La nostra Europa, dopo Parigi

, di Flavio Brugnoli

La nostra Europa, dopo Parigi

La notte di terrore e di morte del 13 novembre 2015 che ha sconvolto Parigi rimarrà per sempre nella memoria di noi europei. È stata presa di mira la quotidianità del nostro vivere civile, in particolare di tanti giovani. È stato «terrorismo» nel senso più letterale, concepito per seminare il panico e l’angoscia del «potrebbe capitare a ognuno di noi». Proprio in questi momenti, provare a dipanare la matassa delle tante variabili che si intrecciano, in un labirinto in cui rischiamo di perdere razionalità e speranza, diventa ancora più importante.

Anche il Presidente François Hollande, nel suo teso e accorato messaggio notturno ai francesi, ha riconosciuto che oggi è difficile non avere paura, ma che non possiamo cedere alla paura. Abbiamo più che mai bisogno che sia una «paura attiva», che sappia trasformarsi in iniziative su più fronti e con più obiettivi. Dobbiamo sforzarci di tenere insieme breve e medio termine, emergenza del presente e costruzione del futuro, fermezza nella risposta e lungimiranza nella strategia.

La violenza terroristica contro civili inermi ha già colpito in Europa, basti ricordare le stragi alle stazioni ferroviarie di Madrid, nel 2004, e nella metropolitana di Londra, nel 2005. E non sono certo meno presenti nei nostri pensieri le tante vittime degli atti di barbarie perpetrati l’11 settembre 2001 a New York e Washington, a Mumbai nel 2006 e 2008, sulla spiaggia tunisina di Sousse nel giugno scorso, e – nel giro di poche settimane – al corteo pacifista ad Ankara, con l’aereo russo esploso in volo sul Sinai, nei giorni scorsi nel mercato di Beirut.

Quello che oggi è nuovo è la presenza di un nemico come l’ISIS (lo «Stato Islamico» – Daesh in arabo) che assolutizza la violenza integralista, cerca di radicarsi in un territorio (con il nuovo «Califfato», tra Iraq e Siria), è in grado di creare una rete di alleanze e di colpire con la violenza terroristica in altre aree del mondo. Un soggetto che ha attirato tanti foreign fighters occidentali e che ha offerto un potente collante ideologico, specie in tempi di crisi economica, alle frustrazioni delle frange più estremistiche delle comunità musulmane in Europa.

Come indicato anche dal ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni, la risposta europea alla minaccia dell’ISIS non può che essere su più piani, se vuole risultare efficace e di lungo respiro: agire capillarmente per prevenire gli attacchi terroristici, anzitutto con un’azione più incisiva d’intelligence; contrastare sul campo Daesh, consapevoli di avere di fronte un nemico per tutto l’Occidente; affrontare la sfida culturale posta dall’integralismo islamico, a fianco di chi promuove un Islam tollerante e rispettoso dei diritti e doveri su cui si fondano le nostre democrazie.

L’ISIS è anche parte di una battaglia politica all’interno dell’Islam, sunnita e scita, che ha oggi nel sanguinoso conflitto in Siria il suo cuore. Vi è quindi un compito irrinunciabile per l’Islam moderato, perché il «nemico interno», da sconfiggere culturalmente, è tanto loro quanto nostro. Nel contempo, è necessario costruire una coalizione internazionale la più ampia e legittimata possibile per sconfiggere anche militarmente l’ISIS. Ci sono momenti tragici in cui l’uso della forza può diventare inevitabile per le democrazie, perché il prezzo pagato domani per l’eventuale inerzia di oggi potrebbe essere ben più alto dei rischi che sappiamo di correre – memori degli errori fatti in Iraq e in Libia.

Non è un caso che a essere colpita così duramente dalla furia terroristica sia anzitutto la Francia, il paese più attivo al di fuori dei confini europei nella lotta contro la violenza integralista, non solo con i bombardamenti in Siria, a fianco degli americani, ma anche con gli interventi in Mali e nel Sahel. Ma non possiamo lasciare a un solo membro dell’Unione un compito che richiede il massimo d’intesa contro un nemico comune. Tanto più di fronte al paradosso del devastante impatto mediatico degli attentati di Parigi rispetto a una realtà di sconfitte militari dell’ISIS sul terreno, specie dopo l’entrata in azione (non priva di ambiguità) della Russia nei cieli siriani.

Ma la sola risposta militare non potrà mai bastare, va percorsa con determinazione anche la via della diplomazia. Al recente vertice di Vienna sulla Siria si sono fatti passi avanti importanti, mettendo attorno allo stesso tavolo paesi che sembrava impossibile far dialogare (dalla Turchia all’Arabia Saudita, dall’Iran all’Iraq) e fondamentale è stata la sintonia fra Stati Uniti e Russia nel disegnare un possibile percorso verso il cessate il fuoco. Altri segnali forti e unitari sono venuti dal G20 riunito ad Antalya, speriamo utile anche per chiarire il ruolo che intende svolgere nell’area la Turchia. L’approdo politico, ancora molto incerto e lontano, potrebbe essere quello di dar vita a una Siria federata.

Quanto all’Europa, è sotto gli occhi di tutti che gli Stati nazionali sono sempre più impotenti di fronte a fenomeni – dalla crisi economica, ai migranti, al terrorismo – che richiedono strumenti e azioni su scala transnazionale. Saremo più forti e credibili se le nostre parole di solidarietà saranno accompagnate dall’indicazione di passi concreti da compiere insieme e dei tempi e modi in cui compierli. Ancor più in queste ore, sia consentito ricordare al Presidente Hollande che nel maggio 2013 chiese di arrivare a «un’Unione politica entro due anni». Quella rimane la strada da seguire: sarebbe un errore madornale farsi schiacciare sullo «stato di emergenza» (quello proclamato e quello nelle nostre menti), senza porre le basi per un salto di qualità europeo.

I passi da annunciare, e attuare al più presto, possono essere molti: dalla creazione di un servizio di intelligence europea, all’attivazione di una «cooperazione strutturata permanente» per una guardia costiera e di frontiera europea e poi per un nucleo di difesa europea, alla definizione di una politica d’immigrazione e asilo davvero europea (sapendo distinguere – per dirla con Mario Calabresi – «tra chi è pericoloso e chi è in pericolo»), a un credibile investimento collettivo in quella «strategia globale dell’Ue» alla quale sta lavorando l’Alto Rappresentante Federica Mogherini. Fino alla volontà di dare sostanza, in un orizzonte di tempo ben definito, a una effettiva Unione politica, incentrata sull’Eurozona (aperta a chi vi vorrà partecipare). In tutto questo l’Italia può e deve avere un ruolo d’avanguardia.

Quando accadono crimini terribili come quelli nella notte del 13 novembre, sentiamo ancor di più quanto Parigi e la Francia siano parte di noi, della nostra cultura e della nostre idea di che cosa fa ricco e bello il vivere, in quell’intreccio di culture che fa l’unicità dell’Europa. E scopriamo come tante elucubrazioni sulla supposta mancanza di un demos europeo lascino il posto a una spontanea solidarietà fra europei, prova tangibile di quella “cittadinanza europea” che ci unisce. Non possiamo illuderci che non ci saranno altri giorni cupi, o che più sicurezza non voglia dire anche un po’ meno libertà. La lotta fra libertà e barbarie, fra modernità e oscurantismo sarà lunga e dura. Difendiamo la nostra democrazia (anche) costruendo la nostra Europa unita.

1. Articolo originariamente pubblicato come Commento del Centro Studi sul Federalismo

2. Fonte immagine Pixabay

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