L’euro e l’unificazione politica

, di Franco Praussello

L'euro e l'unificazione politica

1. Introduzione

L’euro è giunto al suo ventesimo anno di vita, superando la crisi dei debiti sovrani di un’intensità simile a quella della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso e nonostante le previsioni nefaste di molti addetti ai lavori, e segnatamente di alcuni insigni economisti di oltre Atlantico. Utilizzando gli strumenti usuali dell’analisi economica disponibili all’inizio del processo di integrazione, questi ultimi ritenevano che l’unione monetaria europea costituisse un progetto campato per aria che non sarebbe mai stato realizzato o che, se realizzato, sarebbe presto fallito.

La previsione si basava sostanzialmente sul fatto che, rinunciando a uno degli strumenti fondamentali della politica economica, una moneta autonoma, i paesi componenti non sarebbero più stati di in grado di combattere le recessioni ricorrendo a misure di svalutazione monetarie, con il risultato che sarebbero stati costretti a manovre di “svalutazione interna”, ossia di compressione dei salari, di scarsa accettabilità politica e sociale. Eppure, nonostante la fondatezza di questa critica economica (per quel periodo: oggi con la globalizzazione le svalutazioni non funzionano più bene come un tempo), l’eurozona vide la luce e fu in grado di sopravvivere a una crisi che poteva segnarne la dissoluzione, grazie soprattutto al sostegno della Banca Centrale Europea (Bce).

La realtà è che le riserve degli economisti d’oltre Atlantico non tenevano conto della circostanza che la moneta non è soltanto uno strumento economico, ma è anche un potente simbolo politico, ovvero trascuravano il fatto che alla base dell’euro stava e rimane tuttora un progetto politico di rilevanza storica: spingere l’integrazione verso lo sbocco della creazione di uno stato europeo; e anche quando consideravano questo fattore, sottovalutavano il capitale politico che in esso era stato investito. Per contro, più realisticamente, gli economisti europei, tranne una frangia di euroscettici che sognavano il ritorno all’Europa degli stati nazionali sovrani, pur essendo coscienti dei limiti della costruzione dell’eurozona, ne sostenevano in larga misura gli sforzi destinanti a renderla irreversibile, in vista della creazione di un potere politico europeo.

Dopo questa doverosa premessa, tesa a situare in un contesto appropriato, almeno a giudizio dell’autore, le vicende della moneta unica, risulta ora possibile fare alcune riflessioni in modo corretto sul passato e sulle prospettive dell’euro.

2. All’origine della moneta unica

Limitando l’analisi al secondo dopoguerra e in termini quantomeno impliciti, nel corso del processo di integrazione europea l’obiettivo dell’unificazione monetaria risale almeno all’inizio degli anni Cinquanta, quando prese vita l’Uep: l’Unione Europea dei Pagamenti. Tale accordo consentiva di avviare la liberalizzazione degli scambi e dei movimenti valutari tra i paesi europei, dopo il lungo periodo dei danni provocati dal protezionismo associato alle tensioni, che avevano portato allo scoppio della seconda guerra mondiale. Sin da allora apparve chiaro che il nesso inscindibile fra la ripresa dei commerci e la stabilità monetaria anche nell’ambito dei rapporti fra paesi europei richiedeva la piena adesione da parte di questi ultimi alle regole del sistema dei cambi fissi di Bretton Woods, con cui gli Usa intendevano governare le relazioni economiche internazionali dopo la conclusione del conflitto. E in effetti, all’Uep si deve la definizione della prima moneta europea nel 1950, la iniziale antesignana dell’euro nel secolo scorso: l’Uce, l’Unità di Conto Europea, avente lo stesso contenuto aureo del dollaro, destinata poi a svolgere un ruolo contabile anche nel mercato comune e nella politica agricola europea negli anni Sessanta, nonché nel successivo Sistema Monetario Europeo (Sme), con l’Ecu (European Currency Union), creato alla fine degli anni Settanta.

