Il dibattito è stato aperto da Thomas Piketty, con un articolo su Le Monde dello scorso 11 luglio dal titolo «Pour reconstruire l’internationalisme, il faut tourner le dos à l’idéologie du libre-échange absolu». Poi ha fatto seguito l’intervista, dal titolo “Ci salverà il protezionismo progressista”, al politologo bulgaro Ivan Krastev, direttore del Centre for liberal strategies di Sofia e considerato il “Tocqueville del XXI secolo” (La Stampa, 14 luglio). Il tema è quello della possibilità, per una comunità politica indipendente, ma aperta agli scambi con il resto del mondo, di perseguire un modello di sviluppo autonomo, una prospettiva meno remota di quanto possa sembrare.
Piketty sostiene che se si vuole “adottare un nuovo modello di sviluppo fondato su espliciti principi di giustizia economica ed ambientale”, al limite al livello del solo Stato nazionale, per realizzarlo occorrerà introdurre delle “sanzioni commerciali”. Krastev, da parte sua, osserva che “finora avevamo [noi europei, NdA] coltivato l’idea della missione, la convinzione che possedessimo il futuro e potessimo esportarlo. Fuori invece ci sono altre potenze, Russia, India, Cina, e costruiscono il loro futuro indipendentemente da noi”. Per cui, oggi “bisogna accettare il fatto che la missione non c’è più e che se non possiamo plasmare il mondo ma non vogliamo esserne plasmati dobbiamo stringerci in un protezionismo progressista”.
Secondo l’economista francese, il suo sovranismo sarebbe a vocazione internazionalista, e non nazionalista, nella misura in cui, nel quadro di assemblee transnazionali non ben precisate – e comunque non il Parlamento europeo - viene discusso il piano di uno Stato nazionale che intende scegliere un proprio modello di sviluppo e propone agli altri suoi partner di seguire la stessa strada. Se così non fosse, il piano dovrà essere protetto da sanzioni, la cui minaccia, secondo Piketty, dovrebbe essere sufficiente a convincerli a seguire la medesima strada. Krastev, invece, si limita a dire che il “protezionismo progressista”, una volta adottato, deve comunque “continuare a tenere aperta ogni opzione multilaterale”.
In quanto federalisti (senza l’aggettivo “europei”), non possiamo che essere preoccupati da questa deriva sovranista da parte di intellettuali correntemente annoverati nel campo progressista. Tanto più che essi intervengono in un momento quanto mai attuale per la prospettiva da loro suggerita. L’UE, infatti, con la proposta di un Green Deal con cui Ursula von der Leyen si è presentata come Presidente della Commissione e il recente piano da 750 miliardi di euro per il rilancio dell’economia europea, prevede la realizzazione di imponenti investimenti per la transizione energetica e digitale.
Molto è già stato detto, soprattutto a proposito del Recovery Plan, il quale è finanziato, per la prima volta, da debito europeo e che dovrà essere rimborsato con imposte europee che, va notato, saranno introdotte senza modifiche dei trattati. Si tratta, sotto molti aspetti, di una svolta decisiva nel processo di unificazione europea. Vi è però un punto che il dibattito politico europeo non ha ancora messo in luce e cioè il fatto che i problemi relativi alla sua attuazione non sono solo quelli, di breve termine, posti dall’opposizione dei paesi “frugali”. Sono infatti ben più ampi, e riguardano l’avvio di una politica estera europea.
Il Recovery Plan, come detto, è parte integrante del progetto di Green Deal e non c’è un altro piano. Pertanto, se è vero, come è vero, che si sta parlando dell’attuazione di quest’ultimo, bisogna anche prendere atto che non è un piano di rilancio classico, frutto di una decisione di politica macroeconomica pensata per un’economia chiusa. È, in realtà, il primo piano di rilancio di un’economia di dimensioni continentali che si inserisce in un quadro mondiale. Anzi, non sembra per nulla fuori luogo osservare che si tratta del primo piano economico, nella storia, che pretende di dare una direzione di marcia all’intera economia mondiale.
Il piano europeo, infatti, non si sviluppa in una campana di vetro. L’UE è l’economia continentale più aperta agli scambi con il resto del mondo (l’interscambio con l’estero di merci e servizi incide per il 39% sul PIL dell’UE, contro il 29% per gli USA) e vuole aprire la strada alla lotta contro il riscaldamento globale. Inoltre, il rimborso del prestito europeo si basa, fondamentalmente, su imposte che toccano direttamente i suoi rapporti con il resto del mondo: il meccanismo di aggiustamento carbonio alla frontiera, il ricorso a risorse proprie basate sul sistema di scambio di quote di emissioni esteso ai settori marittimo e aereo, l’imposta sui cosiddetti GAFA e la tassa sulle transazioni finanziarie.
