A differenza di altri, i quali ritengono che “l’Europa della difesa, che si credeva impensabile, l’abbiamo realizzata”, Fritz Felgentreu e i suoi colleghi pensano che l’Europa abbia ancora molto da fare e presentano un abbozzo di risposta concreta. La prima qualità della loro proposta è, indubbiamente, quella di indicare senza ambiguità un percorso che permetta all’Unione di realizzare una reale condivisione della sovranità in un campo particolarmente delicato, quello della sicurezza comune dei 27. Lo scenario propone che tale esercito sia comune e “comunitario”: in altre parole, che dipenda dalle istituzioni dell’Unione e che sia composto da soldati europei, non da contingenti degli eserciti nazionali. Un’altra qualità innegabile della proposta è il fatto di non essere solo compatibile ma anche complementare a un approccio alla difesa europea basato sugli eserciti nazionali e sull’appartenenza alla NATO, come ribadito brillantemente dalla ministra tedesca della difesa Annegret Kramp-Karrenbauer nel suo recente discorso all’Università della Bundeswehr di Amburgo.
Questa proposta ha attirato delle critiche, fra cui quelle particolarmente interessanti ed evocative del molto influente Presidente della Commissione degli affari esteri del Bundestag, il cristiano-democratico Norbert Röttgen.
Secondo lui “l’UE non è uno Stato, ma i suoi membri lo sono. È qui che la proposta dell’SPD fallisce fondamentalmente” [1].
Se la questione della «natura dell’Unione europea» non è priva di interesse (d’altronde ha occupato molti accademici per decenni) non è inutile ricordare, in funzione della nozione classica di competenze sovrane, che la difesa è stata ampiamente delegata dalla maggior parte degli Stati membri dell’Unione a un’autorità sovranazionale, la NATO. Lo stesso è avvenuto per una parte significativa della sicurezza interna, ormai gestita in comune (area Schengen), mentre in materia di diritto e giustizia gli Stati membri riconoscono il primato delle Corti di Lussemburgo e Strasburgo. Per quanto riguarda la sovranità monetaria, la maggior parte degli Stati membri ha creato un’unione monetaria la cui gestione è stata affidata alla Banca centrale europea. Solo la sovranità di bilancio rimane ancora, essenzialmente, una prerogativa degli Stati membri. Però, a meno che non si pensi, come nel nostro caso, che l’Unione meriti di meglio di una disputa simile a quella sul sesso degli angeli, che teneva occupati i bizantini assediati, si potrebbe legittimamente chiedere al Dr. Röttgen se ritiene che gli Stati membri dell’Unione siano ancora, a tutti gli effetti, degli Stati.
I limiti dello scenario proposto dall’SPD
Il Dr. Röttgen, peraltro candidato alla presidenza del CDU (Unione cristiano-democratica), afferma inoltre che «l’UE non sopravviverà per molto tempo a un’operazione militare della Commissione europea contro la volontà di alcuni Stati» [2]. Ha ragione e, così facendo, pone in evidenza una delle debolezze della proposta dell’SPD. L’architettura istituzionale proposta coinvolge, in effetti, solo la Commissione e il Parlamento europeo. Ma la proposta dell’SPD non è immutabile. Inoltre, ci sono altre proposte che vanno nella stessa direzione. Per esempio, quella lanciata da Radosław Sikorski, l’ex ministro degli esteri polacco, che promuove la creazione di una legione europea sulla base del modello francese. Un’altra proposta per l’istituzione di una cooperazione rafforzata in vista della creazione di un esercito europeo comune prevede un’architettura istituzionale che coinvolga le quattro istituzioni dell’Unione. Secondo questo progetto, il Parlamento europeo e il Consiglio (dei ministri) parteciperebbero all’elaborazione per grandi linee della politica di sicurezza e assicurerebbero la funzione di controllo, la Commissione definirebbe, collaborando con il Parlamento europeo e il Consiglio, le priorità della politica di sicurezza, le metterebbe in pratica e assicurerebbe la gestione politica dell’esercito comune, e il Consiglio europeo autorizzerebbe, su proposta della Commissione, l’impiego dell’esercito europeo.