In altri termini, se si vuole, si può affermare che il primo esempio di moneta europea, sia pure sotto forma di sola unità di conto, destinata a svolgere una funzione meramente contabile di moneta scritturale virtuale e non di mezzo di scambio tangibile circolante fra pubblico e istituzioni, fu in realtà il dollaro Usa; con il corollario che la storia di questi avatar del segno monetario continentale lungo il periodo trascorso fra la nascita dell’Uep e il varo dell’euro all’inizio del 1999, può esser letta come quella del progressivo abbandono della sudditanza delle politiche monetarie dei paesi in via di integrazione alle decisioni della banca centrale statunitense in favore di politiche monetarie autonome calibrate per le esigenze dell’Ue e gestite infine dalla Bce. L’euro come simbolo dell’autonomia europea dal dollaro e dalle politiche Usa, quindi.

In questo contesto, il rispetto dei canoni di Bretton Woods da parte dei paesi europei fu inizialmente ritenuto sufficiente per garantire il requisito della stabilità monetaria in Europa, tanto è vero che il Trattato di Roma posto a base dell’integrazione economica non prevedeva in modo esplicito disposizioni particolari per quanto riguarda le politiche monetarie dei paesi membri della Cee, ma soltanto indicazioni generiche sulla necessità che questi coordinassero a livello comunitario le loro politiche economiche. Tuttavia, all’approssimarsi della crisi del sistema di Bretton Woods, verso la fine degli anni Sessanta, quando gli Usa non furono più in grado di garantire il legame fra il dollaro e la sua base aurea, l’Europa fu costretta a porsi il problema di porre al riparo la loro incipiente integrazione economica dal possibile venir meno della stabilità dei rapporti di cambio fra le loro monete.

In effetti, dopo la cessazione della convertibilità del dollaro in oro dichiarata da Nixon nel 1971 e il successivo abbandono del sistema dei cambi fissi a livello mondiale la volatilità dei cambi fra paesi europei rappresentava un ostacolo al procedere dell’integrazione nell’ambito del mercato comune e sorgeva l’esigenza di creare una moneta europea autonoma, capace di garantire la stabilità monetaria richiesta dal progetto di giungere al traguardo di un grande mercato interno fra i paesi membri. La moneta europea risultava necessaria sotto i due diversi profili della politica e della teoria economica, fra loro collegati. Da un lato, non sarebbe stato possibile ottenere parità di condizioni concorrenziali fra paesi nell’ambito del mercato interno senza la rinuncia alla manovra del cambio da parte dei singoli paesi, e in particolare a quelle delle svalutazioni competitive, che in quel periodo erano spesso seguite da un aumento delle esportazioni verso il resto dell’area, falsando così le condizioni di concorrenza. Dall’altro, il caso del quartetto inconciliabile di Padoa-Schioppa aveva dimostrato sul piano della teoria economica che non era possibile avere contemporaneamente libertà di trasferimento dei prodotti, libertà di trasferimento dei capitali, cambi fissi e politiche monetarie nazionali indipendenti: gli obiettivi ambiziosi di un mercato europeo pienamente integrato, per essere raggiunti, implicavano la rinuncia alle monete nazionali.

Di qui, i primi passi che avrebbero portato al traguardo dell’euro: gli iniziali e incerti tentativi di limitare la variabilità dei cambi intra-Cee, con il Piano Werner di integrazione monetaria per fasi, la creazione del Serpente monetario di fluttuazione congiunta delle monete europee rispetto al dollaro, sino al più solido Sme del 1979, che avrebbe posto la premesse per il Trattato di Maastricht e la scelta a favore della moneta unica sotto forma dell’euro verso la fine del millennio. Tappe di carattere tecnico che non vale la pena di illustrare oggi in dettaglio. Ciò che conta, in questi anni recenti, è piuttosto di mettere in luce vantaggi e limiti dell’attuale assetto dell’integrazione monetaria in Europa.

