La fine degli alibi

, di Antonio Longo

La fine degli alibi

La schiacciante vittoria di Emmanuel Macron nelle elezioni presidenziali francesi ci dice, in modo inequivocabile, che a livello popolare la svolta europeista si è consolidata.

Le vittorie in Austria, lo scorso dicembre, del candidato verde europeista Alexander Van der Belle e poi, lo scorso marzo, in Olanda del premier europeista Mark Rutte, hanno mostrato che il vento stava cambiando. Dopo dieci anni di una fallimentare politica europea intergovernativa, che ha reso visibile l’impotenza europea di fronte alle sfide globali, che ha prodotto ed alimentato i movimenti anti-europei, la demagogia e il populismo di destra e di sinistra, si è messo finalmente in moto un sussulto di dignità e di volontà di riprendere in mano il progetto europeo da parte degli strati più avanzati dell’opinione pubblica europea. Le continue manifestazioni di piazza nei primi mesi dell’anno a favore dell’unità europea nelle città tedesche, francesi, olandesi e anche inglesi, la grande Marcia federalista per l’Europa del 25 marzo a Roma, hanno mostrato che l’europeismo è maggioranza, contro le false credenze alimentate spesso dai media.

Ora la vittoria di Macron ci dice che avevamo ragione, che la battaglia per l’unità politica dell’Europa può riprendere slancio. E mette in luce un elemento politico decisivo: ora i governi nazionali non hanno più alibi. Fino allo scorso anno essi avevano due alibi formidabili con i quali coprivano la loro cattiva volontà politica europea. Il primo alibi suonava all’incirca così: “noi governi vorremmo avanzare, ma la Gran Bretagna si oppone sempre ed è in grado di coagulare un fronte di paesi capaci di bloccare qualsiasi avanzamento”. Dopo la Brexit questo alibi è crollato. Ed allora abbiamo visto le prime, timide proposte di avanzamento: per la prima volta l’idea di un’Europa “a due velocità” (da anni teorizzata dai federalisti) è diventata materia di dibattito politico a livello dei governi.

Ma c’era un secondo alibi, ancor più insidioso, che si esprimeva all’incirca in questi termini: “noi governi vorremmo avanzare, ma l’opinione pubblica non vuole, se cediamo altra sovranità all’Europa rischiamo di far crescere i movimenti anti-Europa; meglio star fermi, in attesa di tempi migliori”. Dopo la straordinaria vittoria di Macron anche questo secondo alibi è crollato. L’europeismo è maggioranza nel cuore dei paesi centrali dell’Europa: lo mostreranno anche le prossime elezioni in Germania, come pure le successive in Italia (contrariamente all’opinione interessata di molti). Dunque, la svolta pro-Europa c’è stata e si è consolidata. Ora si tratta di giocare una nuova partita, quella sul “come” e sul “quanto” avanzare.

Sul “come” le idee sembrano abbastanza definite: l’Europa a due velocità (o con “ritmi e intensità diversi”, secondo il diplomatico linguaggio della Dichiarazione di Roma del 25 marzo) sarà il primo vero banco di prova della volontà dei governi. La decisione sul ‘come’ sarà importantissima anche ai fini del negoziato sulla Brexit: sarà infatti possibile negoziare da posizione di forza solo se emergerà una volontà politica chiara di procedere comunque verso un’unione sempre più stretta tra chi ci sta. In caso contrario il governo inglese proverà ancora a dividere gli Europei, spalleggiato dalla nuova amministrazione americana.

Sul “quanto” le proposte sono già state formulate: dai federalisti, dal Parlamento europeo con i tre Rapporti approvati nel febbraio scorso, da alcuni governi, da moltissimi influenti opinionisti. In primis, cooperazioni rafforzate permanenti sulla sicurezza, un governo economico per l’Eurozona basato su risorse proprie. Su questi punti sarà decisiva la posizione della Francia, il paese che storicamente ha deciso, in tutti i passaggi cruciali della costruzione europea, “quanta sovranità” si potesse/dovesse cedere all’Europa. Sono numerosi gli esempi del ruolo frenante della Francia: all’epoca del Trattato costituzionale (poi Trattato di Lisbona del 2007), a Maastricht (1992), con l’Atto unico (1986) che ridimensionò drasticamente il Trattato di Unione europea approvato dal Parlamento europeo sotto la grande spinta di Altiero Spinelli, infine con la famosa “politica della sedia vuota” praticata da De Gaulle (1966).

Emmanuel Macron sarà giudicato dalla storia essenzialmente proprio su questo punto: se innoverà o meno rispetto alla tradizione ‘sovranista’ del suo Paese. Se forzerà o meno il suo Paese a cedere sovranità all’Europa sui temi che oggi sono decisivi per l’avanzamento del progetto europeo: la sicurezza, lo sviluppo e la democrazia. Si tratta di decidere quanta e che tipo di sicurezza assegnare all’Europa nella forma di una cooperazione strutturata permanente, quali materie di politica economica e quali (e quante) risorse proprie assegnare all’Eurozona: e, soprattutto, come verrà esercitato il controllo democratico del Parlamento europeo su queste materie strategiche.

È su questi punti decisivi che l’azione del nuovo presidente francese andrà giudicata. Hic Rhodus, hic salta.

Fonte immagine Stradeonline

Tuoi commenti
  • su 9 maggio 2017 a 23:43, di Alberto Tani In risposta a: La fine degli alibi

    Concordo appieno con la lettura dei recenti sviluppi politici in Europa.

    Vorrei segnalare un rischio per l’integrazione europea che a mio parere dovrà non essere sottovalutato dai politici europeisti e dagli attivisti europeisti in genere: quello della percezione del ruolo della Germania da parte dei cittadini europei. Credo che sarà importante impegnarsi affinché la situazione economica della Germania (unico tra i grandi Paesi europei a non aver sofferto duramente per la crisi senza aver dovuto rivoluzionare il proprio tessuto economico), l’orientamento fortemente europeista dei suoi governi recenti e le pressioni operate da questi affinché politiche di austerity venissero implementate al fine di arginare la «emorragia finanziaria mediterranea» non portino una parte considerevole dell’opinione pubblica a percepire l’Unione Europea come un astuto mezzo della Germania di imporre la propria egemonia sul continente.

    Quanto affermato da Marine Le Pen nel recente dibattito presidenziale televisivo (ovvero che, qualunque fosse stato l’esito delle elezioni, la Francia sarebbe stata guidata da una donna: lei stessa o Angela Merkel) è una mossa tanto ’vile’ quanto astuta, poiché colpisce nel segno le paure di coloro i quali, non potendo (per vari motivi) comprendere i meccanismi che regolano l’Unione Europea e la gestione degli equilibri di potere tra gli Stati membri, già da tempo covano questo cupo sentimento di diffidenza.

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