L’anno passato è stato ricco di sfide per l’Unione Europea, prima tra tutte la lotta alla diffusione della pandemia da Covid-19 e la difficoltà nel mettere a punto un piano condiviso di contrasto alla crisi economica e sociale. Queste non sono state le uniche preoccupazioni per i cittadini di alcuni paesi dove anche la democrazia e il rispetto dei diritti civili sono stati messi sotto stress.
Una serie di ostacoli alla libertà dei cittadini e delle istituzioni sono stati posti dalla Polonia dell’euroscettico Andrzej Duda, esponente del partito è Diritto e Giustizia (PiS) appartenente alla famiglia europea del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei (ECR). Le elezioni presidenziali che lo scorso luglio lo hanno riconfermato alla guida del paese lo hanno visto trionfare al secondo turno con il 51% dei consensi. Duda attualmente è anche alla guida del Gruppo di Visegrad, l’alleanza regionale più critica delle politiche europee.
Il paese si posiziona 62esimo nella classifica 2020 dell’Indice mondiale della libertà di stampa, perdendo tre posizioni rispetto all’anno precedente, uno dei risultati peggiori in termini di ranking all’interno dell’Unione Europea.
Secondo Reporters Without Borders (RSF), infatti, la spinta del governo a soggiogare il sistema giudiziario e una crescente tendenza a criminalizzare il dissenso stanno cominciando ad avere un effetto deleterio sulla libertà di parola dei media indipendenti. Un’applicazione liberticida dell’articolo 212 del codice penale in materia di diffamazione, in base al quale i giornalisti possono essere condannati fino a un anno di reclusione, sta incoraggiando l’autocensura da parte dei media indipendenti.
Il sistema giudiziario è uno degli ambiti su cui la Polonia è stata criticata più criticata da Bruxelles; nel gennaio 2020 è stata approvata una legge che permette al governo di punire con multe o licenziamenti i giudici che ne criticano le riforme giudiziarie e le nomine di cariche pubbliche, e che proibisce ai giudici di svolgere qualsiasi attività pubblica che possa essere considerata politica. La Corte Suprema polacca, inoltre, aveva già fatto notare come fossero illegittimi alcuni giudici del Krs (il Consiglio nazionale della magistratura), scelti direttamente dal governo grazie a una legge introdotta nel 2018. I giudici del Krs hanno tra le proprie funzioni anche la nomina dei membri della Corte suprema, che da anni il partito Diritto e Giustizia cerca di controllare. Anche la Corte di giustizia europea, in un pronunciamento ha affermato che il meccanismo di nomina “è passibile di violazione del diritto comunitario".
Altra fonte di preoccupazione è rappresentata dallo stretto legame tra clero e politica a livello governativo. La maggior parte dei vescovi polacchi, così come diversi sacerdoti, sostiene apertamente il PiS, partito che si è radicalmente schierato a difesa valori cattolici tradizionali e ha preso posizioni restrittive della libertà delle donne, contro il divorzio e contro le persone LGBTQI.
A gennaio nel paese è entrata definitivamente in vigore una controversa revisione della norma circa l’interruzione di gravidanza; essa vieta l’aborto anche in caso di malformazione del feto e sancisce il divieto quasi totale di abortire. Attualmente, sono penalmente perseguibili sia il medico che esegue l’aborto sia chiunque aiuti in qualsiasi modo la donna ad interrompere la gravidanza. La Polonia aveva già una delle legislazioni sull’aborto più restrittive d’Europa; approvata nel 1993, consentiva l’aborto solo in caso di pericolo di vita per la madre, stupro e, appunto, grave malformazione del feto.
La legge trae la sua legittimità da una sentenza della Corte costituzionale dello scorso ottobre che afferma non possa esserci tutela della dignità di un individuo senza la protezione della vita.
La ratifica della modifica era stata ritardata per via delle enormi manifestazioni e proteste che avevano ampiamente coinvolto la società civile: studenti, movimenti femministi, organizzazioni per i diritti LGBTQI.
