I recenti avvenimenti che hanno interessato la Turchia hanno causato non poco scalpore e clamore nel panorama internazionale. La stampa di tutto il mondo si è soffermata sulla decisione, presa con un decreto presidenziale dello scorso 20 marzo, di uscire dalla Convenzione di Istanbul, il cui scopo è prevenire e combattere la violenza contro le donne.
Primo, tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, a firmare il trattato, l’adesione di questo Paese è stata da più parti salutata come un indicatore del miglioramento della condizione femminile. In realtà i femminicidi in Turchia sono frequenti: trecento sono stati accertati solo nel 2020, ma ci sono molti casi sospetti, che riescono ad essere mascherati come suicidi. Una bella differenza sussiste, dunque, tra la predica e la pratica. Se, infatti, da una parte, osserviamo l’iniziale sostegno della Turchia alla Convenzione, dall’altra non si può ignorare come, fin dal 2014, quando la Convenzione è diventata operativa, i gruppi conservatori turchi ne hanno contrastato l’applicazione. Essi sostenevano con forza che la carta indebolisse la famiglia, incrementasse i divorzi e favorisse le rivendicazioni della comunità LGBT.
Non stupisce, dunque, che ora il Presidente Erdoğan, che si sta sempre più avvicinando alle posizioni degli integralisti islamici, sostenga che la Convenzione danneggi i valori della famiglia tradizionale e che i diritti delle donne possano comunque essere protetti dalla legislazione nazionale. Tale annuncio ha scatenato le proteste della compagine femminile nelle principali città turche. Per far sentire la propria voce, nonostante le restrizioni imposte dalla pandemia, le donne turche hanno annunciato l’avvio di una protesta particolare: tutti i giorni, alla stessa ora, affacciate ai balconi e alle finestre delle loro case, esprimeranno il loro dissenso percuotendo pentole e coperchi. Istanbul, Ankara e Smirne, in particolare, hanno sventolato le bandiere viola al grido “Noi fermeremo il femminicidio”, attirando l’attenzione dei media internazionali.
Anche l’Unione europea ha alzato la testa. La decisione del ritiro è stata commentata dalla Segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, con queste parole: “una notizia devastante”. Espressioni simili sono state utilizzate dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, che ha affermato: “Non possiamo che rammaricarci fortemente ed esprimere la nostra incomprensione davanti alla decisione del governo turco”. Tali critiche sono state riprese anche dai portavoce dei governi di Francia e Germania.
L’opinione pubblica ha, dunque, invitato la Turchia ad un ripensamento. Questo Paese, così vicino e al contempo così lontano da noi, risulta, infatti, centrale per l’Europa, anche e soprattutto nella gestione dei flussi migratori. Sono, però, le contraddizioni – profonde – che agitano lo Stato a preoccupare l’Europa. Nonostante, infatti, molti segnali di apertura nei confronti dell’Occidente, il Paese della mezzaluna si scontra con una mancanza – sempre crescente – di democrazia e di garanzie proprie di uno Stato di diritto.
Diverse sono state le discussioni – a livello interno ed internazionale – inerenti alla possibile adesione della Turchia all’Unione europea. Il problema fondamentale – da più parti riconosciuto ed enfatizzato – riguarda proprio la tutela dei valori cari agli Stati membri, come gli ideali di eguaglianza, libertà, di manifestazione del pensiero e di associazione, di rispetto della vita umana e della dignità individuale.
E il sottrarsi agli obblighi derivanti dalla Convenzione è un ulteriore e chiaro segnale che deve destare preoccupazione.
Non esiste democrazia se non è assicurata l’eguaglianza – non solo formale, ma anche e soprattutto sostanziale – tra i suoi cittadini. In particolare, la parità tra uomo e donna rappresenta uno dei principi cardine degli ordinamenti contemporanei e una delle finalità fondamentali che i sistemi giuridici devono porsi. Se non si garantisce da un punto di vista effettivo che il sesso femminile abbia le medesime prerogative delle controparti maschili non vi potrà essere il pieno sviluppo di una società civile moderna.
Per queste ragioni, dunque, l’Europa non può fermarsi a guardare ed essere solo spettatrice di questi eventi. Deve, al contrario, intervenire con maggiore forza, sottolineando come risulti centrale rispettare le donne e tutelare la loro posizione e i loro diritti. Non si può negare, infatti, che, anche e soprattutto durante la pandemia, la posizione del “sesso debole” risulti peggiorata. Molte sono le madri che hanno dovuto rinunciare al lavoro e in svariati casi è stato più difficile per loro sottrarsi alle violenze domestiche.
Non è un caso, quindi, che il Dossier delle Camere del 2014 inerente alla violenza di genere definisca tale problematica come una questione che deve interessare entrambi i sessi.
A testimonianza di tale affermazione si deve evidenziare il contenuto di diversi atti normativi stilati dall’Unione europea. Basti pensare, tra questi, alla direttiva n. 2011/99/UE, concernente l’Ordine di protezione europeo per i reati di genere, alla direttiva n. 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e al regolamento n. 2013/606/UE, che introduce strumenti di tutela in ambito civile per situazioni patologiche di tensione familiare.
È, poi, con la Risoluzione “Lotta alla violenza contro le donne”, adottata dal Parlamento europeo nel 2014, che l’Unione ha proposto alle sue stesse Istituzioni e agli Stati membri di inserire la violenza sulle donne tra i reati elencati nell’articolo 83, paragrafo 1 del TFUE, in modo da meglio creare e coordinare l’attività normativa penale a livello europeo.
Ciò risulta, mai come oggi, ancor più fondamentale. Non si può più tollerare che Paesi come la Bulgaria, la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Lettonia, la Lituania e la Slovacchia non abbiano mai ratificato la Convenzione di Istanbul. Basti pensare che la Corte costituzionale bulgara, nel 2018, è arrivata a definire tale trattato come incostituzionale perché idoneo a rendere meno chiara la distinzione fra uomo e donna. Da ultimo, la Polonia ha minacciato di uscire dalla Convenzione e in Ungheria l’adesione alla carta è stata bocciata dal Parlamento perché considerata favorevole all’ideologia gender e, indirettamente, al diritto d’asilo per le vittime di violenza e all’immigrazione clandestina.
Le questioni dei diritti delle donne e della violenza di genere costituiscono, quindi, ferite ancora scoperte, persino nel panorama europeo.
La vicenda della Turchia e la mancata ratifica da parte di alcuni Stati membri di una Convenzione così importante per la tutela del sesso femminile costituiscono la chiara dimostrazione che la conquista dei diritti non è per sempre e non è da dare per scontata. Ciò che oggi è assicurato e sancito da Carte e Costituzioni, domani potrebbe essere spazzato via dai venti di governi illiberali ed autoritari.
Certo, un cambiamento così radicale non è semplice e non è immediato. Ma è pur sempre possibile.
Da qui nasce l’esigenza di lottare, ogni giorno, per la nostra democrazia, con forza e determinazione. Si tratta di una lotta senza quartiere, che deve lasciare due soli vincitori: l’eguaglianza e la libertà, le costanti e fedeli bussole di cui ogni ordinamento dovrebbe – e deve – dotarsi.
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