Il concetto di cittadinanza: definizione e modalità di acquisizione
Il concetto di cittadinanza è considerato, secondo la classica sentenza della Corte internazionale di giustizia del 6 aprile 1955 sul caso Nottebohm, come a legal bond having as its basis a social fact of attachment, a genuine connection of existence, interests and sentiments, together with the existence of reciprocal rights and duties [1]. La cittadinanza rimanda quindi al «vincolo di appartenenza di un individuo ad uno stato» [2], che garantisce «l’uguaglianza di diritti per tutti i cittadini all’interno di una comunità politica, così come una serie di corrispettive istituzioni che facciano da garanzia di questi diritti». Parlare di cittadinanza rinvia infatti alla possibilità di acquisire, formalmente, diritti civili, politici e sociali garantiti dallo stato. Se definito rispetto alla questione migratoria il concetto assume particolare rilevanza. Il passaggio da una concessione della cittadinanza per singoli individui a un diritto garantito per un insieme di soggetti è emersa in maniera più evidente a seguito della sedimentazione di segmenti di popolazione straniera nei paesi ospite. Sebbene i criteri che ispirano la normativa in materia di cittadinanza di tutti i paesi siano per lo più lo ius soli, il diritto di cittadinanza per tutte le persone nate sul territorio, e lo ius sanguinis, il diritto ad ottenere la cittadinanza quando si ha almeno un genitore con la cittadinanza di quello stato, ogni paese ha una legge diversa. Essi adottano uno o l’altro principio o una legge intermedia tra i due, come nel caso della naturalizzazione. Quest’ultima rimane il processo prevalente con cui i cittadini originari di Paesi terzi sono divenuti italiani, questa permette allo straniero proveniente da un paese al di fuori dell’Unione Europa di richiedere la cittadinanza italiana dopo dieci anni di residenza in Italia, ridotti a quattro anni per i cittadini di Paesi dell’Unione Europea [3]. Per ottenere la cittadinanza attraverso la naturalizzazione bisogna dimostrare di aver ottenuto particolari requisiti, come l’anzianità di presenza sul territorio, la conoscenza della lingua, aver partecipato ad un percorso di integrazione, non avere precedenti penali, avere dei requisiti economici. La maggioranza degli ordinamenti dell’Ue segue dunque lo ius sanguinis, ma in alcuni casi ad esso si sommano applicazioni più o meno ampie dello ius soli, che prevede regole diverse a seconda dei singoli paesi. Oltre che attraverso la nascita, (ius sangiuinis e ius soli), esistono altre modalità di acquisizione della cittadinanza, come lo ius connubii che permette l’ottenimento della cittadinanza del paese ospite a seguito del matrimonio contratto con un cittadino di quel paese, lo ius culturae, ovvero il riconoscimento della cittadinanza ai bambini nati nel paese ospite che completano un ciclo scolastico o l’ottenimento della cittadinanza per merito particolare.
L’invenzione del nazionalismo
Il concetto di cittadinanza si è evoluto nel tempo.
Se si pensa alla Roma antica, si ricorda che ad avere diritti era soltanto colui che possedeva lo status di cittadino romano. Lo status di cittadino era riservato solamente a chi abitava la città che poteva quindi godere dei relativi diritti. Soltanto più tardi con l’Imperatore Antonino (86 d.C.) lo status di cittadino romano venne esteso a tutti gli abitanti dell’Impero. Non si è legati, quindi, al concetto di cittadinanza per ragioni etniche o naturali ma grazie al confine legale che si ha con lo Stato; anche il concetto di Stato è mutato nel tempo e non ha sempre coinciso con il concetto di nazione.
Prima della Rivoluzione francese, infatti, l’idea di nazione era espressa da un “Re-Divino”, per cui il potere politico e quello religioso si sovrapponevano. Il collante sociale era quindi costituito dal potere religioso. Al concetto di nazione corrispondeva soltanto il luogo fisico di nascita di una persona, mentre si viveva in Stati multinazionali nei quali i sudditi si riconoscevano, fedeli alla dinastia regnante per “grazia di Dio”. Solo dopo la Rivoluzione francese si crearono le basi della giustificazione ideologica del primo Stato nazionale. L’idea di nazione non è dunque naturale, non siamo legati ad essa dalla consanguineità, ma è stata costruita nel tempo.
