Il problema del finanziamento con debito delle spese dell’Unione si inserisce in un quadro confuso in cui l’economia mondiale deve affrontare una situazione di estrema difficoltà per una serie di problemi legati alla situazione geopolitica, alla transizione ecologica e digitale e al disordine creato dalla nuova amministrazione americana. In questo quadro complesso, nell’Unione europea, secondo le stime contenute nel Rapporto Draghi sulla competitività [1], “è necessario un investimento supplementare annuo minimo compreso tra 750 e 800 miliardi di euro, secondo le stime più recenti della Commissione, corrispondente al 4,4-4,7% del PIL dell’UE nel 2023”.
Se si tiene conto del fatto che l’invasione russa dell’Ucraina ha reso urgente rafforzare la politica di sicurezza per la protezione dell’Unione, secondo le stime di Bruegel: “la spesa europea per la difesa dovrà aumentare significativamente rispetto all’attuale livello di circa il 2% del PIL. Una prima valutazione suggerisce che, nel breve termine, sarebbe giustificato un aumento di circa 250 miliardi di euro all’anno (fino a circa il 3,5% del PIL)” [2].
In definitiva, una stima realistica del costo annuale per la produzione di beni pubblici europei può essere valutata intorno ai 1.000 miliardi di euro annuali. Se si tiene presente che nel Rapporto Draghi le spese previste per la sicurezza ammontano a 50 miliardi, qualora vengano aggiunti altri 200 miliardi destinati alla difesa per raggiungere il livello suggerito da Bruegel, si raggiunge questa enorme cifra di 1.000 miliardi addizionali annuali. Sempre secondo il Rapporto Draghi, in generale si può stimare che, sul totale degli investimenti da effettuare, circa il 20% siano da finanziare con risorse pubbliche, cifra probabilmente sottostimata, almeno in una fase iniziale, in quanto gli investimenti privati dovranno essere incentivati con risorse pubbliche. In definitiva, le risorse addizionali che dovranno essere disponibili annualmente nel bilancio europeo oscillano fra i 200 e i 250 miliardi di euro.
Si tratta di una cifra che appare assolutamente fuori portata per la finanza attuale dell’Unione. Si tratta quindi di individuare nuove forme di entrata per sostenere questi investimenti. La prima via è rappresentata dall’emissione di titoli di debito europei che potrebbero favorire altresì la creazione di un safe asset per i Paesi che cercano di uscire dalla dipendenza rispetto al dollaro, come la Cina e altri Stati del Sud del mondo. Ma, anche in questo caso, dovranno essere messe a disposizione del bilancio le somme necessarie per il servizio del debito (nel caso del servizio delle emissioni effettuate nel quadro di NGEU la Commissione stima che annualmente siano già necessari 30 miliardi di euro).
In questa prospettiva, tenendo conto altresì della necessità socialmente inderogabile di ridurre le diseguaglianze che l’evoluzione recente della politica fiscale ha creato nella distribuzione dei redditi, occorre valutare seriamente la possibilità di introdurre una forma di tassazione dei super-ricchi residenti all’interno dell’Unione, con un’imposta che potrebbe generare un doppio dividendo: da un lato generare le risorse necessarie per la produzione di beni pubblici europei e, al contempo, garantire la produzione di servizi sociali indispensabili per evitare un ulteriore ampliamento delle diseguaglianze all’interno della società europea.
Nel periodo post-bellico si sono realizzati a livello globale notevoli miglioramenti nella distribuzione del reddito, ma negli ultimi due decenni la disuguaglianza - al netto del prelievo e dei trasferimenti - è aumentata quasi costantemente. E questo fenomeno riflette in larga misura il fatto che la politica fiscale è diventata meno redistributiva, in quanto il livello di progressività dell’imposta sul reddito si è notevolmente ridotto. Secondo i dati raccolti da Gabriel Zucman [3], la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti è aumentata drammaticamente dal 1980, con una quota detenuta dall’1% che si colloca in cima alla scala della distribuzione del reddito pari a circa il 40% nel 2016, contro il 25-30% nel 1980.
