La rivolta contro la ragione

, di Antonio Longo

La rivolta contro la ragione
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La lotta alla pandemia e al mutamento climatico mostra, più di altre sfide, che stiamo vivendo un vero e proprio cambiamento d’epoca, più che un’epoca di cambiamenti, come ebbe a dire tempo fa Papa Francesco. Un cambiamento che scuote dalle fondamenta assetti consolidati della nostra convivenza sociale e politica, come pure idee e grandi narrazioni che li hanno finora rappresentati.

Il cuore della crisi sta nel modo con cui gli esseri umani hanno organizzato, nel corso della storia, la loro convivenza politica: un sistema di Stati, assolutamente indipendenti gli uni dagli altri, cioè “sovrani”, come si è tornati a dire, utilizzando un termine – poco felice - che rievoca l’idea del “sovrano” dell’epoca delle monarchie assolute. Un sistema che, in epoca moderna, nasce con la pace di Vestfalia (1648), con la quale gli Stati si riconoscono tra loro proprio come entità a sé stanti, Stati a sovranità assoluta, al di là delle loro connotazioni politiche, ideologiche o religiose. Con la conseguenza, nella cultura politica e nella psicologia dei sudditi (poi cittadini), che per “interesse generale” s’intenderà quello ‘nazionale’, non quello dell’umanità. Il prodotto ultimo di questo pensiero è l’ideologia di “America first” che ha finito per espandersi un po’ dappertutto. E che porta a disconoscere l’esistenza dell’interesse dell’umanità.

Questo modello, però, non è più in grado di gestire un mondo sempre più globalizzato nell’economia, nell’informazione, nella cultura, nella vita sociale e di relazione. In Europa, da settant’anni, sta andando avanti un altro modello, quello dell’interdipendenza tra gli stati europei, secondo una logica federale: l’unità sovranazionale (nelle competenze attribuite all’Unione) con il mantenimento degli Stati (per i settori che restano nella loro esclusiva competenza). Di fatto, il riconoscimento di un interesse generale sovranazionale, inclusivo dei singoli stati: una “ragione europea” che comprende quella nazionale.

Lo abbiamo visto all’inizio della crisi pandemica, quando l’Unione europea - per sopravvivere - ha dovuto riconoscere ancor più la necessità dell’interesse europeo. “Nessun Stato può far da solo” disse Angela Merkel (aprile 2020) di fronte al rischio di un tracollo dell’economia europea. La risposta fu il varo degli investimenti europei (NextGenEU), garantiti da un bilancio europeo che incorpora il debito comune che deriva dagli investimenti. Il Recovery Plan for Europe è dunque una svolta epocale, proprio perché fa emergere il riconoscimento di un interesse generale ancor più forte: la solidarietà europea, unita alla responsabilità e al controllo collettivo delle risorse erogate agli Stati. Una vittoria dell’interesse generale e della ragione.

Una svolta è significativa se riverbera i suoi effetti anche sui comportamenti delle persone, delle forze sociali e delle classi politiche. Senza il Recovery non ci sarebbe stato l’avvio di una politica europea sui vaccini, ad esempio; nessuno avrebbe pensato di avviare le riforme in Italia, dalla giustizia alla P.A, alla concorrenza e altro ancora; il problema dello stato di diritto in Polonia sarebbe rimasto un fatto “interno”. Considerazioni analoghe si potrebbero fare per la politica estera e di sicurezza europea che, solo ora, può cominciare a diventare il nuovo tema catalizzatore della politica europea: il Trattato del Quirinale tra Francia e Italia sta in questo quadro.

La bussola strategica, dunque, sta nel saper individuare l’interesse generale europeo e di rendere quello nazionale conforme ad esso: ciò che sta bene per l’Europa sta bene per il nostro Paese.

Se, al contrario, la politica non persegue l’interesse generale, aggrava la crisi o ne ritarda gli sbocchi positivi. Lo vediamo con i ritardi o gli appuntamenti mancati dalle varie COP nella lotta al cambiamento climatico, ad esempio. In questi casi, allora, è inevitabile che molti cittadini finiscano per pensare che convenga rifugiarsi tra gli antichi interessi particolari, di gruppo sociale o politico, rappresentati dal proprio Stato-nazione, come pure di coltivare le rasserenanti certezze ideologiche di un tempo.

È ciò che sta accadendo con le rivolte urbane contro il Green Pass, espressione, in ultima istanza, del rifiuto di adottare i nuovi comportamenti di responsabilità che il cambiamento rende necessari. Non è un caso che questo “sonno della ragione” si manifesti più in Europa che altrove. È in Europa che si è sviluppato fortemente il senso della libertà individuale, della democrazia e della giustizia sociale, ma in un quadro politico (quello nazionale) che un tempo li tutelava e li garantiva. Quel quadro politico ora non garantisce più – di per sé - quei valori ed allora la rivolta irrazionale si scaglia contro ciò che rappresenta il cambiamento, a Roma, a Trieste, a Milano, ad Amsterdam, a Bruxelles, a Parigi ….

E la rivolta contro la ragione europea che cerca di interpretare il cambiamento epocale che stiamo vivendo diventa poi rivolta anche contro la scienza. Un cortocircuito pericoloso ed esplosivo.

La ragione europea è la sola risposta che possiamo offrire all’irrazionale e al nazionalismo che emerge dalla crisi e che la alimenta. Una ragione che vale anche per il Mondo.

L’articolo è uscito sull’edizione cartacea de «La Prealpina» deò 27 novembre 2021

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