Questa giornata del 4 dicembre 2016 sarà ricordata per due risultati elettorali che, pur chiedendo agli elettori di esprimersi su progetti politici nazionali diversi, avevano una platea comune: quella europea.
Le elezioni presidenziali in Austria chiedevano agli elettori di esprimersi sull’alternativa tra un progetto ‘europeo’ ed uno ‘nazionale’ e questa alternativa era espressa in modo secco, nella contrapposizione tra il candidato europeista ed ecologista Alexander Van der Bellen e quello ultranazionalista Norbert Hofer. La netta vittoria del candidato europeista sta a significare che quando l’alternativa tra europeismo e nazionalismo viene posta in modo chiaro, il progetto europeo è ancora più forte di quello nazionale. Malgrado la crisi economica e l’impatto del fenomeno migratorio sull’opinione pubblica, malgrado i media dipingano da anni un’Europa dominata da nazionalismi vincenti, l’elettorato austriaco ha compreso che l’Europa è la soluzione e non il problema. Da anni sentiamo parlare, in modo molto interessato, di un rifiuto dell’Europa da parte dell’opinione pubblica, di un movimento crescente di protesta populista ed antieuropea, che sembra debba travolgere il sistema delle istituzioni europee create in cinquant’anni di storia di integrazione economica, sociale e politica. L’elezione austriaca ci dice invece che si può battere il nazionalismo risorgente. Ma ad una condizione: presentare in modo chiaro ed esplicito il ‘progetto europeo’ unitamente ai valori di libertà, uguaglianza e solidarietà. Van der Bellen ha vinto perché ha detto, senza giri di parole, che voleva un’Austria “europeista” e che vuole difendere l’Unione europea.
Concetti che non erano presenti nel referendum italiano sulla riforma costituzionale. Qui il problema era quello di una modifica dell’impianto costituzionale del bicameralismo, volto a rendere più efficiente il processo legislativo ed il rapporto tra Stato e Regioni. Il senso ultimo delle proposte di modifica era quello di una auto-riforma del sistema costituzionale italiano. Era una sfida di tipo ‘riformista’, forse l’ultima sfida, dopo quelle tentate, senza successo, negli anni ’90, volte a risolvere il problema della governabilità in un Paese in cui mediamente abbiamo un governo l’anno.
Al di là dei contenuti della riforma proposta (fine del bicameralismo perfetto e separazione più netta delle competenze tra Stato e Regioni), il problema di fondo era quello di mettere alla prova le capacità del riformismo italiano, in un momento storico in cui il Paese ha bisogno di modernizzare le proprie strutture istituzionali, per essere più efficiente nell’erogazione dei servizi, per essere più competitivo come sistema e soprattutto per poter essere protagonista nelle scelte europee, non ultime quelle che si impongono nel 2017, in termini di trattative su Brexit, sulla politica di sicurezza e, soprattutto, in vista delle stesse modifiche istituzionali che si rendono necessarie per l’Unione europea.
Ebbene, l’esito di questo referendum ci dice che il riformismo italiano ha fallito. Al netto degli errori politici che possono esser stati commessi dal governo, al netto dell’opposizione populista e della destra politica, ciò che emerge in modo impressionante è la spaccatura politica che si è prodotta nel fronte riformatore, incapace di chiamare attorno a sé un’area di opinione pubblica che andasse al di là del bacino elettore di partito. Anzi.
In questi settant’anni di Repubblica non sono molte le esperienze di grandi riforme consolidate, oltre quelle di carattere ‘civile’, quali il divorzio ad esempio. Le vere riforme, anzi le vere rivoluzioni, in questo Paese (come in altri) le ha fatte il processo di unificazione europea: la fine del protezionismo e l’apertura dei mercati che hanno consentito il ‘miracolo economico’ e lo sviluppo industriale di un paese che era fondamentalmente agricolo; la crescita del ‘mercato interno europeo’ che ha consentito la nascita di una società moderna ed europea nei costumi, nello sviluppo imprenditoriale e nella mentalità cosmopolita delle giovani generazioni; la nascita dell’euro e delle regole dell’unione monetaria che hanno cancellato l’idea di uno sviluppo economico basato sulle svalutazioni competitive della moneta, come pure quelle di una crescita basata sul debito pubblico. E tante altre ancora.
La riforma del Senato è stato un tentativo di auto-riforma del sistema nazionale, quasi a mostrare che lo Stato nazionale era ancora riformabile da sé, che poteva ancora dire all’Unione europea “ci sono anch’io”, “sono ancora capace di cambiare da solo”, “sono io che decido ciò che devo fare per cambiare”. Era questo il senso profondo del messaggio del governo Renzi all’Europa. Quasi una sfida all’Europa sul tema del cambiamento.
