La sovranità nell’era dell’interdipendenza globale

, di Franco Spoltore

La sovranità nell'era dell'interdipendenza globale

Nella misura in cui aumenta l’interdipendenza tra gli Stati e le società in tutti i settori che riguardano la vita degli individui, da quello della sicurezza a quelli della produzione e del consumo dei beni che sono alla base del benessere e del comfort su cui si basa il tenore di vita raggiunti dall’umanità, si diffondono ed approfondiscono dubbi ed interrogativi nelle opinioni pubbliche su dove risiedano ormai la sovranità ed il potere di decidere, cioè su quale sia il ruolo degli Stati e degli individui nel governare processi che ormai superano la dimensione sia locale sia nazionale del governo. E’ a partire da questo dato di fatto che vanno inquadrati i due fenomeni che stanno condizionando sempre più la lotta e il dibattito politici nella società. Lotta e dibattito che sono alla base dei processi in atto di integrazione su scala continentale e mondiale, ma che stanno alimentando le rivendicazioni per il recupero della sovranità a livello delle istituzioni che dovrebbero gestire il potere di agire ai vari livelli. Un problema che oggi in Europa rischia di far deragliare il processo, che pure è in corso, di creare le istituzioni sovranazionali, da un lato indispensabili per orientare lo sviluppo del mondo verso un ordine più pacifico, più democratico e dall’altro ecologicamente più sostenibile. Un deragliamento che farebbe ritornare alla competizione violenta tra e negli Stati e che segnerebbe, nonostante le intenzioni di chi rivendica un recupero della libertà di decidere, l’imbarbarimento delle relazioni politiche e sociali, cioè un arresto del processo di civilizzazione dei rapporti umani e del progresso. Quanto sta accadendo in Europa, con il riaffacciarsi delle aspirazioni nazionaliste, è a questo proposito emblematico.

Come mostrano le prese di posizione di alcuni governi sulle finalità del processo di unificazione europea ed i referendum di rivendicazione dell’indipendenza regionale — cioè del ritorno ad una chimerica sovranità assoluta — di regioni quali la Scozia e la Catalogna, la nostalgia per una immaginaria età dell’oro nazionale del passato sembra prevalere sulla capacità di innovare. Ma si tratta di rivendicazioni incompatibili con il processo di globalizzazione della produzione, dell’economia e delle relazioni sociali, perché stenta ad affermarsi un modello istituzionale sovranazionale a cui riferirsi per superare queste contraddizioni. In tutto ciò l’Europa ha una enorme responsabilità politica e storica. E’ infatti in Europa che urgente risolvere il problema di come inquadrare ed applicare il principio della sovranità in un mondo sempre più interconnesso ed interdipendente. Si tratta di un problema che è strettamente collegato a quello della divisione e condivisione dei poteri tra i vari livelli di governo nell’ambito di una comune giurisdizione.

Su questi aspetti, su cui si gioca il futuro della democrazia in un sistema mondiale di Stati sempre più interdipendenti e costretti dal corso della Storia ad incamminarsi sulla strada dell’integrazione su scala continentale e mondiale, occorre tenere aperto il dibattito ed il confronto per decidere come e tra chi promuovere il passaggio dall’era degli Stati nazionali sovrani a quella degli Stati interdipendenti e uniti del mondo. In tutto ciò l’Europa ha un ruolo storico da giocare, a patto di riuscire a colmare il deficit di governo sovranazionale che la rende impotente e fonte di disordine internazionale. Ma, per farlo, deve vincere le nostalgie di un passato basato su confronti politici divisivi che si rifanno ad una concezione assolutista e populista della sovranità e non considerano la ricchezza e la complessità del mondo così come si va configurando, che non si può ridurre ad una serie di conflitti tra tanti centri ed altrettante periferie del governo degli affari del mondo. Oggi è l’antagonismo più o meno fondato e giustificabile fra centri e periferie a nutrire i populismi [1].

