La proposta di importanti e noti economisti americani, pubblicata dal Wall Street Journal del 17 gennaio, riportata in altra sezione di questa rivista, è, per molti versi, speculare alla posizione dei federalisti europei, i quali, da tempo, propongono di finanziare le misure necessarie a ridurre rapidamente le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, attraverso l’introduzione di una “carbon tax”.
Va tuttavia rilevato che nel caso europeo sarebbe impossibile ridistribuire ai contribuenti, su base pro-capite, l’intero ammontare della “carbon tax” riscossa, come proposto dal citato gruppo di economisti statunitensi.
I dividendi ci sarebbero per tutti, eccome, ma in forma indiretta, in termini di miglioramento del “welfare state” e di decisa promozione dello sviluppo economico. Infatti, la “carbon tax” percepita dall’Eurogruppo alla frontiera, servirebbe ad accrescere l’ammontare del Bilancio europeo e, così, a potenziare tutte le politiche attive dell’Ue.
La “carbon tax” nazionale, applicata con identici criteri e modalità in tutti gli Stati dell’Unione dovrebbe servire a ridurre, da subito, l’imposizione fiscale sui redditi di lavoro dipendente e d’impresa (riducendo il “cuneo fiscale”) e ad erogare alla costituenda Agenzia per l’ambiente e l’energia (già autorizzata ad indebitarsi sul mercato direttamente o tramite BEI) cospicui contributi di finanziamento dell’attività comune.
Ma il limite maggiore della proposta statunitense è che essa è incentrata sull’economia degli Stati Uniti (responsabile, attualmente del 15% delle emissioni ad effetto serra nell’atmosfera) senza rilevare che il riscaldamento climatico è fenomeno globale e va affrontato insieme da tutti (o dalla maggior parte degli Stati inquinatori) responsabili delle emissioni, con politiche comuni.
Dobbiamo chiarire, ancora una volta, quali sono le contraddizioni delle politiche ambientali che vanno risolte per evitare l’inefficienza delle stesse e lo stato di stallo sistematico dei provvedimenti di miglioramento ambientale necessari per preservare l’umanità (e soprattutto le generazioni future) dai disastri, dai costi, anche in termine di vite umane, vegetali ed animali e dai danni, di ogni tipo che comporterebbe l’adattamento della Terra ad un’evoluzione del clima verso i + 3-5°C ed un trend di prosecuzione esponenziale del degrado ambientale.
Ha certamente influito fino ad ora la pressione degli Stati e delle potentissime lobby dei produttori di petrolio, di gas naturale e di carbone che difendono con i denti le loro posizioni dominanti e di privilegio. Basti pensare che, oggi, si fa difficoltà a finanziare il Global Green Fund, istituito a Cancun, nel 2010, per 100 miliardi di dollari all’anno, rimasti sulla carta, quando i soli, antistorici, contributi degli Stati alle imprese estrattrici di carbone assommano a 600 miliardi di dollari all’anno.
Un secondo elemento deriva dalla strutturale difficoltà della democrazia (una conquista universale della civiltà, insopprimibile) ad operare con visione di lungo periodo e costretta alla “visione corta”, da un’elezione del Parlamento all’altra, intervallo nel quale i governi democratici non sono in grado (a pena di rischiare la propria rielezione) di assumere decisioni che scontentano gli elettori, imponendo agli stessi costi e sacrifici immediati, in vista di vantaggi che si realizzerebbero soltanto nel medio o lungo periodo.
Nelle democrazie autoritarie e nelle dittature, tali limiti non esistono: lampante è, oggi, il caso della Cina, nella quale le riforme più incisive, quali quelle riguardanti l’istruzione diffusa, le Università di eccellenza e la formazione del capitale umano vengono realizzate rapidamente, senza particolare ricerca del consenso popolare, così come gli impegnativi Piani pluriennali per le infrastrutture e per i Trasporti (si pensi al grandioso progetto per la Nuova Via della Seta in cui sono impegnati miliardi di dollari, anche al di fuori dei confini fisici della Cina), basandosi prevalentemente sulla lungimiranza del Presidente Xi Jinping che controlla il partito e, tramite il partito, l’Assemblea nazionale del Popolo e, quindi, lo Stato della Repubblica popolare cinese.
Peraltro, la democrazia è una conquista irrinunciabile, un pilastro portante, assieme ai valori della libertà e dell’uguaglianza, della civiltà universale dell’umanità. D’altra parte, parafrasando Winston Churchill, tutte le forme di governo che si sono sperimentate finora si sono dimostrate peggiori della democrazia, nonostante i suoi difetti. Ma l’elemento più importante da considerare è l’egoistica difesa, da parte degli Stati, della loro vera o supposta sovranità che, per ciò che riguarda problemi che hanno dimensione continentale o mondiale, è completamente evaporata.
