Il “Super Bowl della democrazia”, questa la definizione che il quotidiano britannico The Guardian diede del 2024; con elezioni di ogni tipo, ben 3.7 miliardi di persone - metà della popolazione mondiale - sono state (e ancora saranno) chiamate alle urne nel corso di quest’anno. Il voto ha coinvolto alcune delle aree più rilevanti per storia e peso geopolitico, dal Regno Unito all’India, dal Giappone alla - imprevista - Francia, pure l’Unione europea, e ancora deve dirci chi sarà per i prossimi quattro anni il “leader del mondo libero” fra Donald Trump e Kamala Harris.
In questa giostra sono finite anche Moldova e Georgia, volti dell’Europa orientale, quell’area del mondo tanto difficile da decifrare perché posta al confine tra Unione europea e Russia, due modelli di politica estremamente diversi. In un mondo sempre più globalizzato, questi Paesi sono chiamati a fare una scelta di campo, e la storia recente mostra chiaramente una tendenza: si va verso occidente.
Facendo un passo indietro di dieci anni, si trova certificata per la prima volta questa volontà. Era il 2014 quando sia Moldova sia Georgia strinsero un Accordo di associazione con l’Unione europea, la prima definendo un piano di riforma in ambiti vitali per il buon governo e lo sviluppo economico e un rafforzamento della cooperazione in diversi settori, la seconda limitandosi ad aderire a una zona di libero scambio globale e approfondita.
Da allora, ci sono stati alti e bassi. Prima ci fu un deterioramento delle norme democratiche in Moldova che portò l’Unione nel 2018 a sospendere l’erogazione della sua assistenza macrofinanziaria, salvo poi tornare sui suoi passi alla luce del rinnovato impegno del Paese a riformare il sistema giudiziario e rispettare lo Stato di diritto. Poi, nel 2019, non si concluse un approfondimento dell’Accordo di associazione tra Georgia e Unione. Infine, ecco la domanda di adesione all’Unione europea di entrambi i Paesi, datata 2022, indiscutibilmente influenzata dalla vicinanza all’Ucraina, invasa dalla Russia, e dal timore - specialmente per la Moldova che con Mosca si litiga il controllo della Transnistria - che la guerra potesse sfociare anche all’interno dei loro confini.
Seppur a entrambi sia stato concesso lo status di Paese candidato, l’Unione europea decise di fare un passo ulteriore con la Moldova, avviando nel dicembre 2023 i negoziati di adesione. Per la Georgia il discorso è diverso: sin dalla sottoscrizione dell’Accordo di associazione, le Istituzioni europee hanno espresso preoccupazione per la mancata tutela dei valori e i principi europei nell’implementazione delle leggi. Le norme stringenti sugli agenti stranieri e sulla cosiddetta propaganda LGBT di chiaro stampo putiniano che il Governo ha approvato nell’ultimo periodo sono la prova che tali preoccupazioni sono fondate; finché non ci sarà un cambio di passo, il processo di adesione per questo Paese difficilmente troverà ulteriori avanzamenti.
Questi elementi non hanno solo fatto da cornice alle elezioni delle scorse settimane, sono stati parte integrante del quadro. Il tema del posizionamento politico tra Europa e Russia è stato presente tanto nelle votazioni in Moldova per scegliere il Presidente della Repubblica e per inserire o meno il percorso di ingresso nell’Unione europea in Costituzione, quanto in quelle in Georgia per rinnovare il proprio Parlamento.
In Moldova, il 20 ottobre, la Presidente uscente Maia Sandu (Partito di Azione e Solidarietà), grande europeista apprezzatissima da Bruxelles, ha sbaragliato la concorrenza ottenendo il 42.4% dei consensi. Dietro di lei si è posizionato il socialista Aleksandru Stoianoglo (Partito Democratico della Moldova), che ha raggiunto il ballottaggio con il 25,9% dei voti. Stoianoglo, noto per le sue posizioni ambigue che sembrano ammiccare sia alla Russia che all’occidente, ha sorpreso tutti con un risultato nettamente superiore alle previsioni, che lo stimavano intorno al 10%. Un exploit ha suscitato scetticismo tra politici, analisti e cittadini. Il secondo turno, datato 3 novembre, è risultato piuttosto caotico. L’elezione è stata caratterizzata da massicci e sospetti spostamenti di cittadini moldovi dalla Russia verso il Paese d’origine e da falsi allarmi bomba nei seggi allestiti in Europa, specialmente in Germania e nel Regno Unito. In patria si è assistito a un sostanziale pareggio, ma è degno di menzione l’80% dei voti ottenuti da Stoianoglu in Transnistria. Nella diaspora moldova all’estero Sandu ha fatto en plein, ciò le è bastato per raggiungere il 55% dei consensi totali ed essere rieletta Presidente.
