Nel giugno 1990 e cioè sei mesi dopo la caduta del Muro di Berlino ma tre anni prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, gli allora dodici Stati membri dell’Unione europea sottoscrissero a Dublino una Convenzione internazionale per il controllo delle frontiere esterne che completava così l’accordo di Schengen del 1985 che riguardava l’abolizione dei controlli alle frontiere interne. Da allora le procedure di gestione delle frontiere interne ed esterne sono state progressivamente comunitarizzate, cioè le competenze legislative sono ora condivise fra l’Unione europea e gli Stati membri, le decisioni europee sono adottate dal Consiglio e dal Parlamento europeo su proposta della Commissione e tutta la materia rientra nella capacità giurisdizionale della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Nonostante la “comunitarizzazione” e il fatto che il Trattato di Lisbona abbia stabilito che l’immigrazione e l’asilo sono un “problema comune” (con buona pace per Giorgia Meloni che si è intestata questa “vittoria” al Consiglio europeo del 9 febbraio) la gestione delle frontiere esterne è rimasta di fatto nelle mani degli Stati e il principio della cosiddetta prima accoglienza nello Stato di arrivo di chi richiede una protezione internazionale è rimasto immutato dal 1990 e tutti i tentativi di adeguare il “sistema di Dublino” alla nuova realtà geopolitica sono finora falliti. Dall’inizio del nuovo secolo, con l’aumento della conflittualità nei paesi vicini (Siria, Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen) e delle inaccettabili condizioni di vita nell’Africa sub-sahariana, i movimenti di popolazioni sono progressivamente aumentati nelle rotte mediterranee insieme alle decine di migliaia di naufraghi e sulla rotta balcanica creando fenomeni ingiustificati e ingiustificabili di intolleranza da una parte nei paesi costieri (Spagna, Francia, Italia, Grecia, Cipro e Malta) sottoposti ad una pressione di flussi migratori solo apparentemente più elevata di quella reale nei paesi del Nord dell’Europa (Germania, Svezia, Danimarca, Svezia) e d’altra parte un inaccettabile rigetto del principio di solidarietà da parte dei paesi di transito (Ungheria, Polonia, Croazia).
Nonostante la “comunitarizzazione” delle politiche migratorie, l’Unione europea è stata incapace da allora di adottare politiche adeguate per governare quei flussi di popolazioni dalle aree di conflitto e dalle regioni martoriate dell’Africa sub-sahariana, per garantire i salvataggi in mare, per aiutare quelle regioni martoriate a uscire dal sottosviluppo, per avviare politiche di ordinata e umana accoglienza, per introdurre politiche di inclusione – in collaborazione con i poteri locali e con le organizzazioni del volontariato – al fine di assicurare la sicurezza dei migranti insieme alla sicurezza delle popolazioni europee, per integrare i nuovi cittadini nel mondo del lavoro e nei valori delle nostre società. Cosicché l’incapacità dell’Unione europea ha provocato paure ancestrali di cui hanno approfittato movimenti di reazione politica in quasi tutti i paesi europei rafforzando le pulsioni populiste di chi era ed è convinto che si possano arrestare i flussi migratori e che l’Europa che respinge sia un modello da costruire a vantaggio delle nostre economie e della ricchezza delle nostre culture. La decisione del Consiglio europeo del 9 febbraio di chiedere alla Commissione europea di mobiliare «immediate e ingenti risorse finanziare» per chiudere le nostre frontiere esterne non è dunque sorprendente ed è l’insensata conclusione di un processo iniziato da anni e reso possibile dalla mancanza di politiche comuni e dalla assurda immutabilità del “sistema di Dublino”.
La disperazione – nel senso letterale della mancanza di speranza – dei migranti economici, irregolari e illegali insieme ai richiedenti asilo non potrà essere fermata dalle infrastrutture, dalle «soluzioni innovative e tecnologiche», dalle torrette e dalla sorveglianza aerea, marina e terrestre che sono state sciaguratamente immaginate – su proposta della Commissione europea – nel Regolamento 2021/1148 adottato di comune accordo dal Consiglio e dal Parlamento europeo nel luglio 2021 che prevede uno stanziamento di 6.4 miliardi di Euro fino al 2027 per rafforzare i controlli alle frontiere esterne «nel rispetto – si dice con involontaria ironia – della Carta dei diritti fondamentali».
A conclusione del Consiglio europeo del 9 febbraio, il portavoce della Commissione europea Eric Mamer ha certo reiterato l’affermazione pronunciata un anno fa da Ursula von der Leyen secondo cui la Commissione europea non finanzierà «muri e fili spinati» non escludendo tuttavia la possibilità che singoli Stati li costruiscano a loro spese.
Per reagire alla volontà unanime dei governi di gettare le basi di una “Europa fortezza”, abbiamo deciso con una rete significativa di organizzazioni della società civile di indirizzare una petizione urgente al Parlamento europeo coscienti della difficoltà di essere non solo ascoltati – giacché la commissione per le petizioni del Parlamento europeo ha l’obbligo di ascoltarci – ma di riuscire a frenare questo scempio del diritto e delle convenzioni internazionali. Siamo coscienti della difficoltà della nostra iniziativa perché, di fronte alla unanimità dei governi, solo una parte maggioritaria delle organizzazioni che aderiscono al Movimento europeo ha accettato di sostenete la petizione ma una minoranza ha preferito invece restare in un silenzio assordante.
Andremo avanti con la nostra iniziativa convinti che alla fine prevarranno la forza della ragione e del e del diritto.
La sottoscrizione della petizione è aperta fino al 24 febbraio (anniversario dell’invasione dell’Ucraina) e poi sarò inviata al Parlamento europeo in tempo utile prima del Consiglio affari interni e giustizia del 9 marzo
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