Il 2 febbraio di quest’anno, la pagina su Facebook di HRT Vijesti (la divisione giornalistica di HRT, Hrvatska RadioTelevizija, Radiotelevisione croata, emittente pubblico) ha pubblicato un post dove in un breve video si esaltavano i risultati scolastici di una liceale di origine straniera, sottolineando specialmente come avesse imparato bene la lingua croata “in soli tre anni” nel Paese.
Tutto normale, all’apparenza; se non fosse che la ragazza in questione sia serba, di madrelingua serba, ossia una lingua pressoché identica al croato.
Il post ha ricevuto migliaia di reazioni, commenti e condivisioni; molti di più rispetto agli standard soliti della pagina. Molti commentatori hanno sottolineato l’insensatezza della tesi del servizio, sostenendo che ci siano, ad esempio, più differenze tra il dialetto dalmata e il croato standard rispetto quelle tra il croato e il serbo standard; altri hanno parlato espressamente di “cattivo giornalismo” e hanno evidenziato come, all’interno dello stesso video, il giornalista sia riuscito a parlare con la madre della ragazza, serba anch’ella, senza l’ausilio di interpreti né la necessità di cambiare personalmente lingua o registro.
C’è anche chi, sempre nei commenti, si è associato al giornalista nel complimentarsi con la ragazza. Perché? Perché in Croazia la tesi che la lingua croata sia radicalmente diversa dalla lingua serba (e da quella montenegrina e bosniaca), e che quindi una lingua serbo-croata non esista, viene propugnata da tempo.
Un passo indietro: la lingua serbo-croata. Prima dell’Accordo Letterario di Vienna [1], nell’area geografica che in seguito sarebbe approssimativamente corrisposta alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, tre dialetti dello slavo meridionale (che formava un continuum linguistico) dominavano il panorama linguistico: lo stocavo (štokavski/штокавски), il ciacavo (čakavski/чакавски) e il caicavo (kajkavski/кајкавски) [2].
Tra questi, lo stocavo infine prevalse per diffusione e venne scelto nell’Accordo Letterario di Vienna come dialetto di prestigio della lingua letteraria serbo-croata standardizzata.
Questi dialetti sono attraversati da alcune isoglosse, denotate dai diversi riflessi moderni della vocale protoslava jat (“ѣ”, spesso romanizzata come “*ě”): “i”, “e”, “ije” o “je”. A questi riflessi corrispondono tre varietà: l’icavo (riflesso in “i”), l’ecavo (“e”) e lo iecavo (“je”/”ije”) [3].
Il croato e il bosniaco standard si basano sullo stocavo iecavo, mentre il serbo e il montenegrino si basano sullo stocavo ecavo (l’icavo sopravvive in alcuni dialetti). È questa, al netto di alcune differenze lessicali, la principale differenza tra queste lingue [4].
Lo scenario è indubbiamente complesso, ma non più che altrove; la sociolinguistica classifica la lingua serbo-croata come lingua pluricentrica, ossia una lingua unica con differenti varietà. Molte lingue usate in aree geografiche vaste o non contigue sono pluricentriche: l’inglese, il tedesco, il francese, l’arabo, tra le altre [5].
L’Accordo Letterario di Vienna fu promosso, tra gli altri, da Vuk Stefanović Karadžić, principale riformatore della lingua serba, e Ljudevit Gaj, figura di rilievo del Movimento Illirico, croato promotore dell’unione, linguistica e non, degli slavi dei Balcani occidentali in contrapposizione all’Impero Austro-Ungarico che all’epoca ancora controllava gran parte dell’odierna Croazia (Dolan, 2006).
Un secolo dopo, gli slavi dei Balcani occidentali era già uniti da tempo (dal 1919 seppur con alcuni tentativi di indipendenza croata durante la Seconda Guerra Mondiale, e stabilmente dal 1945 nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, RSFJ). La RSFJ non aveva de iure lingue ufficiali, ma de facto il serbo-croato (o croato-serbo) veniva accompagnato dallo sloveno e dal macedone, oltre che da lingue minoritarie parlate in alcune province, come l’ungherese e il romeno in Vojvodina o l’albanese in Kosovo.
Nel 1954 la Matica Srpska [6] promosse un incontro tra intellettuali e letterati serbi, croati e bosniaci per reiterare ed estendere i concetti dell’Accordo di Vienna. Passato alla storia come “Accordo di Novi Sad”, sancì che
“[...] La lingua popolare di serbi, croati e montenegrini è una lingua sola [...] la lingua letteraria, sviluppatasi nei due centri di Belgrado e Zagabria, è anch’essa una sola lingua, con due pronunce [...]” (Greenberg, 2004)
Dove le “due pronunce” sono lo iecavo e l’ecavo. Si noti come siano stati considerate solo le varietà parlate a Belgrado e Zagabria, trascurando quindi ogni altra variante o “pronuncia” che erano, e sono, inevitabilmente presenti nell’esteso territorio all’epoca jugoslavo.