Un’analoga evoluzione si è manifestata in tutto il mondo, con un aumento della concentrazione dei patrimoni: per la Cina, l’Europa e gli Stati Uniti messi insieme, la quota di ricchezza dell’1% più ricco è aumentata dal 28% nel 1980 al 33% oggi, mentre la quota del 75% che si colloca nella parte inferiore della scala si aggira intorno al 10%.
L’accumulazione di un grande patrimonio è il frutto di capacità e di impegno personale, ma è resa altresì possibile dall’ambiente sociale e dalla disponibilità di beni pubblici. L’introduzione di una imposizione patrimoniale progressiva dovrebbe comunque garantire che, una volta detratta la somma pagata ai fini dell’imposta sul patrimonio e sulle successioni - che contribuisce a finanziare la produzione dei beni pubblici necessari per garantire l’efficacia degli sforzi individuali - rimanga una disponibilità residua per la remunerazione dell’attività e dell’impegno che hanno portato all’accumulazione del patrimonio.
E questa disponibilità residua potrà essere trasmessa, sulla base di scelte individuali, ai propri eredi, destinata a fini di utilità sociale o a sostenere attività di interesse collettivo. L’introduzione di un’imposizione patrimoniale contribuirebbe quindi a rafforzare la coesione sociale e, al contempo, le potenzialità di crescita in una società con minori diseguaglianze.
In Europa, mentre crescono le esigenze di spesa per sostenere la “doppia transizione” ecologica e digitale e le misure necessarie per garantire la difesa del continente e la sicurezza degli europei, la difficoltà di aumentare il prelievo su chi le tasse le paga è sempre più stringente, mentre i super-ricchi riescono a pagare imposte in misura praticamente inesistente.
Secondo il Global Tax Evasion Report 2024, preparato dall’EU Tax Observatory [4], vi sono molte possibilità per i super-ricchi di evitare le diverse forme di imposizione sul reddito, con conseguenti aliquote fiscali effettive pari solo allo 0%-0,5% della loro ricchezza totale. Nel frattempo, le imposte sul reddito a carico dei cittadini che non possono utilizzare forme simili di elusione arrivano a un livello compreso fra il 20% e il 50%.
Questa situazione è politicamente sempre più insostenibile, anche se qualche passo in avanti è stato realizzato con la creazione di una nuova forma di cooperazione internazionale - uno scambio automatico e multilaterale di informazioni bancarie in vigore dal 2017 e applicato da più di 100 Paesi nel 2023 - e con uno storico accordo internazionale per un’imposta minima globale per le società multinazionali approvato da oltre 140 Paesi e territori nel 2021.
Per superare questa situazione, in un recente incontro dei Ministri delle finanze dei Paesi del G20 è stata avanzata da quattro paesi - Germania, Spagna, Brasile e Sud Africa - la proposta di introdurre un’imposta patrimoniale con aliquota del 2% sui circa 3.000 miliardari che esistono a livello globale. Il Global Tax Evasion Report 2024 stima che una tassa minima a livello globale sui miliardari, con un’aliquota del 2%, genererebbe circa 250 miliardi di dollari all’anno di entrate fiscali, che consentirebbero di ridurre - almeno parzialmente - le disuguaglianze e, al contempo, di raccogliere i fondi pubblici ancor più necessari dopo gli shock economici della pandemia, la crisi climatica e i conflitti militari in Europa e in Medio Oriente.
Per quanto riguarda la situazione all’interno dell’Unione europea, nel Rapporto precedentemente citato si stima che i 499 miliardari europei - definiti come contribuenti che dispongono di una ricchezza media individuale di 4,85 miliardi di euro - godano di una ricchezza complessiva di 2.418 miliardi di euro (circa il 13% del PIL dell’Unione – che ammonta a 18.590 miliardi nel 2023 - e superiore al PIL dell’Italia, pari a 2.128 miliardi di euro).