Ma è sul terreno della rivoluzione digitale che si registrano le maggiori contraddizioni nelle nostre società, ancora prigioniere di credenze e dibattiti su modelli di crescita basati su un modo di produrre che è in continua e rapida trasformazione e su una rappresentazione ideologica della composizione della società post-industriale che non corrisponde più alla realtà. In un mondo in cui i processi produttivi seguono ormai i tempi ed i metodi di trasferimento dell’informazione, nella misura in cui quest’ultima diventa onnipresente e facilmente disponibile ed accessibile in tempo reale su scala mondiale, sono destinati a trasformarsi anche ruoli, profili professionali e comportamenti urbani. Tutto ciò implicherebbe l’esistenza di una legislazione adeguata, operativa e condivisa ormai su scala globale, cioè una federazione mondiale con un ordine gerarchico istituzionale e giuridico sovranazionale condiviso al quale potersi riferire ed appellare. Ma oggi non solo un simile ordine non esiste ancora a livello globale. Esso non esiste neppure a livello continentale in quelle parti del mondo, come l’Europa, dove i processi di integrazione sono più avanzati e dove, per esempio, non è tuttora ancora chiaro chi è sovrano per decidere se, come e quando fare applicare le leggi nazionali in campo fiscale nei confronti delle nuove multinazionali. Come pure esiste il problema del tipo di difesa di cui sapranno e vorranno dotarsi i paesi europei, e in particolare Francia e Germania, per garantire e promuovere la sicurezza ed il benessere dei propri cittadini. Per questo il terreno su cui sarebbe necessario e possibile avanzare oggi resta quello di incominciare a innescare lo sviluppo istituzionale a partire dalle integrazioni regionali su scala continentale. In particolare, per quanto riguarda l’Europa, cioè l’area nel mondo in cui è più avanzato il processo di unificazione su scala continentale, questo implica dare una consistenza politica all’area euro, cioè all’area in cui maggiori passi avanti sono già stati compiuti per superare il principio della sovranità nazionale. A questo proposito bisogna osservare che, nonostante le difficoltà, la struttura dell’eurozona, prevedendo la fine della sovranità monetaria senza averne ancora creata una in campo fiscale ed economico, ha creato due sfide permanenti alla sua tenuta. Da un lato l’unione monetaria ha posto le condizioni per condurre un’unica politica monetaria, ma con economie diversamente sviluppate che non sono sincronizzate dal punto di vista dei cicli produttivi e commerciali; mentre dall’altro lato la forza della moneta dell’unione ha fatto sì che anche i governi meno responsabili potessero finanziare le rispettive politiche anziché tassando i propri cittadini, prendendo a prestito sul mercato le grandi somme di denaro di cui avevano bisogno sfruttando i bassi tassi di interesse sui prestiti garantiti dall’esistenza di un’unione monetaria continentale. Affrontare entrambi questi fenomeni con un’unione non completamente sovrana rispetto ai suoi membri sul terreno fiscale e per quanto riguarda gli indirizzi della politica economica, anziché risolvere le crisi, finisce ogni volta con l’acuire sempre più le contraddizioni e gli squilibri fra i suoi Stati membri, minandone la sopravvivenza. In questo senso la scelta tra unirsi davvero. superando la dimensione nazionale o sub-nazionale della sovranità, e perire è destinata a restare la vera discriminante nella lotta politica in Europa ed il terreno di confronto tra chi vuole la conservazione dello status quo e chi invece vuole promuovere il progresso.


[1] Carlo Bastasin, È l’antagonismo centro-periferia a nutrire i populismi, Il Sole 24ore, 13 ottobre 2017: “se esiste nei paesi occidentali qualcosa che li accomuna tutti, come fenomeni sociali e politici caratteristici degli ultimi venti anni, è il difficile adeguamento degli individui alla rapida trasformazione delle strutture economiche nell’era delle nuove tecnologie, del commercio globale e dello spostamento dall’industria ai servizi. Rispetto a tale trasformazione industriale sono in atto due distinti tipi di reazione. Nelle regioni che per motivi geografici e storici sono ben inserite nelle catene produttive globali (Catalogna, Veneto, Lombardia, Great London, Olanda, Baviera e così via) la trasformazione ha provocato degli aggiustamenti per gli individui, tra cui l’accentuata mobilità e un’autonomia fonte di incertezza, che li ha resi insofferenti alle inerzie degli Stati d’origine e di chi ai loro occhi continua a vivere al riparo dalla concorrenza. Nelle regioni alla periferia del cambiamento globale (Stati centrali degli Stati Uniti, vaste regioni della Russia, Nord dell’Inghilterra, Grecia, Mezzogiorno di Italia e Spagna, Germania orientale) si è sviluppata una sindrome di arretramento e talvolta di impotenza. In tutte queste regioni la trasformazione industriale è aggravata dal declino delle ingenti immobilizzazioni di capitale dell’industria pubblica degli anni Cinquanta-Settanta o dei bacini di materie prime ad alta intensità di lavoro, diventato metafora del carente supporto pubblico agli individui. Al tempo stesso, in quasi tutte queste regioni è più penosa, sia culturalmente sia geograficamente, la mobilità degli individui che finisce per implicare una perdita di radici e che accresce un sentimento di vittimistica nostalgia”.

Articolo pubblicato su «L’Unità Europea» (2019/3).

Fonte immagine: Flickr.

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