Con la Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino [4] si iniziò a parlare di nazionalità. La Dichiarazione del 1789 infatti, sancì il principio di uguaglianza tra i soggetti di diritto; come si evince dall’articolo 1, «tutti gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti» e dall’articolo 3 della Dichiarazione, «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione». In questo momento storico si iniziò a parlare di nazionalità e tale fenomeno iniziò ad influenzare la materia della cittadinanza. Dopo la Rivoluzione francese, quindi, i nazionalismi iniziarono a creare l’idea di nazione come strumento di competizione per la lotta egemonica sul continente europeo. Con l’epoca romantica si arrivò ad un cambiamento radicale che investì la natura stessa del concetto di nazione e successivamente di cittadino, non più elemento di integrazione politica di tutti gli uomini. Il principio di nazionalità fu così strumento di identificazione reciproca di un popolo, attraverso la valorizzazione delle sue specificità storiche e culturali. Allo stesso tempo, però, tale atteggiamento cominciò ad essere anche ragione di discrimine, la cittadinanza venne legata all’aspetto culturale ed etnico del popolo nazione; venne cioè fatta coincidere con la nazionalità. La nascita di un individuo in un appartenente ad una specifica nazione costituisce, dunque, una costruzione politica e sociale ed è proprio il fenomeno migratorio a metterne in evidenza il limite.
La cittadinanza negata
Sono le categorie sociali meno tutelate, come i migranti, ad essere penalizzate dai criteri stringenti di ottenimento della cittadinanza che comportano la mancanza di garanzia dei relativi diritti. Facendo riferimento a queste categorie, per le quali si ravvisa la mancata coincidenza tra uguaglianza formale e sostanziale, sono stati infatti coniati i termini di cittadinanza negata, limitata e separata; il mancato riconoscimento della cittadinanza è uno dei problemi che i migranti – anche dopo anni di residenza nel paese ospite – devono affrontare. La situazione critica riguarda soprattutto i figli di immigrati che hanno studiato nel paese ospite e non hanno diritto ad accedere alle professioni per le quali si sono formati o di partecipare alla maggioranza dei concorsi pubblici.
In condizioni ancora peggiori si trovano i minori che arrivano nel paese ospite, piccolissimi con i genitori, o per i ricongiungimenti familiari: vivono e crescono nel paese, frequentano le scuole, ma per diventare cittadini e quindi godere dei loro diritti, dovranno seguire, a partire dai 18 anni, lo stesso percorso burocratico degli immigrati stranieri adulti.
La cittadinanza europea come tutela dei diritti fondamentali. Il caso Zambrano
L’evoluzione del concetto di cittadinanza nell’epoca globalizzata ha portato alla creazione della cittadinanza europea, la prima forma di cittadinanza sopranazionale (unica nel mondo, nessun progetto di organizzazione regionale ha concesso uno status del genere). Questo tipo di cittadinanza derivata, introdotta nel 1992 dal Trattato di Maastricht sull’UE, si aggiunge senza sostituire le cittadinanze degli Stati Membri [5]. In questo modo gli ordinamenti nazionali non hanno più potere esclusivo e viene superata la concessione che i diritti discendano dall’appartenenza politica a un determinato Stato.
Tale status è enunciato nell’art. 9 del TUE ed è disciplinato negli artt. 20-25 del TFUE. Gli articoli 39-46 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 (riadottata il 12 dicembre 2007) completano il quadro normativo in materia di cittadinanza europea [6]. La Direttiva sulla cittadinanza 2004/38/CE e l’ art.20 TFUE stabiliscono i criteri di ottenimento della cittadinanza europea e i diritti che questa comporta, come il diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri; il diritto di ciascun cittadino europeo di fare ingresso e di soggiornare nel territorio di qualsiasi altro Paese membro e il connesso diritto di esercitare la propria attività lavorativa; la possibilità di chiedere il ricongiungimento dei propri familiari di qualsiasi altra nazionalità. Possedere la cittadinanza europea permette anche l’elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo e la protezione diplomatica anche da altri Stati membri. L’esercizio di tali diritti si basa sull’applicazione del principio di non discriminazione. Tutti i diritti della cittadinanza europea sono accomunati dal riconoscimento ad ogni cittadino dell’Unione del diritto ad un eguale trattamento rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione [7]. I diritti di circolazione e di soggiorno già esistevano con i trattati di Roma (1957), prima di Maastricht, ma erano legati esclusivamente ad un criterio economico. Esisteva, infatti, il diritto di circolazione negli stati membri solo se una persona esercitava un’attività di lavoro in un altro stato membro; solo dopo Maastricht venne esteso anche agli studenti o ai pensionati e si cominciò a parlare di cittadinanza europea.