3. I fattori economici e politici alla base dell’eurozona

Dopo l’esperienza di questi primi vent’anni di moneta unica, è ormai assodato che l’impianto originario dell’integrazione monetaria, così come è stato tracciato dal disegno del Trattato di Maastricht, risultava carente sotto il profilo tecnico, vale a dire delle politiche economiche che era possibile esprimere nell’ambito dei suoi assetti iniziali.

Il modello cui si è ispirato trascende la polemica sugli strumenti da utilizzare per giungere all’unione monetaria fra le opposte concezioni del periodo del Piano Werner della fine degli anni Sessanta fra i paesi cosiddetti “monetaristi” e i paesi cosiddetti “economisti”, capitanati rispettivamente dalla Francia e dalla Germania: favorevoli i primi a vincolare progressivamente le politiche monetarie dei paesi membri e i secondi a effettuare in via prioritaria l’armonizzazione delle politiche economiche nazionali. Fra le due posizioni il compromesso attuato, che presiedette poi al funzionamento dello Sme, registrò uno squilibrio a vantaggio della prima, con il risultato che il passaggio successivo della selezione dei candidati iniziali dell’eurozona avvenne sulla sola base di requisiti di convergenza nominale e non di convergenza reale fra le economie dei paesi membri. Con l’avvertenza che la convergenza attuata dallo Sme avvenne in modo asimmetrico intorno alla funzione di perno del sistema esercitata dalla Germania come paese leader, che di fatto vincolava gli altri paesi a seguire le politiche monetarie decise dalla Bundesbank.

Al di là della convergenza nominale ex ante (ossia prima della creazione dell’euro) assicurata dai primi vent’anni di funzionamento dello Sme, l’elemento decisivo che portò alla nascita della moneta unica fu tuttavia di carattere politico: la rinuncia al marco tedesco, simbolo dell’egemonia economica esercitata dalla Germania, da parte del cancelliere Kohl, in cambio dell’accettazione da parte degli altri paesi, e in particolare della Francia, guidata allora da Mitterrand, della ricostituzione di una Germania riunificata al centro dell’Europa, dopo l’implosione del sistema di potere dell’Urss in seguito al crollo del muro di Berlino. Un fattore centrale, che spiega la natura eminentemente politica del progetto della moneta unica, e che viene spesso trascurato dagli economisti, i quali sottolineano, a ragione, le manchevolezze tecniche che caratterizzano gli assetti dell’eurozona. In realtà, la scelta a favore dell’euro risponde all’esigenza di riprendere il cammino verso la conclusione dell’integrazione, lungo un percorso che registra il tentativo di dotare l’Europa di una carta costituzionale che definisca i caratteri dell’unità politica dell’Europa, secondo gli obiettivi dei padri fondatori, dai primi ispiratori Spinelli e Monnet ai politici degli anni Cinquanta e Sessanta Adenauer, De Gasperi e Schuman.

Tutto ciò non deve peraltro trascurare il fatto che, accanto al fattore politico, il passaggio all’integrazione monetaria fu giustificato anche da considerazioni economiche di non trascurabile peso. In primo luogo la circostanza già segnalata che la piena integrazione dei mercati dei paesi membri nell’ambito del mercato interno richiedeva la sostituzione delle valute nazionali con una moneta europea e poi, più in generale, che per mettere a frutto tutte le potenzialità proprie di un mercato interno europeo pienamente integrato (con trasparenza dei prezzi, eliminazione dei costi associati a una pluralità di monete nazionali, facilitazione degli investimenti e così via) richiedeva un metro monetario unitario a livello europeo. Ma sui costi e benefici dovuti all’esistenza dell’euro torneremo fra breve.

