«Che cosa è più importante in una città?»
«Il parco» rispose Tistù.
«No» replicò il Signor Tuonante «la cosa più importante in una città è l’ordine. Andiamo dunque a visitare il monumento dove si mantiene l’ordine.(...) Per conservare l’ordine bisogna punire il disordine. (...) E che si fa della gente che semina il disordine? (...) Si mette in prigione, qui» dichiarò il Signor Tuonante, indicando a Tistù, con ampio gesto, un muro immenso tutto grigio, senza una finestra, un muro che non sembrava fatto come tutti gli altri.
Costeggiarono il muro e giunsero davanti a un alto cancello nero, tutto irto di sbarre acuminate. Dietro il cancello nero si vedevano altri cancelli neri, e dietro il muro triste, altri muri tristi.
E muri e cancelli erano ugualmente irti di sbarre acuminate.
«Perché il costruttore ha messo quelle brutte sbarre dappertutto? A cosa servono?» chiese Tistù.
«Per impedire che i prigionieri scappino.»
«Se la prigione fosse meno brutta, probabilmente avrebbero meno voglia di andarsene.»
«Tu dovresti sapere che un prigioniero è un uomo cattivo.»
«E lo mettono là per guarirlo dalla cattiveria?»
«Si cerca. Si cerca di insegnargli a vivere senza rubare e senza uccidere.»
«Imparerebbero sicuramente più in fretta se fosse meno brutto» disse ancora Tistù.
Tistù scorse, dietro le sbarre, alcuni detenuti che camminavano in cerchio, le teste basse, senza dire una parola. Sembravano terribilmente infelici, con le teste rapate, i loro abiti a righe e le scarpe grosse.
«Che fanno?»
«Sono in ricreazione» disse il Signor Tuonante.
“Bell’affare” pensò Tistù “se quella è la ricreazione, chissà come saranno le ore di chiuso! Veramente è un po’ troppo triste quella prigione”.
Aveva una voglia matta di piangere e non disse più una parola durante tutta la strada di ritorno.
(da “Tistù e la magia del pollice verde” di Maurice Druon)
Un modo efficace per comprendere un Paese sta nell’osservare le sue carceri, i suoi posti “ultimi”. E le carceri italiane, insieme a molte altre cose che si evita di mostrare, sono un crudo specchio nel quale riflette un’immagine quanto mai infelice, oramai allo sfacelo. All’interno delle mura carcerarie, non si ha altro che l’amplificazione dei problemi presenti nella cosiddetta “società dei liberi”. Uno “stato nello stato”, con le sue gerarchie, i suoi poteri, le sue corruzioni, le sue invidie, i suoi segreti. Un luogo che suona come una distopia, ma che invece è già reale; dove l’amore è proibito, ma la violenza no. E tra le prime vittime di queste violenze ci sono coloro che già al di fuori di una prigione sono mira costante di atti discriminatori e violenti: la comunità LGBTQ+.
Una questione così densa e complessa che non si sa bene da dove cominciare ad osservarla, analizzarla e ispezionarla. Soprattutto perché se ne parla poco.
La sola (o quantomeno la più nota) a fornire informazioni dettagliate a riguardo è Antigone, associazione politico-culturale “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, nata alla fine degli anni Ottanta, a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia.
Secondo le loro ricerche, in carcere le persone transessuali sono oggetto di desiderio sessuale e al contempo di disgusto a causa della loro “manifesta diversità”. Spesso si tratta di stranieri con un decreto di espulsione che le attende a fine pena.
Inoltre mancano controlli medici specialistici sulla somministrazione degli ormoni. Il sostegno psicologico fornito è insufficiente, per non parlare della totale assenza di una corretta educazione sessuale (che di fatto manca anche al di fuori delle prigioni). Tradizionalmente le donne transessuali sono state collocate in carceri e sezioni maschili in conformità con il dato biologico (se non operate), ma riconosciute come soggetti vulnerabili; la loro vulnerabilità è stata gestita prima con il ricorso all’isolamento protettivo continuo, poi con l’assegnazione a sezioni separate.
E per chi è omosessuale, la situazione non è certo migliore: spesso, per evitare di essere soggetti a violenze, abusi o segregazioni, molti omosessuali preferiscono tacere e restare nell’ombra piuttosto che affrontare le conseguenze del “rendersi manifesti”. Uscire dai “limiti sicuri dell’eterosessualità” è dunque un rischio concreto perché significa essere esposti alle prevaricazioni, alla violenza virile ma anche, e soprattutto, a discriminazioni istituzionali.
Nella prassi, in casi di discriminazione e abusi, l’amministrazione penitenziaria dà ancora oggi priorità al mantenimento della sicurezza interna e dell’ordine, e non al diritto dei singoli di non essere discriminati: in sostanza, se ne fa una questione di giusta collocazione del detenuto, in modo che egli non debba temere attacchi violenti e prevaricazioni all’interno degli spazi comuni. Questo però significa non voler risolvere il problema alla radice, anzi, vuol dire crearne di ulteriori, poiché quello che si crede essere un buon modo per evitare atteggiamenti discriminatori e/o violenti, rischia anzitutto di creare differenze ancora più grandi ed anche di precludere la partecipazione ai progetti di inserimento lavorativo a cui accedono, invece, tutti gli altri. È come investire in giubbotti antiproiettile, invece di interrompere la vendita di armi.
Per quanto riguarda l’omosessualità femminile, non si rilevano dati.
Se infatti per l’amministrazione penitenziaria l’eterosessualità è la norma, l’omosessualità è “normalmente” questione maschile. Questo perché l’istintualità virile è un potente elemento di disordine in carcere: i rapporti tra donne vengono, invece, percepiti come meno violenti, e quindi meno sovversivi, poiché non minano l’ordine all’interno degli istituti di detenzione. Ne consegue che la presenza di donne lesbiche o bisessuali non viene attenzionata in alcun modo, né in ottica sicuritaria né in ottica antidiscriminatoria.
È dunque chiaro come nelle carceri il diritto alla sessualità (inteso sia in termini di orientamento sessuale che di identità di genere) sembra non esistere, ma che la discriminazione su base sessuale è all’ordine del giorno.
Nella storia sopracitata di “Tistù e la magia del pollice verde” accade infine che alcuni ex carcerati, una volta scontata la pena e usciti di prigione, decidano di restare per diventare giardinieri e rendere il carcere un luogo più accogliente, luminoso (e soprattutto verde) grazie all’intervento del piccolo Tistù e della sua magia (letteralmente del suo pollice verde, al cui tocco fa crescere qualunque tipo di pianta o fiore).
Una specie di utopia, una storia sperante in cui, attraverso gli occhi di un bambino, vengono rifiutate le idee preconcette degli adulti sul mondo, ed anche sul carcere e sulla detenzione. Chissà se nel mondo reale possa davvero accadere qualcosa di simile.
Sono appunto storie simili a quella di Tistù a generare in ognuno il bisogno di cambiare le cose nel concreto, anche con la sola forza di un pollice.
Segui i commenti: |