Il timore di un’interferenza russa nelle elezioni moldove era nell’aria da tempo. Già a inizio ottobre, le autorità moldove avevano denunciato un piano di frode elettorale: oltre centomila cittadini moldavi sarebbero stati pagati con fondi russi per influenzare l’esito delle elezioni. Una piuttosto consolidata certezza di questa teoria si è trovata allo spoglio delle schede sul referendum, svoltosi sempre il 20 ottobre.
Specialmente nelle regioni più vicine alla Russia, il «no» alla proposta di inserire in Costituzione un riferimento all’integrazione europea ha ottenuto un risultato schiacciante, di nuovo, parecchio distante dai dati previsti dai sondaggi. A ribaltare la situazione è stato il voto nella capitale, Chisinau, e nei distretti limitrofi come Ialoveni e Criuleni, che ha portato il sì a prevalere per meno di dodicimila voti. Il referto finale registra il 50.4% di «sì» e il 49.6% di «no», quanto basta perché la Moldova presenti in Costituzione la seguente dicitura: “la Repubblica di Moldova riconferma l’identità europea sua e del suo popolo e l’irreversibilità del percorso europeo; dichiara l’integrazione nell’Unione europea un obiettivo strategico”.
Mentre si svolgeva lo spoglio, al di là del Mar Nero c’era chi riempiva le piazze. La popolazione ucraina ha insegnato che così si alza la voce, con un Maidan, e la Georgia già accettò l’invito a marzo dello scorso anno, quando si paventava la possibilità che l’infame legge russa sugli agenti stranieri venisse implementata anche lì. A una settimana delle elezioni parlamentari, migliaia di cittadini hanno ripetuto l’esperimento, riempiendo Tbilisi di bandiere europee e richiamando l’attenzione su un voto cruciale per il futuro del Paese.
Il 26 ottobre più di due milioni di georgiani si sono recati alle urne, andando a eguagliare un’affluenza che non si registrava da dodici anni. In campo sette partiti principali:
- Sogno Georgiano, partito di maggioranza, guidato dal Primo Ministro Irak’li K’obakhidze;
- Movimento Nazionale Unito, principale partito di opposizione nella scorsa legislatura;
- Coalizione per il Cambiamento, composta dai partiti liberali Ahali e Droa e da parte di Girchi;
- Forte Georgia, coalizione europeista composta da Lelo e For the People;
- Gakharia per la Georgia, lista dell’ex Primo Ministro Giorgi Gakharia, fuoriuscito da Sogno Georgiano in dissenso con le nuove posizioni del partito;
- Girchi, partito di centro-destra composto dai membri che hanno scelto di non seguire la Coalizione per il Cambiamento:
- Alleanza dei Patrioti georgiani, partito di destra populista, come fa presagire il nome.
A eccezione dell’Alleanza dei Patrioti, che sulla carta rivendica una Georgia forte e indipendente ma che non manca di strizzare l’occhio alla Russia, tutti gli altri partiti elencati ritengono che il futuro del Paese sia nell’Unione europea. Tuttavia, le ultime politiche di Sogno Georgiano, come ricordato in precedenza, si sono progressivamente allontanate da tale prospettiva. Per questo motivo, la Presidente della Repubblica, l’indipendente Salomé Zourabichvili, ha preso posizione in previsione delle elezioni chiedendo che gli altri partiti, nel caso ottenessero la maggioranza dei voti, si unissero nella costruzione di un Governo di larghe intese volto ad abrogare irrevocabilmente le leggi critiche approvate nell’ultima legislatura, per poi decidere se continuare il lavoro o procedere a nuove elezioni. Solo Girchi non ha raccolto l’invito di Zourabichvili, etichettandola come autoritaria al pari di K’obakhidze, mentre lo stesso Primo Ministro ha preso la proposta come un attacco alla democrazia, arrivando a minacciare in un comizio a Tbilisi di mettere al bando i partiti di opposizione, sostanzialmente “per giocare al loro gioco”.