4. Un’unione monetaria incompleta

Sotto il profilo tecnico il fondamento teorico che giustifica la presenza di una moneta unica nell’ambito di un insieme di giurisdizioni è la teoria delle aree monetarie (o valutarie) ottimali sviluppata a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso inizialmente a opera di Mundell, ed è a essa che gli economisti fanno di norma riferimento per giudicare se l’eurozona è in grado di funzionare in modo stabile nel corso del tempo. In estrema sintesi un’area monetaria è ottimale se è in grado di assorbire (in misura più o meno estesa) i cosiddetti shock asimmetrici, ovvero le cause delle cadute di reddito che colpiscono una (o poche) delle giurisdizioni che la costituiscono: per esempio le regioni di un paese o le economie di un’aggregazione di paesi. La ragione ne è che la banca centrale che governa l’area non sarebbe in grado di impiegare i suoi strumenti di politica monetaria, massime il tasso di interesse, perché mentre la giurisdizione in recessione vorrebbe che fossero usati in modo espansivo (esempio: una riduzione del costo denaro), le altre desidererebbero delle misure neutre o restrittive (nessuna variazione dei tassi o un loro aumento, per combattere in ipotesi l’inflazione). Ne segue che una moneta unica è in grado di sopravvivere se e solo se esistono dei meccanismi capaci di contrastare gli shock asimmetrici in modo virtualmente automatico: fondamentalmente la mobilità dei fattori produttivi (a partire dal lavoro) o un bilancio accentrato, dotato di mezzi sufficienti per trasferire risorse dalle regioni in fase di espansione a quelle in fase di recessione.

Il quadro appena tracciato andrebbe ancora qualificato (per esempio occorrerebbe criticare il mandato della Bce di non operare come prestatore di ultima istanza e di garantire soltanto la stabilità dei prezzi e non anche la crescita e l’occupazione, come- a proposito dei meccanismi di assorbimento degli shock- potrebbe accadere che certi caratteri di ottimalità dell’area non esistenti ex ante vengano generati ex post, ossia dal funzionamento dell’unione, secondo la teoria delle aree monetarie endogene), ma nell’insieme risulta sufficiente per concludere che l’unione monetaria creata da Maastricht è del tutto incompleta a causa della scarsa mobilità dei fattori a livello europeo e soprattutto della mancanza di un bilancio dell’eurozona di dimensioni adeguate (abbiamo solo il bilancio dell’Ue, col peso risibile di meno dell’un per cento del Pil dell’Europa a 28-27). Circa quest’ultimo punto va poi aggiunto che in termini riassuntivi la carenza maggiore dell’eurozona va identificata nella mancanza di un grado sufficiente di integrazione degli strumenti fiscali: quelli che consentirebbero delle manovre espansive a livello dell’unione per aiutare i paesi in difficoltà, grazie appunto a un bilancio accentrato per l’intera area dell’euro (nella misura in cui ciò sia possibile in un mondo globalizzato e in cui gli agenti ne anticipino in modo corretto gli effetti).

Mentre nelle unioni monetarie funzionanti nell’ambito di singoli paesi a fronte di una banca centrale abbiamo un governo che conduce una politica fiscale unica, nell’eurozona a fronte della Bce abbiamo 19 politiche fiscali autonome differenti, scarsamente coordinate fra loro. In sintesi estrema: l’eurozona dispone della leva monetaria ma non di quella fiscale.

5. Un bilancio dei primi vent’anni

Nel tracciare un bilancio del funzionamento della moneta unica spiccano i costi provocati dall’incompletezza degli assetti dell’unione monetaria in termini di scarsa crescita se non di aumento della disoccupazione a livelli socialmente insopportabili per effetto segnatamente delle politiche di austerità imposte ai paesi periferici o debitori dell’eurozona in seguito alla crisi dei debiti sovrani, ad oggi ancora non del tutto superata. In tal modo si trascurano però i benefici dell’euro, che al di là di quelli propri di un segno monetario comune che abbiamo in precedenza indicato in modo sommario, riguardano la caduta dei tassi di interesse e la protezione dei risparmi e in generale dell’insieme dell’economia europea dagli squilibri originati da una globalizzazione senza regole. Questo vale in particolare per paesi come l’Italia, aperti nei confronti dell’estero e con debiti esteri molto elevati che ne limitano l’autonomia delle politiche pubbliche. Ma nell’insieme vale anche per gli altri paesi dell’eurozona, Germania compresa, che solo uniti possono sperare di contare qualcosa nel mondo, dove si fronteggiano paesi di dimensioni continentali come gli Usa, la Russia, la Cina e l’India.