L’ulteriore limitazione dei diritti riproduttivi crea una discriminazione sociale ed economica e rappresenta un ulteriore passo verso l’autoritarismo e la limitazione delle libertà delle donne; tra le 100mila e le 200mila donne polacche ogni anno sarebbero infatti costrette a ricorrere all’aborto clandestino o ad andare all’estero per poterne avere accesso.
Il sostegno di diversi gruppi religiosi cattolici e del clero politicizzato vicino al PiS ha certamente agevolato l’introduzione di queste pesanti restrizioni. La scelta di scavalcare il Parlamento e delegare la questione al Tribunale costituzionale è stata il tassello fondamentale; infatti, esso è composto per la maggior parte da giudici conservatori e filogovernativi, nominati dal governo con quella serie di forzature procedurali denunciate anche dalla Commissione europea e dalla leader dello Strajk Kobiet (Polish Women’s Strike) Marta Lempart, “le persone che partecipano al processo “giudiziario”, infatti, non sono giudici legalmente nominati”.
Per quanto riguarda invece l’atteggiamento polacco nei confronti dell’Unione Europea, ci imbattiamo nelle dispute sul Recovery Plan “Next Generation EU”, sul bilancio Ue per il 2021-2027 e sulle delle presunte differenze di trattamento che hanno scaturito dissapori anche all’interno dello stesso Gruppo di Visegrad. Un veto in seno alle trattative nel Consiglio europeo era stato minacciato dai governi di Budapest e Varsavia, concordi nel respingere il nesso tra l’elargizione dei fondi e il rispetto dello stato di diritto, con particolare riferimento all’importanza di un sistema giudiziario indipendente.
La situazione si è poi sbloccata lo scorso dicembre grazie alla mediazione di Angela Merkel e vincolando la messa in pratica del meccanismo di condizionalità ad una pronuncia di legittimità della Corte di Giustizia, ma rimangono alta le preoccupazioni delle istituzioni europee sulla sorte dei diritti democratici, anche perché gli altri Paesi sembrano poco disposti a fare la voce grossa con Polonia ed Ungheria.
Per il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki il veto era una manifestazione di dissenso nei confronti della politica di Bruxelles, definita oligarchica e anti-polacca. Per Morawiecki, infatti, la questione dello stato di diritto è uno strumento propagandistico contro le priorità e volontà politiche del governo. Critica che risulta pretestuosa considerando che la Polonia è il paese che beneficia di più in valori assoluti dei fondi di coesione, pari al 2,7% del Pil all’anno nel periodo 2014-2020 ed è il terzo paese che beneficerà di più dell’operazione Next Generation EU dopo Italia e Spagna.
Sembra che Bruxelles al momento faccia fatica di intervenire in modo incisivo. Le raccomandazioni della Commissione e le risoluzioni Parlamento non sono vincolanti e l’attivazione dell’Articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea, adottabile solo con un voto all’unanimità nel Consiglio Europeo, non sembra arrivare ad una conclusione perché al Consiglio l’Ungheria protegge la Polonia e viceversa. All’epoca, previsioni un po’ troppo ottimiste non avevano preconizzato la possibilità che lo stato di diritto venisse violato in due stati nello stesso momento, condannando il sistema ad una inefficacia di fatto.
Nel lungo periodo una riforma delle istituzioni europee in senso democratico e federalista risulta particolarmente necessaria proprio per contrastare l’Europa illiberale a “modello Bancomat” desiderata dalla Polonia di Duda. Tuttavia, senza un’azione condivisa e attuata in tempi brevi, rischiamo che il paese smantelli lo stato di diritto prima che questo possa accadere; i diritti sanciti dai trattati europei sono sempre più a rischio in Polonia, soprattutto per le minoranze etniche e religiose, l’opposizione politica e le persone LGBTQI. Non possiamo chiudere gli occhi e girarci dall’altra parte.
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