L’Accordo di Novi Sad poneva quindi sullo stesso piano lo iecavo e l’ecavo, ossia il croato e il serbo, così come l’alfabeto latino e quello cirillico. In Serbia si parlava di “serbo-croato”; in Croazia di “croato-serbo”. La Matica Srpska e la Matica Hrvatska pubblicarono congiuntamente un manuale ortografico nel 1960 e un dizionario successivamente.
Il dizionario fu giudicato troppo “filo-serbo” da parte di alcuni linguisti croati. Ciò portò, negli anni 1970 e 1980, alla produzione di ricerche e lavori avente il fine di dimostrare e/o sviluppare una lingua croata differente dalla lingua serba (Greenberg, 2000).
Il timore che le politiche federali jugoslave propendessero più dalla parte serba che quella croata, non solo sulle questioni linguistiche ma soprattutto su quelle politiche e sociali, si manifestò fortemente una decina di anni dopo la morte del Maresciallo Tito, in corrispondenza degli antefatti della Guerra di Jugoslavia. Nel dicembre del 1990, infatti, il Parlamento croato promulgò una nuova costituzione che stabilì una Croazia indipendente con il croato come lingua ufficiale, e non il croato-serbo; anche grazie ai lavori dei linguisti croati nei decenni precedenti, molti dei quali banditi nella RSFJ ma ripubblicati all’epoca (Greenberg, 2000; Grčević).
Sorpresi dalla dissoluzione della RSFJ, i linguisti serbi non avevano, al contrario dei loro colleghi croati, delle basi scientifiche pronte per sostenere l’esistenza di una lingua serba indipendente; così dovettero discutere su come “inventarsene” una. Emersero tre fazioni: i linguisti a favore dello status quo (ossia i propugnatori dell’identificare la lingua serba con quella parlata in Serbia nel 1990, nei fatti il serbo-croato); i “neo-vukoviti”, che miravano al ripristino della lingua codificata da Karadžić; infine i nazionalisti estremisti, che sostenevano la ricerca di una “lingua serba ortodossa”. Ci fu un acceso dibattito tra questi gruppi, specialmente tra i primi due, più influenti; i neo-vukoviti accusavano i primi di essere troppo rigidi sull’esclusione della pronuncia iecava dal serbo standard che si andava costituendo. Lo status quo prevalse e tutt’oggi l’ecavo rimane la base del serbo standard. (Greenberg, 2000).
Anche in Montenegro ci sono stati tentativi di differenziazione forzata della lingua locale rispetto al serbo-croato, con la proposta, tra le altre, di introduzione di alcune nuove lettere nell’alfabeto. La proposta fu accolta anche in documenti ufficiali dal 2009 al 2017.
Siamo quindi testimoni di un processo di creazione di lingue per volontà politica/scientifica più che per processo naturale, una situazione che genera diversi paradossi, come quello della studentessa citata a inizio articolo, o traduzioni che sono identiche all’originale, o interpretariato legale dal serbo al bosniaco [7].
Qualche linguista, però, ha una soluzione da proporre. Partendo dai lavori di Snježana Kordić, autrice del libro “Jezik i nacionalizam” (“Lingua e nazionalismo”), un gruppo di associazioni e intellettuali di Croazia, Serbia, Montenegro e Bosnia ed Erzegovina hanno elaborato una dichiarazione presentata nel 2017 chiamata “Deklaracija o zajedničkom jeziku / Декларација о заједничком језику” (“Dichiarazione sulla lingua comune”), sottoscritta da oltre 200 letterati, scrittori, scrittrici e intellettuali di varia professionalità.
La Dichiarazione sostiene che le lingue serba, croatia, bosniaca e montenegrina siano diverse varietà di una lingua standard, ossia una lingua pluricentrica. In questo contesto, ogni tentativo di sottolineare artificiosamente le differenze tra le varietà dovrebbe essere scoraggiato, in quanto foriero di tensioni; tutte le varietà hanno pari dignità (ossia, non sono lingue indipendenti ma varietà di uno stesso standard); chiunque può avere il diritto di parlare la varietà che preferisce, senza però abusare di traduzioni inutili.
Bibliografia
- Catherine M. Dolan, “Language in Croatia: Influenced by Nationalism”, University of Yale, 2006.
- Robert D. Greenberg, “Language and Identity in the Balkans: Serbo-Croatian and its Disintegration”, New York: Oxford University Press, 2004.
- Robert D. Greenberg, «Language Politics in the Federal Republic of Yugoslavia: The Crisis over the Future of Serbian», Slavic Review Vol. 59 No. 3 pp. 625-640, Cambridge University Press, 2000.
- Mario Grčević, “Some remarks on recent lexical changes in the Croatian language”
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