Circa i costi dell’austerità, resta fermo il fatto che il funzionamento dell’eurozona ha provocato un aumento delle divergenze fra paesi centrali e paesi periferici dell’unione monetaria. Gli effetti di convergenza previsti dalla teoria delle aree monetarie endogene sono sì presenti sotto forma dell’emergere di evidenze che segnalano la tendenza verso un ciclo economico comune, ma risultano insufficienti per ridurre in modo sensibile le differenze nella produttività del lavoro e quindi nelle condizioni di reddito fra centro e periferia dell’area dell’euro, dal momento che essa manca ancora di un meccanismo di redistribuzione delle risorse fra paesi membri a causa della mancanza della componente fiscale (o di bilancio) dell’unione monetaria. In tal modo, una delle tendenze del progredire dell’integrazione di mercato e del funzionamento dell’eurozona fu quella di mantenere in vita o anche aggravare le divergenze fra le economie componenti, un effetto netto che peraltro è spesso presente anche in altre esperienze di unioni monetarie, se è vero che negli Usa, nonostante la presenza del bilancio federale, il divario di Pil pro capite fra lo stato più ricco e lo stato più povero è ancora simile a quello dell’eurozona.

In queste condizioni, la crisi dei debiti sovrani con il suo corollario di recessione e di aumento della disoccupazione, soprattutto nei paesi più deboli dell’eurozona, è stata affrontata con un’azione parallela condotta dalla Bce, da un lato, e dai governi centrali dell’eurogruppo, dall’altro. La prima, che costituisce una delle istituzioni federali dotate di maggiore autonomia d’azione di cui disponga l’Europa, in quanto la sua indipendenza è fissata dai trattati, ha utilizzato strumenti sia tradizionali sia non convenzionali di politica monetaria allo scopo di evitare la dissoluzione dell’eurozona, sino al punto di convincere i mercati della credibilità del suo impegno di fare quanto necessario per salvaguardare l’euro (il “ whatever it takes” di Draghi nel 2012) dall’imminente tracollo, e sostenere l’attività economica e le politiche governative mediante le operazioni di acquisto di titoli sul mercato secondario del “quantitative easing” (o allentamento quantitativo), oggi in larga misura cessate.

I governi, a loro volta, sotto la guida dei paesi creditori dell’eurogruppo, in assenza di trasferimenti di risorse automatici a favore dei paesi debitori, hanno imposto ai paesi periferici politiche di rigore finanziario che hanno aggravato i costi sociali a loro carico, con ulteriori cadute del reddito e aumenti del numero dei senza lavoro. Con il risultato che per alcuni di essi, e massime per la Grecia, i sacrifici posti a carico delle loro popolazioni sono stati analoghi a quelli della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso. Nel contempo, tuttavia, l’Ue decideva di dotarsi di alcuni strumenti per rendere più solidi i fondamenti dell’eurozona, incamminandosi sulla strada della creazione di fondi di aiuti condizionali ai paesi maggiormente in crisi e, in un contesto più ampio, di riforme in direzione di un’unione bancaria e del mercato dei capitali.

Nell’insieme questi interventi sono stati in grado di far superare alla maggioranza dei paesi membri le ristrettezze della crisi e di rilanciare la crescita, che all’inizio del 2019, quando si moltiplicano i segnali di una possibile nuova recessione, stava durando da 22 trimestri con la creazione di 9 milioni di posti di lavoro per il complesso dell’unione monetaria.