Trattandosi di questioni «di vita o di morte», sono quindi gli Stati membri rappresentati al più alto livello che, come sostenuto a suo tempo dall’ex segretario generale del Consiglio, l’ambasciatore Pierre de Boissieu, avrebbero l’ultima parola sul mandato che autorizza il Presidente della Commissione a lanciare un’operazione militare. Se, ipoteticamente, si progettasse una cooperazione rafforzata che coinvolgerebbe 19 Stati membri [3] e una decisione del Consiglio europeo presa con la doppia maggioranza dei due terzi, saremmo molto lontani da uno scenario in cui uno Stato si vedrebbe costretto ad accettare una decisione che andrebbe contro i suoi interessi vitali. L’esperienza istituzionale dell’Unione ci insegna che il voto di maggioranza non incoraggia l’abuso di potere di una maggioranza contro una minoranza, ma costituisce proprio una condizione indispensabile al raggiungimento di un consenso che abbia un senso. Inoltre, nell’ipotesi presa in considerazione, la Germania e la Francia, con più di un terzo della popolazione, [4] o sette Stati [5] sulle diciannove parti della cooperazione rafforzata potrebbero costituire una minoranza di blocco.
Ma l’affermazione del candidato alla Cancelleria sui rischi che un esercito comune comporterebbe per la sopravvivenza dell’Unione europea non è retorica. La questione della sopravvivenza dell’Unione europea è estremamente reale. Eppure, a differenza del dottor Röttgen, riteniamo che sia la mancanza di una politica di sicurezza comune europea a costituire la principale minaccia alla sopravvivenza dell’Unione nel breve o nel medio termine.
Come potrebbe l’Unione, se non attraverso uno spazio comune per elaborare, per comporre gli interessi di tutti e le decisioni politiche comuni, comprese quelle che devono basarsi su uno strumento militare comune, affrontare questioni che riguardano sicuramente tutti gli Stati membri, ma con intensità e modalità molto diverse? La questione turca è emblematica. Tutti gli Stati membri sono infatti vittime della politica di ricatto sull’emigrazione da parte di Ankara. Ma la Grecia è in prima linea. Le rivendicazioni marittime della Turchia riguardano certamente la Grecia in primo luogo, ma anche l’Unione nel suo insieme, se si considera, ad esempio, che le rivendicazioni della Turchia compromettono la costruzione di gasdotti tra Cipro e l’Europa meridionale. Diversi Stati membri hanno accolto un gran numero di persone originarie della Turchia. E alcuni, in particolare la Germania, in quantità molto elevate. Eppure, oggi, invece di una risposta che articoli in modo coerente e tenga in considerazione i valori promossi dall’Unione e l’insieme degli interessi degli Stati membri, si assiste a una sequela perenne di azioni insensate. Queste portano o a risposte europee puramente declamatorie o a prese di posizione radicalmente diverse o addirittura antagoniste da parte degli Stati membri, come quando uno di loro promuove la pacificazione, accompagnato da moneta sonante, mentre un altro brandisce la minaccia di un accerchiamento. Dove uno vende sottomarini ad Ankara, e l’altro fregate e aerei militari ad Atene.
L’approccio «europeo» alla questione libica è sulla stessa linea. L’intervento voluto da Nicolas Sarkozy e David Cameron, inopportuno o largamente insufficiente a seconda dei punti di vista, è stato condotto secondo una logica profondamente antieuropea in quanto andava contro gli interessi di un paese membro dell’Unione che manteneva per ragioni storiche delle relazioni economiche privilegiate con la Libia. Qualunque cosa se ne pensi a Parigi, questa imposizione con la forza ha lasciato tracce profonde a Roma e continua, pertanto, ancora oggi, ad alimentare le divisioni tra gli europei su tale questione, dal momento che alcuni sostengono il regime di Tripoli e altri il maresciallo Haftar.