È vero che parte degli obiettivi del Green Deal possono essere raggiunti, ad esempio, con una politica di investimenti energy saving nel settore dell’edilizia e che non ha praticamente alcun impatto con l’estero, ma la transizione ad un’economia carbon free richiede ben altre misure, che comportano costi importanti per il settore produttivo europeo e che quest’ultimo può sostenere non solo con misure che compensino il dumping ambientale e sociale quotidiano da parte della Cina e altri paesi, ma soprattutto i costi aggiuntivi che si renderanno necessari per raggiungere i nuovi obiettivi energetici.
È impensabile che l’UE possa sostenere, con successo, la transizione energetica e digitale del proprio sistema economico facendola pesare unicamente sul proprio sistema industriale e continuare ad importare beni da Cina e Stati Uniti (e altri paesi) che non dovessero adottare la stessa politica ambientale e fiscale e senza innescare misure protezionistiche a catena. Così come è impensabile che l’UE possa tassare aerei e navi senza un accordo con i paesi che possiedono compagnie aeree e navali, oppure tassare i GAFA senza un accordo con gli USA.
Infine, tra le varie imposte previste dal Consiglio europeo che si è appena concluso, vi è anche la tassa sulle transazioni finanziarie. La sua efficacia richiederebbe, però, che venga reintrodotto un minimo di controllo sui movimenti di capitali a breve termine e di armonizzazione fiscale, almeno al livello dei paesi più integrati sul piano finanziario, vale a dire un’area che comprende l’UE, gli USA e il Giappone. Con le misure che si appresta ad adottare l’UE, non siamo ancora di fronte allo scenario prospettato da Piketty. In primo luogo, perché, dal punto di vista istituzionale, esse vengono adottate in un quadro democratico-parlamentare europeo e non nazionale. In secondo luogo, perché le aliquote saranno, inizialmente, basse, in quanto applicate su un volume di transazioni più elevato di quello riscontrabile a livello nazionale e il fabbisogno del bilancio europeo, in termini assoluti e relativi, non è certo quello dei bilanci nazionali. Per quanto un giudizio definitivo potrà essere dato solo quando sarà nota la nuova Decisione sulle risorse proprie, i problemi non sono però questi.
Il problema vero è il quadro mondiale in cui vengono adottate e che è quello di uno ordine bipolare che è finito e di un instabile equilibrio multipolare che si sta solo ora affacciando. La fase di transizione, inoltre, si sta caratterizzando per politiche sovraniste e protezioniste da parte del paese, gli USA, che ha dato vita alle istituzioni multilaterali e che non sono riconducibili al colore dell’amministrazione in carica, in quanto Trump sta portando avanti, con maggior determinazione, molte delle politiche avviate da Obama. È in questo quadro mondiale incerto che si collocano le misure che l’UE intende adottare. A fronte di questo quadro, la tesi sostenuta da Krastev, secondo cui bisogna limitarsi “a tenere aperta ogni opzione multilaterale”, non è una risposta adeguata. Essa ipotizza un ruolo passivo dell’Europa sul piano mondiale, mentre il piano europeo ha senso solo se anche il mondo intraprende la strada da essa seguita, visto che intende contrastare il riscaldamento globale causato dalle emissioni di anidride carbonica, di cui essa emette il 9% del totale mondiale, contro il 15% degli USA e il 30% della Cina.
Il raggiungimento di questo obiettivo, senza che venga accusata di protezionismo, è possibile solo ad una condizione: che l’Europa si doti di una propria politica estera e di sicurezza e che, contestualmente, assuma la leadership mondiale dell’accrescimento dei poteri delle istituzioni multilaterali. In un mondo ancora basato, prevalentemente, sui rapporti di forza, non basta dire che bisogna tenere aperta ogni opzione o continuare a ripetere che l’UE è favorevole alle istituzioni multilaterali. Occorre che l’UE, come gli USA alla fine della Seconda guerra mondiale, presenti un piano per il rafforzamento del loro nei settori dove esso è più urgente: sviluppo sostenibile, sicurezza, finanza, commercio. Ma non basta: essa dovrà anche dire come intenderà rafforzarle e, sull’esempio degli Stati Uniti nel Secondo dopoguerra, assumersi la responsabilità diretta, con gli altri paesi, del loro funzionamento.
Se, con gli accordi di Bretton Woods, l’obiettivo di una federazione mondiale non è più solo un’aspirazione ideale, ma è diventata un’opzione politica, spetta oggi all’UE fare sì che quella svolta sia anche irreversibile.
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