6. Un euro che protegge

Nonostante questi risultati, la zona euro non ha ancora doppiato la soglia della irreversibilità e la pesante eredità dei danni sociali provocati dalle politiche di austerità a causa dell’incompletezza dell’unione monetaria ha alimentato la reazione delle forze populiste, che avendo ormai raggiunto posizioni di potere e anche di governo in alcuni paesi dell’area, potrebbero in futuro sfruttare qualche incidente di percorso (una nuova congiuntura avversa?) per rimetterne in discussione la sopravvivenza.

Se questo dovesse accadere e le forze della disgregazione dovessero avere la meglio, i frutti storici del processo di integrazione europea di cui l’unione monetaria rappresenta la frontiera più avanzata, e in primis il mantenimento della pace nel continente, verrebbero dispersi, riprecipitando l’Europa nel gorgo secolare delle ostilità e dei conflitti, come lasciano presagire le risorgenti tensioni fra paesi partner di questi ultimi tempi.

Le vicende più recenti dello scontro fra la Commissione e il governo populista italiano a proposito della legge di bilancio 2019 dimostrano che messi di fronte alla prospettiva degli immensi costi economici e politici che l’Italia dovrebbe affrontare per abbandonare l’eurozona, e quindi anche l’Ue, i partiti sovranisti non sono in grado di perseguire sino in fondo una politica secessionista dall’Europa che potrebbe rivelarsi suicida. Non ultimo, perché l’alternativa di un recupero di una sovranità monetaria nazionale illusoria non risulterebbe efficace in un mondo in cui le catene di valore internazionali rendono in larga misura inefficaci le manovre di svalutazione competitiva. Con l’avvertenza che l’Italia, prima della creazione dell’euro, non godeva già di autonomia delle proprie politiche monetarie perché le sue scelte in questo settore dipendevano strettamente da quelle della Bundesbank e che la vera sovranità monetaria l’aveva acquistata, sia pure in modo condiviso, soltanto con la nascita dell’eurozona e della Bce dove i banchieri centrali italiani siedono in condizioni di parità con i banchieri centrali degli altri paesi partner.

Chiarito questo punto, va poi aggiunto che la rinuncia alla politica dell’abbandono dell’euro da parte del governo gialloverde non rende tuttavia impossibile il verificarsi di una serie di circostanze eccezionali che finiscano per rendere inevitabile una secessione dall’eurozona (il “cigno nero” cui fa riferimento il Ministro Savona). Per evitare che ciò possa accadere in un futuro più o meno prossimo occorre riformare l’eurozona in modo da garantirne la sopravvivenza.

A tale scopo è necessario rendere l’eurozona un cardine dell’Europa che protegge, secondo l’ambizioso progetto di rilancio del progetto europeo da parte di Macron, il solo dotato di una visione all’altezza del compito presente nel deludente panorama delle volontà politiche dei leader europei, malgrado la temporanea perdita di consensi del presidente francese nell’arena interna a causa di alcuni errori nella conduzione della politica nazionale. Il populismo che mina le fondamenta del progetto europeo è in larga misura alimentato dalla globalizzazione senza regole, come era già accaduto nel caso degli Stati Uniti durante la prima fase di globalizzazione dell’età contemporanea nel periodo compreso fra il trentennio finale del secolo XIX e la prima guerra mondiale.

Tale compito richiede, fra le altre cose, un duplice percorso in direzione, da una parte, del completamento dell’unione monetaria con la creazione di una capacità fiscale dell’eurozona, e dall’altra del superamento della contraddizione fra l’avanzamento dell’integrazione e la salvaguardia della democrazia nazionale. Si tratta di obiettivi complementari che formano oggetto di proposte di riforme che son già al vaglio del Parlamento europeo, della Commissione e dei governi nazionali da qualche anno a questa parte. Il primo prevede il completamento dell’unione bancaria e del mercato unico dei capitali e il varo di un bilancio autonomo dell’area euro dotato di risorse sufficienti per svolgere funzioni di stabilizzazione del reddito nei paesi colpiti da eventi recessivi. L’attuale stallo che si registra in ordine a questi obiettivi fra i paesi periferici dell’eurozona, i quali insistono per una maggiore condivisione dei rischi, e i paesi centrali, che chiedono in via prioritaria una riduzione dei rischi, va superato con misure che evitino di rendere permanenti i trasferimenti di risorse a favore dei paesi in recessione, per esempio attraverso un sistema europeo di assicurazione contro la disoccupazione, che può essere in ipotesi utilizzato anche dai paesi centrali. Se questo dovesse accadere, l’euro diventerebbe il simbolo non solo di uno strumento che garantisce i paesi membri contro le turbolenze esterne, ma che protegge anche i loro cittadini dagli effetti negativi della globalizzazione non solo in termini di stabilità dei prezzi e di difesa del risparmio ma anche in termini di salvaguardia dei redditi e dell’occupazione, con possibili effetti di riduzione delle diseguaglianze.