Ebbene, questa sfida è stata persa dal riformismo italiano. Da tutto il riformismo, non solo da quello che era rappresentato dal e nel governo, ma anche da quello che sta ed è rappresentato dall’opposizione. Perché il messaggio è chiarissimo, anche grazie alle percentuali della sconfitta: l’Italia è un Paese non riformabile da sé. Una catastrofe per la sinistra italiana.
Ancora una volta l’input riformatore dovrà venire dall’Europa, dalla sua capacità di generare trasformazione politica ed istituzionale per sé e per gli altri Paesi. Di questo nuovo processo di rinnovamento europeo ambiva di esser parte importante anche il governo italiano di Renzi, in un ruolo da protagonista. Difficilmente sarà così, quale che sarà l’inquilino di Palazzo Chigi il 25 marzo 2017, quando a Roma il Consiglio europeo deciderà se affrontare o meno i nodi delle riforme istituzionali europee. Semplicemente perché il governo italiano sarà più debole.
La vittoria del fronte del NO è dunque la rappresentazione plastica del suicidio della sinistra riformatrice italiana. È, se vogliamo, la conferma di un antico postulato del pensiero federalista europeo: il declino storico dello stato nazionale comporta anche la decadenza delle sue istituzioni politiche. Privo di una spinta propulsiva autonoma al cambiamento lo Stato nazionale può svolgere ancora un ruolo solo se si pone al servizio della costruzione di un ordine politico nuovo, quello della federazione europea. La linea del progresso è dunque ancora quella rappresentata da “quelli che vedranno come compito centrale quello della costruzione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso quello scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adropreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale” (da il “Manifesto di Ventotene”).
1. su 7 dicembre 2016 a 12:27, di roberta de monticelli In risposta a: L’Europa vince, il riformismo nazionale perde
Questo articolo è di una superficialità e di un’arroganza sconcertanti, ed è molto doloroso che sia pubblicato su un sito europeista. Il suo ragionamento è inaccettabile. Ma come, il senso era dunque di mostrarci capaci di autoriformarci a prescindere dai contenuti pessimi della riforma e dal modo ancora peggiore in cui il governo ha tentato di imporla? E come si permette l’autore di decidere per me quali sono state le mie ragioni per votare NO? Questo mi conferma purtroppo nella sensazione che non sia ne’l’Europa ne’ la civiltà, la competenza, il merito e la trasparenza che stavano a cuore al Presidente del Consiglio, ma solo l’apparenza. Il sembrare a tutti i costi: anche la prepotenza, la sordità, l’arroganza. Eh NO! Viva l’Unione Europea, Viva Altiero Spinelli, viva il suo pensiero pagato con trent’anni di carcere. Viva la Costituzione.
2. su 7 dicembre 2016 a 18:16, di Antonio Longo In risposta a: L’Europa vince, il riformismo nazionale perde
Il commento della nostra amica è solo un elenco di parole e di aggettivi negativi, secondo un certo stile che si è imposto in questa campagna referendaria. E che è la conseguenza della subalternità culturale al populismo che ha investito certi settori della sinistra, da decenni orfani di un pensiero politico capace di fornire le coordinate per interpretare i fatti e realtà politica del mondo. Come era chiaro, la tesi del mio articolo è che il riformismo italiano ha fallito, persino in un compito apparentemente semplice e sul quale la gran parte delle forze politiche erano inizialmente d’accordo: il superamento del «bicameralismo perfetto», una cosa che esiste solo in Italia (e in Romania). Di questo fallimento è responsabile (cito il mio articolo) «tutto il riformismo, non solo quello che era rappresentato dal e nel governo, ma anche quello che sta ed è rappresentato dall’opposizione. Perché il messaggio è chiarissimo, anche grazie alle percentuali della sconfitta: l’Italia è un Paese non riformabile da sé». E questo è «Una catastrofe per la sinistra italiana». Mi pare una constatazione. In altri termini: se i «riformisti» italiani (sia del No che del SI’) non sono stati capaci di fare una riforma del genere, beh allora questa è la conferma che il riformismo in questo Paese è veramente morto. E che le vere riforme, anzi le «rivoluzioni» continua e continuerà a farle il processo di unificazione europea, come ci hanno anticipato gli uomini di Ventotene, che non vanno omaggiati con qualche facile slogan, ma apprendendone l’insegnamento più profondo: bisogna fare la Federazione europea non perché è un bel sogno, ma perché gli stati nazionali sovrani non sono più in grado di assicurare progresso, giustizia e libertà ai propri cittadini. Se è così allora è inevitabile che la politica diventi pura lotta di potere per la sopravvivenza delle varie fazioni. «Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie» (dal «Manifesto di Ventotene»). E le vecchie aporie del passato si sono ampiamente manifestate anche nella violenza del linguaggio di questa Campagna referendaria. Anche da parte della nostra cortese amica.