Definire le elezioni georgiane tumultuose sarebbe fare loro un complimento. Secondo quanto riportato dall’OSCE [1], più di cinquecento osservatori sono stati dispiegati nel Paese per valutare la regolarità del processo di voto, tra questi, anche una delegazione di dodici rappresentanti del Parlamento europeo. Proprio questi ultimi saranno chiamati a predisporre un report su quanto visto, è non è difficile immaginare cosa conterrà: se in alcuni seggi si è mantenuta una parvenza di tranquillità, in altri è stato il caos. Tra i video spiazzanti che hanno oltrepassato i confini georgiani ci sono una testimonianza di compravendita di voti, registrata dall’osservatrice di ISFED [2] Manana Mikava fuori dalla quindicesima sezione elettorale di Zugdidi, e le immagini di un uomo - si presume un Consigliere comunale - che nella sessantanovesima sezione di Marneuli infila con veemenza decine di schede dell’urna elettorale. Tale video pare essere stato ripreso da Azad Karimov, esponente del Movimento Nazionale Unito, che proprio per aver avviato la ripresa sarebbe stato prima allontanato dal seggio, poi aggredito.
Malgrado questi episodi, le elezioni sono state portate a termine e gli exit poll hanno dato un risultato chiaro: Sogno Georgiano confermato primo partito, con il 40.9% dei consensi, Movimento Nazionale Unito (16.7%), Coalizione per il Cambiamento (16.7%), Forte Georgia (10.3%) e Gakharia per la Georgia (8.2%) oltre la soglia di sbarramento, con un complessivo 51.9% che avrebbe permesso loro di ottenere la maggioranza parlamentare e di formare un nuovo Governo.
Peccato che, a spoglio concluso, Sogno Georgiano è risultato partito di maggioranza assoluta, con il 54% dei voti contro il 37.58% delle coalizioni pro-europee. A memoria d’uomo, nessun exit poll nel mondo democratico ha dato un risultato tanto scorretto; una differenza di più di tredici punti percentuali che farebbe dubitare della regolarità delle elezioni pure la persona più ingenua sulla Terra.
I leader e i portavoce dei partiti georgiani di opposizione hanno parlato apertamente di “elezione rubata”, tredici Ministri degli esteri di Stati membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Danimarca, Estonia, Finlandia, Repubblica Ceca, Irlanda, Lituania, Paesi Bassi, Lussemburgo, Polonia, Portogallo e Svezia) hanno espresso in un comunicato congiunto la propria preoccupazione, Viktor Orbán ha riconosciuto la vittoria del partito Sogno Georgiano ancor prima che i risultati fossero pubblicati dalla Commissione elettorale centrale e si è congratulato con K’obakhidze, per poi recarsi personalmente a Tbilisi. Il Primo Ministro ungherese è stato, di nuovo, l’unica personalità istituzionale europea a remare contro i valori cardine dell’Unione, stavolta apparendo ridicolo addirittura ai suoi colleghi di Patrioti per l’Europa, che hanno preferito tacere. Una portavoce di Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, si è trovata nella posizione di dover chiarire - come d’altronde già dovette fare quando Orbán si recò a Mosca - che la visita “è avvenuta nel solo contesto delle relazioni bilaterali tra Ungheria e Georgia” e che il Primo Ministro “non ha ricevuto alcun mandato dal Consiglio dell’Unione europea”, presieduto in questo semestre dall’Ungheria.
Le pressioni interne in Georgia sono state tali da portare a un parziale riconteggio dei voti, che ha riguardato circa il 12% dei seggi elettorali e il 14% delle schede. L’esito non è stato quello sperato; Sogno Georgiano è risultato partito di maggioranza anche dopo questo appello. L’opposizione non intende demordere e valuta la possibilità di non insediarsi in Parlamento, come atto di protesta.
A differenza della Moldova, dove gli ostacoli verso l’integrazione europea sono presenti, ingombranti, ma non insuperabili, la Georgia si trova, dopo queste elezioni, in un clima politico estremamente teso. Se il suo popolo si dimostrerà nuovamente più forte del suo Governo, allora il suo futuro potrà solo che chiamarsi Europa, ma il caso contrario è ben lungi da escludersi.
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