Sull’altro fronte, occorrono progressi verso una rifondazione dell’Europa grazie alla realizzazione di una piena democrazia a livello europeo. Come è apparso chiaro in numerose occasioni, e soprattutto nel caso del commissariamento della Grecia durante la crisi debitoria da parte non solo delle istituzioni europee ma anche dal Fmi, i programmi di risanamento imposti a quel paese hanno provocato danni anche sotto forma di forti limitazioni dei margini riservati alla democrazia nazionale. La contraddizione fra democrazia nazionale e integrazione avanzata, come ha dimostrato Rodrik, si può superare solo con soluzioni che duplichino le procedure democratiche anche a livello dell’Unione. Ciò implica un aumento delle competenze del Parlamento europeo, che è la sola istituzione titolata per approvare le misure di tassazione e di spesa associate a un bilancio accentrato gestito da un esecutivo legittimato democraticamente, e progressi in direzione di un governo europeo dotato di poteri limitati ma reali.

7. Considerazioni conclusive

In questo scritto ci siamo occupati dei caratteri dell’euro alla luce dei suoi obiettivi iniziali, del funzionamento dell’eurozona nei primi vent’anni di vita, nonché della sua possibile evoluzione in futuro. Abbiamo visto che il progetto della creazione della moneta unica era basato, al di là dell’esigenza di mettere a frutto tutte le potenzialità economiche del mercato interno, su una forte motivazione di carattere politico, riassumibile nella necessità di portare a compimento l’integrazione mediante progressi in direzione della creazione di uno stato europeo.

In vista di questi obiettivi, tuttavia, i tempi non erano ancora politicamente maturi per dar vita a un’unione monetaria completa, che accanto alla componente delle politiche monetarie gestite da una banca centrale indipendente, comprendesse anche la componente fiscale indispensabile per renderla stabile e irreversibile, soprattutto attraverso un bilancio accentrato capace di effettuare una condivisione dei rischi a livello europeo, garantendo una convergenza graduale fra le condizioni di reddito fra paesi del centro e paesi periferici dell’eurozona.

In questo quadro, la crisi dei debiti sovrani dovuta al contagio in Europa della crisi finanziaria globale originata negli Usa e le politiche di austerità con cui era stata combattuta dai paesi dell’eurogruppo si era tradotta in un aumento delle divergenze fra paesi creditori e paesi debitori dell’eurozona, nonché in un vulnus per la democrazia all’interno di questi ultimi.

Superata in larga misura la recessione provocata dalla crisi dei debiti sovrani, grazie principalmente all’azione della Bce, i rimedi posti in essere nel frattempo per rafforzare gli assetti dell’eurozona non sono ancora sufficienti per garantirne la sopravvivenza.

A questo fine è necessario che l’euro diventi il simbolo reale di un’Europa rinnovata che protegge i suoi cittadini dai danni provocati da una globalizzazione senza regole, mediante un completamento dell’unione monetaria con la sua componente fiscale attraverso un bilancio comune gestito da un governo europeo sottoposto al controllo democratico del Parlamento di Strasburgo.

Articolo già pubblicato sul numero 2/2019 della rivista «Storia e memoria» e on line sul blog di Europa in Movimento.

Fonte immagine: Max Pixel.

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