Il superamento dei confini nazionali in materia di cittadinanza verso l’idea di una cittadinanza universale fondata sul superamento della dicotomia tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino ha portato, quindi, alla creazione del concetto di cittadinanza europea che diviene mezzo di produzione di diritti. Se si osserva la giurisprudenza della Corte europea in materia di cittadinanza si comprende come la cittadinanza europea abbia avuto un ruolo decisivo nella tutela dei diritti fondamentali dei migranti di seconda generazione. Il caso Zambrano [8], la cui sentenza rappresenta una vera e propria svolta nella giurisprudenza della Corte di Giustizia relativamente alla materia in questione, riguarda la richiesta di due coniugi colombiani di ottenere un permesso di soggiorno in Belgio. Gerardo Ruiz Zambrano decise, infatti, di lasciare la Colombia a causa della guerra civile e andò a vivere in Belgio insieme alla moglie. Seppure l’ordine di abbandonare il territorio fosse seguito da una clausola di non rimpatrio in Colombia a causa della situazione di perdurante guerra civile nel paese, i coniugi non ottennero il riconoscimento del diritto d’asilo in Belgio. Nonostante le difficoltà, i due coniugi stabilizzarono la loro condizione di residenti e il signor Zambrano cominciò a lavorare stabilmente. Durante la permanenza in Belgio, la coppia diede vita a due bambini. Poiché questi ultimi nacquero in territorio belga e i due genitori non intrapresero alcuna iniziativa perché fosse loro riconosciuta la cittadinanza colombiana, i due bambini furono considerati cittadini belgi e dell’UE. I giudici dovettero stabilire se attribuire ad un cittadino di uno Stato terzo, con a carico figli minori e cittadini di uno Stato membro e quindi dell’Unione, un diritto di soggiorno nello Stato di cui questi ultimi erano cittadini ed un’esenzione dal permesso di lavoro. Se tradizionalmente la Corte di Lussemburgo ha collegato i diritti dei cittadini dell’Unione all’esercizio della loro libertà di circolazione all’interno, con la decisione in esame, invece, si compie una rivoluzione, in quanto il diritto di cittadinanza dell’Unione viene slegato dalla libera circolazione fra Stati membri. Con la sentenza Zambrano, la Corte inizia dunque a trattare la cittadinanza dell’Unione come diritto ex se. La Corte ridisegna i confini dell’art 20 TFUE e l’ampiezza dei diritti connessi allo status di cittadino dell’Unione. Per essere cittadini dell’Unione europea, bisogna essere cittadini di uno degli Stati membri, e questi ultimi sono competenti nella determinazione dei requisiti per l’acquisto della cittadinanza. In quanto cittadini belgi, i figli del Signor Zambrano sono indiscutibilmente cittadini dell’Unione. Essendo la cittadinanza dell’Unione lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri l’art. 20 TFUE deve essere letto nel senso che impedisce restrizioni al godimento pieno ed effettivo dei diritti connessi a tale status. Secondo la Corte, dunque, un diniego del diritto di soggiorno al genitore cittadino di un paese terzo, che abbia a carico due minori cittadini di uno Stato dell’Unione, rappresenta un’eccessiva compressione dei diritti di questi ultimi connessi alla cittadinanza dell’Unione e un ostacolo al pieno ed effettivo godimento degli stessi. Al soggetto cittadino dello Stato terzo non deve essere nemmeno negato il permesso di lavoro, perché rischierebbe, altrimenti, di non disporre dei mezzi necessari per far fronte ai bisogni primari dei minori a carico.
La Corte di Giustizia, abbandonando una visione plurinazionale dell’idea di cittadinanza dell’Unione per una unitaria ed europea, ha adottato una decisione rivoluzionaria. Se in passato, infatti, la cittadinanza dell’Unione era lo strumento per promuovere il godimento dei diritti connessi allo status di cittadini di uno Stato membro, con la sentenza Zambrano la cittadinanza europea finisce per fungere da pilastro per la protezione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta di Nizza e dalla CEDU.