Per governare insieme, problemi complessi su scala globale non è più sufficiente la semplice cooperazione internazionale. Ogni Accordo internazionale tra Stati sovrani è in grado di “fotografare” una situazione statica e di rilevare la volontà dichiarata, al momento della rispettiva sottoscrizione dei Capi di Stato o di Governo, ma non serve per affrontare situazioni in continua evoluzione, largamente imprevedibili nei loro sviluppi, come nel caso degli eventi climatici o ambientali; né a stabilizzare la volontà degli Stati, pur internazionalmente vincolati, nel frequente avvicendamento di persone o di partiti nei governi nazionali (es. Clinton/Bush, Obama/Trump).
Come si può governare insieme fenomeni complessi, di dimensioni mondiali, senza adeguate istituzioni comuni, dotate di autonomia gestionale, idoneamente finanziate?
Nel caso di problemi di dimensioni globali, gli Stati debbono adottare il metodo federale, costituendo istituzioni sovranazionali, indipendenti, coordinate con il livello inferiore di governo degli Stati e con l’UE (nel caso degli Stati dell’Europa), cui venga affidata l’attuazione delle politiche comuni da perseguire, adeguatamente finanziate da contributi degli Stati e/o da mezzi propri provenienti da una riconosciuta capacità di imposizione di tasse e/o di indebitamento; istituzioni sottoposte a controllo democratico nei modi e nelle forme che verranno determinate.
I federalisti hanno da tempo proposto la costituzione di un’Agenzia od Organizzazione Mondiale per l’Ambiente, sotto l’egida dell’ONU, sovraordinata rispetto agli Stati della COP, richiamandosi al modello della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (1951) nel processo di unificazione europea. Non c’è alternativa per gli Stati nazionali se vogliono affrontare e risolvere problemi la cui dimensione li sovrasta.
La storia del processo di unificazione europea ne è la plastica evidenza. Le attuali difficoltà di tale processo dipendono proprio dal fatto che parte degli Stati membri non pare disposta ad accettare nuove limitazioni alla propria sovranità, per attuare politiche europee più efficienti, messe in atto da istituzioni sovraordinate, quali sono gli organi dell’UE.
La sovranità appartiene al popolo che, tuttavia, la deve e può esercitare a mezzo di istituzioni operanti ciascuna nel suo ordine, a seconda della dimensione dei problemi da risolvere: locali (tipicamente Comuni e Regioni), nazionali (lo stato nazionale), continentali (in Europa, l’UE).
A livello globale il cittadino cosmopolita deve rivendicare il proprio diritto/dovere di partecipare alle decisioni concernenti la pace o la guerra, le emergenze ambientali, la politica economica e sociale del Pianeta, che riguardano l’umanità intera, a mezzo di istituzioni democratiche a livello mondiale, sovraordinate agli Stati.
La cooperazione internazionale deve assumere la forma di un’organizzazione indipendente, fondata sul federalismo, restando gli Stati l’ossatura naturale della sua azione.
Il primo Ente che deve essere convinto di ciò è l’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), il suo Segretariato, i funzionari e ricercatori che ci lavorano, affinché questi si rendano conto che il loro impegno e i loro sforzi risultano vani ed inefficaci se gli Accordi internazionali che pazientemente tessono non prevedono, come condizione preliminare, la costituzione della suddetta ossatura istituzionale, sopranazionale, dotata di adeguati poteri e mezzi finanziari, capace di agire.
Essi debbono esaminare la storia della loro attività e l’enorme mole di lavoro svolta, partendo da Rio de Janeiro nel 1992, passando per il protocollo di Kyoto, approvato nel dicembre 1997, entrato in vigore nel 2005 a seguito della ratifica di 196 Stati, dopo estenuanti negoziati durati ben 7 anni, all’Accordo internazionale sul Clima di Parigi del 2015. È ben noto che il Protocollo di Kyoto proponeva di ridurre, mediamente, entro il 2012 le emissioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera di appena il 5,2%, misura del tutto insufficiente, come ci si è accorti a posteriori; target comunque raggiunto per caso, in molti Paesi, non per effetto degli impegni internazionali assunti, ma per motivi di politica interna.
Il ben più severo Accordo di Parigi finora non ha prodotto alcun effetto: dopo la COP 21 di Parigi, le successive COP tenutesi in vari Paesi, fino a Katowice (COP 24), non hanno ancora raggiunto il consenso per la sua applicazione ed il finanziamento. In modo sintetico e semplicistico si potrebbe dire: mentre il mondo brucia la diplomazia dell’UNFCCC gira a vuoto.
Riempiono di speranza le manifestazioni cosmopolite di milioni di giovani che marciano per la Terra e promuovono giornate di sciopero contro il cambiamento climatico in ogni parte del Globo.
Commuovono le parole di una delle giovani leader di questo movimento popolare spontaneo, la svedese Greta Thunberg, di appena 16 anni che ha deciso di dedicare la propria vita a salvare il mondo dal cambiamento climatico.
Greta si rivolge ai genitori e tutti i loro coetanei con queste parole «un giorno, forse, i miei figli mi chiederanno di voi, perché non avete fatto niente quando c’era ancora tempo per agire. Dite di amare i vostri figli più di ogni altra cosa, eppure gli state rubando il futuro proprio di fronte ai loro occhi. Non siete abbastanza maturi da dire le cose come stanno».
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