3. su 7 dicembre 2016 a 20:41, di Jean-Luc Lefèvre In risposta a: L’Europa vince, il riformismo nazionale perde
Le «non» italien à la réforme constitutionnelle de RENZI «un suicide de la gauche réformatrice italienne»? Je l’’ignore, mais je constate qu’en Belgique, c’est un gouvernement tripartite (Elio DI RUPO, avec socialistes, libéraux et chrétiens-démocrates) qui a fait du Sénat un organe croupion, chose inadmissible dans un état fédéral. La démocratie italienne fonctionne mieux!! Attendre de l’Europe une solution me paraît illusoire!
4. su 7 dicembre 2016 a 21:06, di roberta de monticelli In risposta a: L’Europa vince, il riformismo nazionale perde
Va bene, mi scuso per l’aggettivo «arrogante», in cui però mi sembra consiste anche tutta la mia «violenza». Ho risposto a molti amici che hanno votato diversamente da me al referendum, credo senza alcuna «violenza», e vi rimando all’articolo sul «Fatto»di oggi che forse sarà ripreso da Libertà e giustizia: lo cito solo per dire che molto dipende dal contesto, e si può rispondere con indignazione a tesi che , magari esposte pacatamente, sono però tali da arrogarsi il diritto di interpretare indebitamente le altrui motivazioni: ecco il senso della parola «arrogante». Caro Antonio, puoi testimoniare che sentimenti europeisti profondi hanno motivato molto del mio lavoro negli ultimi anni. E che ben altra idea di Europa su può avere da quella di un ex Presidente del Consiglio che considerò «suoi» i voti che la sua formazione prese in occasione delle Elezioni Europee - senza mai aver spiegato una sola volta cosa dovevano essere, e che per la prima volta il Parlamento Europeo avrebbe espresso qualcosa di più vicino a un Governo Europeo. Ma figuriamoci! Tutto quello che quel Presidente ha saputo fare da allora è stato «batter i pugni»ridicolmente sul tavolo di un’Europa le cui regole, buone o cattive, avevamo contribuito a fare - salvo chiedere eccezioni e sforare i tetti della spesa appena possibile. Ma quanto alla riforma costituzionale proposta dal suo governo: ebbene, io non credo caro Antonio che daresti del «violento» a uno qualsiasi degli studiosi e dei costituzionalisti che da Sartori Zagrebelsky, passando per Onida e Pasquino, e ne ometto trenta o quaranta, hanno sviscerato in tutti i modi la pochezza del merito e la scorrettezza del metodo, oltre che la falsità delle premesse di questa riforma.E come non vedi allora che puo’ ferire veramente, ed e’, perdonami, veramente ingiusto e illiberale il tuo giudizio sulle motivazioni di chi come me è alcuni milioni di altre persone ha voluto impedire questo svilimento della nostra Carta, e dire no alle mistica del cambiamento per il cambiamento, a prescindere dalla direzione. Dire no al plebiscito sul premier che non certo gli italiani ma quel governo ha voluto. Dire no proprio al bruttissimo ricatto della più bassa contingenza politica, quando era in gioco il quadro normativo della politica, che sta sopra e non sotto. A ognuno la sua sensibilità caro Antonio: ma non è quella di chi confonde la difesa della Costituzione italiana con il populismo, l’Europa di Altiero Spinelli, la nostra Europa.
5. su 14 dicembre 2016 a 15:09, di Antonio Longo In risposta a: L’Europa vince, il riformismo nazionale perde
L’Italia è, assieme alla Romania, l’unico Paese europeo (e forse al mondo) in cui ci sono DUE Camere elette per esercitare il potere legislativo e per votare la fiducia al Governo. La necessità di superare il «bi-cameralismo perfetto» è stata riconosciuta, da decenni, da quasi tutte le forze politiche italiane. Ma poi, questa «intenzione» riformatrice non si è tradotta in «volontà» politica reale, per colpa di molte forze politiche, di governo e di opposizione. Ora tutto resta come prima. E questo si chiama «fallimento del riformismo». Che piaccia o no. Le riforme «nazionali» si sono mostrate gracili e illusorie. Le riforme «europee» hanno una forza ’storica’ che quelle nazionali non possono avere. Per questo l’Unità europea è la frontiera del progresso, la «nazione» è la rappresentazione della conservazione.
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