L’imposizione commisurata al valore del patrimonio che potrebbe essere introdotta al livello dell’Unione dovrebbe prevedere un’aliquota del 2%. In Francia l’Assemblea nazionale ha approvato il 21 febbraio 2025 in prima lettura una proposta di legge che stabilisce di introdurre, sui contribuenti che godano di patrimoni superiori a 100 milioni di euro, un’imposta minima sul patrimonio al fine di tassarli fino al 2% del valore del loro patrimonio. Questa nuova imposta colpirebbe lo 0,01% dei contribuenti, ovvero circa 1.800 contribuenti.
La somma da versare al fisco da parte di ogni contribuente ultra-ricco dovrebbe raggiungere almeno questo livello, includendo quanto già versato ai fini dell’imposizione personale sul reddito, e genererebbe un gettito di 48,4 miliardi. L’obiettivo di un’imposta patrimoniale di questo tipo è di garantire - analogamente a quanto è stato definito in sede OCSE per quanto riguarda l’aliquota del 15% per una tassazione minima delle società multinazionali - che i super-ricchi paghino complessivamente un’aliquota minima rispetto al loro reddito.
In conseguenza, dal gettito dell’imposta patrimoniale verrebbe sottratto l’importo delle imposte personali che i super-ricchi attualmente già pagano (stimato pari a 6 miliardi, con un’aliquota pari nella media allo 0,25%). In definitiva, il gettito addizionale di un’imposta del 2% commisurata al patrimonio risulterebbe pari a 42,4 miliardi (pari a circa il 30% dei pagamenti iscritti nel 2024 nel bilancio dell’Unione, che ammontano a 142,6 miliardi), con un’incidenza su ciascun contribuente dell’ordine di 85 milioni.
Questa imposta minima dovrebbe essere vista sostanzialmente non come un’imposta patrimoniale, ma come uno strumento per rafforzare l’imposta sul reddito. Un miliardario che paga già l’equivalente del 2% della propria ricchezza come imposta sul reddito non dovrebbe pagare nulla di più, mentre nel caso di miliardari che attualmente pagano meno del 2% della propria ricchezza i loro pagamenti di imposta sul reddito individuale verrebbero integrati fino a raggiungere un livello pari al 2% del valore del patrimonio.
Questo meccanismo differisce da un’imposta patrimoniale del 2% per i miliardari che si aggiungerebbe all’imposta sul reddito individuale pagata, mentre l’imposta minima qui proposta rappresenterebbe semplicemente un’integrazione dell’imposta sul reddito.
Per valutare l’impatto economico di questa misura si deve tener presente che attualmente nell’Unione europea l’aliquota fiscale effettiva versata dai miliardari è pari a meno dello 0,3% della loro ricchezza e che il rendimento della ricchezza al lordo delle imposte osservato per gli individui con un patrimonio netto molto elevato è stato stimato - nel già citato Rapporto Zucman - pari in media al 7,5% all’anno (al netto dell’inflazione) negli ultimi quattro decenni. La riduzione pari al 2% dovuta alla nuova imposta inciderebbe quindi in misura non significativa.
Una tassa minima sui ricchi non risolverebbe certamente tutti i problemi di equità fiscale. È solo una parte - ma una parte importante - di un sistema fiscale ideale, insieme a un’imposta sul reddito con un’elevata progressività e a una tassa di successione ugualmente progressiva. In definitiva, la produzione di beni pubblici dovrà essere finanziata in misura maggiore - oltre che dalla tassazione indiretta sui consumi opulenti nelle società avanzate e sull’utilizzo eccessivo e dannoso di risorse naturali - attraverso un’imposizione sulla ricchezza, grazie appunto a una tassazione del patrimonio e a una significativa imposta di successione, per favorire una graduale riduzione delle diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, che rendono sempre più precaria la coesione sociale nelle nostre comunità.
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