Verso una ridefinizione del concetto di cittadinanza
Affinché tutti possano godere degli stessi diritti a prescindere dall’appartenenza ad un territorio (jus soli) o ad una stirpe (jus sanguinis), risulta necessario ripensare e ridefinire il concetto di cittadinanza, slegandolo dal criterio etnico della nazionalità. Questo identifica la partecipazione alla comunità politica (con il godimento dei relativi diritti) con l’appartenenza ad una data nazionalità, sovrapponendo una categoria prodotta artificialmente ad una categoria fondata sulla casuale nascita in un territorio e all’interno di una stirpe. La sovrapposizione fra “cittadinanza” e “nazionalità” conduce ad un concetto chiuso di cittadinanza che diventa ragione di discrimine. Si è visto, tuttavia, che quest’ultimo è evoluto nel tempo e che esiste un nuovo modello di cittadinanza sovranazionale, quella europea, che riconosce la pluri-appartenenza dell’uomo a più contesti scoiali, questa infatti non si sostituisce a quella nazionale, ma aggiunge un ulteriore livello di appartenenza. Se da una parte, tale modello di cittadinanza costituisce un primo passo verso l’istituzione di una cittadinanza universale dalla quale possa scaturire il riconoscimento a tutti dei medesimi diritti fondamentali, dall’altro presenta alcuni limiti e deve essere ridefinito. Non esiste infatti un criterio uniforme per diventare cittadini europei; la cittadinanza diviene questione particolare dello Stato che ne determina le modalità di acquisizione. Oggi si diventa cittadini europei perché si è prima cittadini di un Paese membro, secondo norme non condivise e differenti da Stato a Stato, che si conformano ai vecchi principi di jus soli e/o jus sanguinis e prevedono processi di “naturalizzazione” più o meno lunghi [9].
A noi spetta il compito di definire una nuova forma di cittadinanza europea pensata per gli immigrati presenti stabilmente sul territorio dell’Unione europea e acquisibile senza passare attraverso la cittadinanza nazionale. Riconoscere direttamente la cittadinanza europea, quindi anche il diritto di libera circolazione nel territorio UE, potrebbe contribuire a superare la condizione di illegalità di molti migranti e a distribuirne in modo naturale la presenza laddove vi siano maggiori possibilità di impiego, superando così il criterio fondato sull’appartenenza ad una nazione. Diversamente da quanto afferma l’ideologia nazionalistica, la cittadinanza non è un attributo innato, bensì qualcosa che si è costruito politicamente e socialmente e che è stato definito nel tempo in modi diversi. La nazione è solo un meccanismo di unità ma non siamo legati ad essa attraverso la consanguineità e la sovrapposizione del concetto di nazionalità a quello di cittadinanza porta ad escludere i migranti dal godimento dei diritti fondamentali. Come si è visto, il raggiungimento di una cittadinanza sovranazionale europea può fungere da pilastro portante per la protezione dei diritti fondamentali ma, allo stesso tempo, i limiti evidenti ci impongono di ripensare e ridefinire ulteriormente il concetto di cittadinanza slegandolo dal criterio della nazionalità.
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RUMBAUT R.G. 1997. Assimilation and its discontents: between rhetoric and reality, in ‘International Migration Review’, vol. 31, n. 4, 1997.
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Sitografia
Treccani vocabolario On line.
Citazioni normative
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Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, elaborata nel corso della Rivoluzione francese.
Convenzione europea sulla cittadinanza, Strasburgo, 6 novembre 1997.
Trattato sull’Unione Europea (TUE), Maastricht, 7 febbraio 1992.
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), di cui gli articoli 20-25 sono in materia di cittadinanza europea.
Direttiva sulla cittadinanza 2004/38/CE del Parlamento e del Consiglio europeo del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. La Direttiva sulla cittadinanza 2004/38/CE e l’art.20 TFUE stabiliscono i criteri di ottenimento della cittadinanza europea e i diritti che questa comporta.
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata per la prima volta a Nizza nel 2000. Gli articoli 39-46 sono in materia di cittadinanza europea.
Giurisprudenza
Legge numero 91, 5 Febbraio 1992. Nuove forme sulla cittadinanza. Pubblicato sulla G.U. n. 38 del 15-2-1992.
Sentenza della Corte di giustizia (Lussemburgo) dell’8 marzo 2011, causa C-34/09, Ruiz Zambran, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
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