La lista dei campanelli di allarme riguardanti la sicurezza dell’Unione Europea non finisce qui. Comprende anche l’Ucraina, la Bielorussia e la Moldavia, anche se, malgrado il parere di alcuni, l’Unione beneficia in questi casi dell’apporto diplomatico e militare implicito dell’Organizzazione Atlantica. Alla lista si può aggiungere la Georgia e, come l’attualità ci ha tristemente ricordato, il Nagorno Karabakh, dove l’Europa è rimasta in silenzio, anche di fronte al coinvolgimento nel conflitto, sia direttamente sia attraverso l’invio di mercenari jihadisti siriani, del governo turco, il successore del regime che perpetrò il genocidio armeno nel 1915.
Ma questa lista sarebbe incompleta senza la Siria, senza questa tragedia interminabile che, per di più, certi si sono adoperati nel trasformare in una poderosa e atroce macchina che genera rifugiati. Dal punto di vista che stiamo trattando qui, la questione siriana mette in luce un’altra debolezza della proposta dell’SPD: la dimensione dell’esercito proposto. Nel caso ipotetico di un’operazione di pace in Siria, un esercito comune europeo capace di schierare 2 500 soldati sarebbe stato, è ovvio, totalmente insufficiente. L’ordine di grandezza è ben diverso. Sarebbe stato necessario un esercito di 100 000 soldati in grado di schierarne 35 000 su base continua, con un costo stimato di 25 o 30 miliardi di euro all’anno, l’equivalente dello 0,3% del PNL degli Stati membri. Sarebbe «finanziariamente irresponsabile» per l’Unione dedicare una tale somma a garantire la sua sicurezza?
Ma una politica di sicurezza europea degna di questo nome non dovrebbe solo proteggere l’Unione dalle minacce esterne. Ci sono minacce all’interno dell’Unione stessa, come nel caso di alcuni territori che non fanno formalmente parte dell’Unione ma sono, a tutti gli effetti, parte di uno Stato membro. Pensiamo in particolare alle Isole Sparse nell’Oceano Indiano, alle Terre Australi e, in particolare, alla Polinesia Francese, il cui dominio marittimo si estende per più di 240 000 km2 e la cui zona economica esclusiva copre più di 4,5 milioni di km2, cioè più della superficie dell’insieme degli Stati membri dell’Unione europea. È difficile pensare come questo immenso arcipelago, situato a più di 15 000 chilometri da Parigi, potrebbe, nello stato attuale, essere difeso contro le possibili rivendicazioni di una grande potenza autoritaria. D’altra parte, è facile immaginare che la coesione dell’Unione sarebbe messa a dura prova dall’occupazione di tutto o di una parte di questo territorio francese.
Sempre dal punto di vista della coesione dell’Unione, senza dubbio non è superfluo interrogarsi fin d’ora sulle conseguenze dell’inevitabile potenziamento dell’esercito tedesco, risultato diretto dall’attuazione da parte di Berlino di un impegno preso con la NATO di dedicare il 2% del suo PNL alle spese per la difesa. Già oggi, i bilanci della difesa tedeschi e francesi sono equivalenti. Se si esclude il contributo della Francia alla deterrenza nucleare, il bilancio tedesco della difesa convenzionale è già molto più alto rispetto a quello francese. Considerando che, con un bilancio della difesa dell’1,38%, la Germania è molto più lontana dall’obiettivo del 2% da raggiungere nel 2024 rispetto alla Francia, che già vi dedica l’1,82% [6], si comprendono la differenza che si andrà a creare e il carattere effimero dell’indubbio vantaggio qualitativo in materia di difesa che la Francia può vantare oggi. È ragionevole pensare che un tale sconvolgimento degli equilibri esistenti possa essere gestito «alla vecchia maniera», escludendo un approccio comune, un approccio decisamente europeo?
No, l’esercito europeo non è solo un sogno, è una necessità impellente. Un’Unione senza un esercito comune è una garanzia di incubi futuri.
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