noi, anche quando non ne siamo coscienti. Nessuno lo farà al posto nostro e tra qualche anno, quando il sipario sarà calato, non ci sarà data una seconda possibilità per aprire gli occhi.

Ci aspetta un mondo nuovo, quello che saremo in grado di creare dalle macerie di uno che sta andando in fiamme. Da prospettive diverse, da percorsi diversi, da errori e fallimenti diversi, ma dobbiamo farlo. Non confiniamoci nei nostri cortili, apriamo le frontiere del dialogo per non rassegnarci ad un mondo che si sta lasciando avverare. E chiudiamo gli occhi, ripartiamo dal fondale del nostro mare, dove i morti sussurrano la direzione di una nuova corrente e ci dicono che, sebbene non potranno mai perdonarci, sceglieranno ancora di essere dalla nostra parte se saremo all’altezza delle loro speranze interrotte.

Fonte immagine: Pxhere.

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